venerdì 31 gennaio 2020

Il carisma di Chiara a Bergamo


Cosa mi riserverà Bergamo? Anni fa ho passeggiato per una ventina di minuti per la città alta. È tutta la mia Bergamo.
Questa volta sarà diverso, la vedrò da dentro.
Il giornale “L’Eco di Bergamo”, insieme alla libreria “Alessia” e l’editrice “Città Nuova”, con il patrocinio del Comune e della Provincia di Bergamo, hanno organizzato un convegno “Incontro con”: questa volta con Chiara Lubich in occasione del suo centenario.
A me il primo intervento: “Il contributo del Carisma dell’unità alla Chiesa”.

Inizierò con una serie di immagini che ritraggono Chiara con persone delle più varie Chiese e religioni, con politici, uomini di cultura… Basterà lo scorrere di queste foto per mostrare l’irradiazione del carisma nei più vari dialoghi a cui tutta la Chiesa è chiamata. Spero che appaia il carisma in tutta la sua forza centrifuga. E' uno dei grandi contributi del carisma dell'unità alla Chiesa: rispondere all'invito dei Concilio ad aprirsi ai quattro grandi dialoghi e indicare concretamente come essi possono essere praticati. E' quella "Chiesa in uscita" che tanto sta a cuore a papa Francesco.

Poi mostrerò altre foto in cui Chiara è ritratta in momenti ecclesiali di grande rilevanza e la domanda sarà: ma questo carisma dell’unità è anche per la vita “interna” della Chiesa?
La sua forza d’irradiazione viene proprio dalla profondità della vita "dentro".
Ed eccomi finalmente, dopo questa breve introduzione, al mio tema che consisterà nel mettere in luce quattro parole evangeliche che il carisma dell’unità ripete alla Chiesa in maniera nuova, con una coordinazione tra di essere assolutamente inedita:

Unità: che tutti siano uno. Sottolineerò quel “tutti”: ogni persona è candidata all’unità. Tutti, uomini e donne, bambini e grandi, immigrati e residenti... Ricorderò le parole della Scrittura che tanto colpirono Chiara e che l'ha guidata a vivere l'unità senza barriere: "Chiedete, e vi darò in eredità tutte le genti... fino all'estremità della terra". Questa parola, "Tutti uno", segna il punto di arrivo dell'unità.

Gesù in mezzo: “dove due o più sono uniti nel mio nome”. Sottolineerò quel “due o tre”: tutti è il punto di arrivo, ma il punto di partenza è due o tre: il vicino di casa, il membro della famiglia, il collega di lavoro. E' l'idea delle "cellule" d'unità. La realtà esplosiva e per quell’effetto dirompente - che tutti siano uno - è dato dal “Io in mezzo a loro”.

Amore reciproco: “amatevi l’un altro”. L’unità e Gesù in mezzo sono legati alla reciprocità dell’amore, che è la via per il loro raggiungimento. Qui tutta l’arte di amare di cui Chiara è maestra: amare tutti, sempre, per primi, servendo, facendosi uno....

Gesù Abbandonato: “li amò fino alla fine”. È la qualità e l’estensione dell’amore. Amare fin dove? Occorre giungere “fino alla fine” perché l’unità si realizzi.

Terminerò con il Sogno che Chiara ha fatto ad Amman il 7 dicembre 1999. Mi ricollegherò così con l'introduzione, mostrando l'orizzonte globale dell'unità come Chiara l'ha pensata e vissuta e come vorrebbe fosse attuata dalla Chiesa:

“Sogno che quel sorgere, che oggi si constata nella coscienza di milioni di persone, d’una fraternità vissuta sempre più ampia sulla terra, diventi domani, con gli anni del 2000, una realtà generale, universale.
Sogno con ciò un retrocedere delle guerre, delle lotte, della fame, dei mille mali del mondo.
Sogno l’approfondirsi di un dialogo vivo e attivo tra le persone delle più varie religioni legate fra loro dall’amore, regola d’oro presente in tutti i loro libri sacri.
Sogno un avvicinamento ed arricchimento reciproco tra tutte le culture nel mondo sicché diano origine ad una cultura mondiale che porti in primo piano quei valori che sono sempre stati la vera ricchezza dei singoli popoli e che questi si impongano come saggezza globale”.

giovedì 30 gennaio 2020

Un bigliettino a Igino Giordani



Era già anziano quando l’ho conosciuto. Ricordo quando, nella nostra comunità degli Oblati a Vermicino, aprendo la porta me lo trovavo davanti per una delle sue graditissime improvvisate. Oppure quando stava seduto su una panchina, nel giardino del Centro Mariapoli a Rocca di Papa, circondato da ragazzi, giovani, famiglie intere, in un dialogo semplice e intenso.
Mi sono rimasti impressi soprattutto le brevi visite agli incontri dei religiosi al Centro Mariapoli. Gli bastava darci un saluto. Spesso voleva soltanto farci sapere che aveva sempre vissuto in compagnia dei nostri fondatori e dei nostri santi, che aveva letto i loro scritti e aveva pubblicato biografie e profili su di loro. A volte ci ricordava tempi nei quali aveva sofferto per il divorzio tra noi “consacrati” e lui, laico. «Voi, ci diceva con quell’humor fine che lo caratterizzava, eravate i consacrati e noi laici gli “sconsacrati”. Ora invece siamo tutti membri della stessa famiglia, tutti affratellati». Era per lui una grande gioia costatare la profonda unità che il Movimento dei Focolari aveva creato tra tutte le vocazioni.
Naturalmente non si trovava bene soltanto con noi religiosi. Igino Giordani si trovava bene con tutti, giovani, famiglie, politici, prelati, cristiani di altre Chiese... Niente e nessuno gli era estraneo, lui che era stato padre di famiglia, insegnante, scrittore, giornalista, politico, ecumenista...

Quando l’ho conosciuto Igino Giordani che era ormai anziano. Aveva superato traversie di ogni genere ed era diventato - così appariva ai miei occhi - semplice e mite, puro di cuore, con sulle labbra quel perenne sorriso che lasciava intravedere il superamento di tante prove. Mi sembrava giunto all’approdo sereno dopo una traversata avventurosa e piena di pericoli.
Nel suo diario descrive il tempo della vecchiaia, a cui era giunto, con l’impiego di una metafora, quella dell’albero, che torna spesso nei suoi ultimi scritti.
Il venir meno di affetti e cose, il sopraggiungere di disagi e solitudine, assieme a tutto il retaggio della vecchiaia, non lo percepiva come una situazione negativa. Lo sentiva piuttosto come una “liberazione”, come un provvidenziale distacco dall’effimero. Vi riconosceva il frutto dell’amore e dell’azione di Dio che taglia il superfluo perché Lui solo splenda in pienezza come il Tutto della vita e, in Lui, un nuovo universo di rapporti non più inquinati dalla ricerca di sé o dall’interesse.
Questo è il Giordani che ho conosciuto: senza più frascame, in dialogo diretto e costante con quel Dio di cui si poteva scorgere il riflesso sul suo volto di bambino.

Colomba, dalla Corea, mi annuncia la pubblicazione di un suo libro su Igino Giordani, nel quale riporta un mio biglietto, tradotto in coreano, che avrei scritto a Giordani il 26 agosto 1977. Chissà dove l’ha pescato. Allora avrei scritto:

Ci siamo visti tante volte al Centro Mariapoli.  Prima della mia ordinazione ho avuto la gioia di stare una mezz’ora con te, nel tuo focolare.  Ma fino ad ora non ti avevo mai scritto.  Lo faccio adesso, perché oggi mi pare di avere scoperto un po’ di più: il tuo disegno e il mio rapporto con te.
Come andiamo al Padre nello Spirito Santo, così oggi ho sentito che vado a Chiara in te.
È tutto qui e non voglio sciuparlo con altre parole.  Voglio solo ringraziarti per aver seguito questa vergine.  Dietro a te ci sono anch’io.  Nel tuo patto d’unità con lei ci sono anch’io. Un’anima sola, l’Anima, un corpo solo, quello provocato dall’Eucaristia. 

mercoledì 29 gennaio 2020

Com'è cambiata Roma...



La navetta che trasporta verso le stazioni metro chiuse per manutenzione è stracolma di persone che tornano stanche dal lavoro. Ci sono carrozzine con bambini piccoli, valigie di chi viene dalla stazione ferroviaria… Il piccolo caos quotidiano che alimenta malumore, critiche, rabbia…
Un uomo anziano, dal fondo del bus, fa sentire alta la sua voce: “Com’è cambiata Roma. Una volta eravamo poveri e felice e si cantava. Ora siamo ricchi e arrabbiati e scontenti”.
Ci guardiamo tra tutti… e spunta un sorriso.

martedì 28 gennaio 2020

Eugenio de Mazenod a san Leolino


 

Scartabellando tra i miei fogli trovo una bella lettera di Carmelo Mezzasalma, fondatore della comunità di San Leolino, che mi rimette in comunione con questa comunità e con tutti i carismi:

S. Leonino, 25 gennaio 2005

Carissimo P. Fabio,
grazie alla generosità di tua sorella e di tuo cognato, certamente sollecitati da te, abbiamo avuto il tuo libro "Eugenio De Mazenod raccontato dagli amici" e di cui ti ringraziamo con particolarissimo calore: quale straordinaria idea ti è venuta di scrivere queste singolari "interviste" che ci riportano la bellissima figura di Sant'Eugenio in una maniera così viva e così vicina a tutti noi!
Abbiamo divorato, per così dire, il libro tutto d'un fiato per riportarne un'impressione indimenticabile di come i carismi nella Chiesa, ad onta di tutte le nostre intellettualizzazioni e delle nostre miopie postmoderne, sono sempre realmente vivissimi, solo che vogliamo ascoltarli con l'impegno del cuore.
A dieci anni dalla canonizzazione del Fondatore degli Oblati di Maria Immacolata, questo tuo libro è il modo più suggestivo e più spirituale per evocarne lo spessore umano e spirituale con una precisione e una sinteticità davvero ammirabili e si capisce anche la fierezza, nel senso alto della parola, con cui hai sempre vissuto la spiritualità del tuo nobile Fondatore, l'intima gioia e fedeltà che ti ha portato a seguirlo nella vita della Chiesa e della sua Missione.
Grazie, grazie di cuore per questa efficacissima testimonianza che ci dà speranza e tanto incoraggiamento a vivere, a nostra volta, la fede e la missione anche oggi.
Ah, davvero Sant'Eugenio de Mazenod non è una figura del passato, è una splendida figura di Fondatore e di Santo che può essere onorato anche con una forma moderna di dialogo come l'intervista, ma per farne risaltare meglio quell'anima apostolica di cui, ahimè, oggi sembriamo tutti difettare!

Ma, a questo proposito, devo aggiungere qualcosa di personale.
Dopo aver letto questo tuo libro, sono tornato immediatamente, e per la seconda volta, alla tua biografia "Eugenio De Mazenod. Un carisma di missione e di comunione". E questa volta è accaduto qualcosa di straordinario, a livello spirituale ho trascorso giorni bellissimi di preghiera e di meditazione con Sant'Eugenio, confrontandomi, passo dopo passo, con la sua esperienza e con la sua fede e, alla fine, ne ho ricavato una grande grazia anche per ciò che riguarda il piccolo "seme" della nostra Comunità ancora nei suoi difficili inizi, indubbiamente a motivo della cultura in cui viviamo.
E il carisma degli Oblati, a cui tu appartieni per grazia di Dio, ha conosciuto inizi meno difficili? Tu non nascondi niente, nell'uno e nell'altro tuo libro, mentre si fa sempre più chiara la constatazione che Dio agisce sempre nelle luci e nelle ombre della storia con la sua Croce benedetta.
S. Eugenio, in povere parole, mi ha comunicato una partecipazione profonda al mistero di comunione e di missione di Gesù che non è possibile dire con un discorso umano. Sia ringraziato il Signore per questo dono tanto inaspettato e immeritato.

Ah, se tutti noi riuscissimo a capire di come i carismi nella Chiesa possono trarre alimento e forza l'uno dall'altro! I nostri particolarismi, i nostri infausti soggettivismi, in questo campo delicato e seminato solo dallo Spirito Santo, dovrebbero essere deplorati con ogni mezzo tanto sono freddi e meschini: Gesù opera sempre nell'unità della Chiesa con schizzi e pennellate differenti, ma creando sempre una mirabile e imprendibile armonia che possiamo intuire soltanto nella preghiera più autentica e più viva. (…)

Tuo aff.mo in Cristo
Carmelo Mezzasalma
E tutti della comunità di San Leolino

lunedì 27 gennaio 2020

Oblati e Suore della Sacra Famiglia insieme


Le Suore della Sacra Famiglia di Bordeaux furono fondate nel 1820 da padre Pietro Benvenuto Noailles (27 ottobre 1793 - 8 febbraio 1861). Questi aveva cercato di creare una comunità di sacerdoti a cui affidare l’Associazione della Santa Famiglia, che comprendeva nove branche più migliaia di laici, ma il tentativo non riuscì. Propose all'arcivescovo di Bordeaux di prenderla sotto le sue cure, poi si rivolse ai gesuiti, ai domenicani, ai missionari del Calvario di Tolosa. Niente.

Nel novembre 1856, padre Delpeuch, un missionario Oblato di Talence, arrivò a Martillac, per predicare una missione parrocchiale. La situazione nella parrocchia era piuttosto dolorosa. Il parroco, pochi giorni prima, aveva cacciato dalla chiesa tutti gli uomini della parrocchia. P. Delpeuch raccomandò la missione alle preghiere di un gruppo di suore di vita contemplativa che vivevano nel territorio della parrocchia e che appartenevano all’Associazione di padre Noailles, poi iniziò le visite a tutte le famiglie, invitando gli uomini ad un incontro tutto per loro. La missione ebbe un gran successo.
Così padre Delpeuch propose alle suore, un’unione spirituale di preghiere tra le due congregazioni. Naturalmente, avrebbero consultato i rispettivi Fondatori.
Così l’Oblato entrò in relazione con il Fondatore della Sacra Famiglia. Padre Delpeuch raccontò delle difficoltà che aveva incontrato nella missione di Martillac, dei mezzi che aveva usato per superarle e dei risultati che aveva ottenuto. Al che padre Noailles rispose: "Venti anni fa predicavo la stessa missione, trovavo le stesse difficoltà, utilizzavo gli stessi mezzi e ottenevo gli stessi risultati". Sorse subito una bella amicizia tra i due.

Fu così che alcuni mesi più tardi p. Noailles andò a trovare p. Delpeuch dicendogli che pensava di affidare l’Associazione delle sue suore agli Oblati di Maria Immacolata.
L’Oblato gli disse: “L’unico che può convincere mons. de Mazenod ad accettare questo progetto è l'arcivescovo di Tours”. “Sono già stato da lui e ci metterà una buona parola”. L’arcivescovo Guibert era infatti il figlio prediletto di mons. de Mazenod, un Oblato nel quale aveva tantissima fiducia.
Di ritorno dalla sua visita in Inghilterra, il vescovo de Mazenod passò a salutare l’amico Guibert a Tours che subito gli parla del progetto di affiliazione con le suore. De Mazenod conosceva già le suore: anni prima, nell'ottobre 1840, le aveva chiamato a Marsiglia per una fondazione nella sua città episcopale, aveva benedetto la casa e celebrato la prima messa nella loro cappella. Ma mai avrebbe pensato ad associarle ai suoi Oblato. Con Guibert andò subito a Bordeaux a incontrare p. Noailles, a visitare le case delle suore…

In breve, all’inizio di gennaio 1858, si firmava un documento di “affiliazione” delle suore agli Oblati. Da allora comincia una grande storia che vedrà le due Società insieme in tanti luoghi di missione…


Due anni dopo i due fondatori muoiono a poca distanza l’uno dall’altro. Sul letto di morte Noailles dice: “Voglio che le mie Figlie indirizzino verso i cari Oblati di Maria l’affetto e la fiducia che mi hanno sempre mostrato... Il mio desiderio più ardente è che li rendano felici come hanno reso felice me... Ma agli Oblati chiedo per le suore la tenerezza, la devozione paterna che il buon Signore mi ha dato nei loro confronti”.
E de Mazenod: "Dite alle suore che le ho molto amate. Dite loro che voglio che le due Famiglie siano sempre ben unite, che formino una sola famiglia: saranno felici e forti in questa unione fraterna”.

Oltre agli aspetti giuridici, in base ai quali il Superiore Generale degli Oblati era il Direttore Generale dell’Associazione della Sacra Famiglia, mi sembra che potremmo trovare nel rapporto tra Oblati e Sacra Famiglia alcune costanti:
1. La consapevolezza di formare una sola famiglia;
2. Il sostegno reciproco nella preghiera e nella comunione dei "meriti";
3. Una guida spirituale da parte degli Oblati, che si è espressa attraverso ritiri, confessioni e accompagnamento personale delle comunità;
4. La collaborazione concreta in molte aree e luoghi dell'apostolato;
5. Un aiuto reciproco per le "vocazioni": tante famiglie avevano un figlio e uno zio Oblato e una figlia o una nipote suora della Santa famiglia…


Venerdì, 24 gennaio, il consiglio generale delle Suore è venuto a casa nostra a incontrare il Consiglio generale degli Oblati. Una serata bellissima, nella quale – documenti alla mano – ho raccontato nei particolari la storia della nostra affiliazione…

domenica 26 gennaio 2020

Agnese: Mi avrà chi mi ha scelta per primo


Ambrogio, Agostino, Damaso, Girolamo, Massimo di Torino, Gregorio Magno, Beda…. Ognuno di questi grandi si è sentito ispirato a parlare di una ragazzina di 12, 13 anni, una delle tante martiri di Roma dei primi secoli, di cui sappiamo pochissimo. Sappiamo comunque che ha subito il martirio ed è quanto basta.

“Sono promessa a Cristo, più bello del sole e della luna, signore degli angeli. – Così le fa dire la liturgia – Con il suo anello mi ha impegnata e ha posto sul mio capo la corona di sposa. Rallegratevi, fate festa con me, ora vivo accanto a lui nella splendida dimora dei santi. Ti ho tanto cercato, e ora contemplo il tuo volto; tanto sperato, e ora sei mio; in terra ti ho amato senza misura, ora sono tua per sempre”.
Mentre al prefetto romano che la interrogava e le propone le nozze per non essere uccisa, avrebbe detto: “Mi avrà che mi ha scelta per primo”.
Le avrà dette, non le avrà dette tutte queste parole? 
Ha fatto ben di più che dire belle parole: ha dato la vita!
Sgozzata in quella che oggi è Piazza Navona, è sepolta sulla via Nomentana, nelle catacombe che prendono nome da lei.

Nella mensile visita ai “santi romani”, sabato siamo stati nella basilica a lei dedicata, abbiamo visitato le catacombe, i resti imponenti della basilica fatta costruire da Costanza, la figlia dell’imperatore Costantino, e il suo mausoleo, un autentico gioiello con mosaici fantasiosi.
Ancora una volta storia, arte e spiritualità si fondono in armonia e danno sprone al cuore.

sabato 25 gennaio 2020

La Domenica della parola di Dio


Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno (Mt 4, 12-23)

In questa terza domenica del tempo ordinario si celebra per la prima volta, su invito di papa Francesco, la “Domenica della parola di Dio”. In questa occasione, leggiamo nel Motu proprio Aperuit illis, «sarà importante (…) che nella celebrazione eucaristica si possa intronizzare il testo sacro, così da rendere evidente all’assemblea il valore normativo che la Parola di Dio possiede (…). I parroci potranno trovare le forme per la consegna della Bibbia, o di un suo libro, a tutta l’assemblea in modo da far emergere l’importanza di continuare nella vita quotidiana la lettura, l’approfondimento e la preghiera con la Sacra Scrittura, con un particolare riferimento alla lectio divina».

Basteranno questi gesti?
Quando Paolo rivolgendosi ai Corinzi afferma: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (1 Cor 4, 15), mostra chiaramente che annunciare il Vangelo significa generare i fedeli. Anche per Paolo, come per i Dodici, è vero che attraverso la Parola si “generarono le Chiese”.
L’annuncio della Parola di Dio non è semplicemente una sorta di insegnamento, una predicazione, ma la comunicazione di una vita. Le persone cui ci si rivolge annunciando il Vangelo dovrebbero vivere l’esperienza di essere rigenerati.

Dunque dare il libro del Vangelo o “generare in Cristo mediante il Vangelo”?
Per generare una vita occorre avere in sé la vita. Per generare mediante il Vangelo occorre essere Vangelo vivo.
Testimoni dunque, ossia coinvolti in prima persona in quello che annunciano: occorre aver udito, visto, contemplato, toccato. Si comunica un vissuto, un’esperienza. Altrimenti è erudizione, forse catechesi, ma non si genera la vita.

Ogni nostra proclamazione della Parola dovrebbe concludersi come quella di Gesù nella sinagoga di Nazareth: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4, 21). Chi ci ascolta dovrebbe vedere in noi il compimento, l’attuazione di quello che annunciamo. Soltanto così la Parola genera la vita e potremo dire, come Paolo: “vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo”.


venerdì 24 gennaio 2020

Il mio rapporto con Eugenio de Mazenod


25 gennaio 1816: iniziava l'avventura di sant'Eugenio con i suoi primi compagni... Lì è iniziata anche la mia...

La chiamata a seguire Gesù è la stessa per tutti, continuazione di una storia iniziata sul lago di Galilea, quando Gesù, passando su quelle rive e vedendo Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, rivolse loro l’invito: “Venite dietro a me…”. È la stessa per tutti e nello stesso tempo diversa per ognuno.
Perché ho deciso di seguirlo nella famiglia dei Missionari Oblati di Maria Immacolata? Non è facile rispondere. Ho raccontato più volte come finii per andare a Firenze a incontrarli e, fin dal primo momento, fui toccato dallo spirito di famiglia che vi regnava e dalla semplicità di vita. Da allora gli Oblati sono diventati la mia famiglia. Ho conosciuto loro prima del loro fondatore.


Il fondatore davanti a me

Fu soltanto durante l’anno di noviziato sco­prii il fondatore, Eugenio de Mazenod, allora non ancora proclamato beato. Leg­gere la sua vita e i suoi testi fu un’autentica rivelazione. Come scrissi più tardi al superiore generale, trovavo con lui una partico­lare consonanza, mi sentivo espresso da lui. Con mia sorpresa il Superiore generale pubblicò quella mia lettera in uno scritto indirizzato a tutta la Con­gregazione, quale testimonianza di come i giovani “sentivano” il Fonda­tore. A mano a mano che leggevo i testi di Eugenio de Mazenod, tra­scrivevo e traducevo dal francese i passi che più mi colpivano. Quando la pic­cola raccolta cadde sotto gli occhi del superiore provinciale la fece subito pubblicare. Fu così che, ancora novizio, curai il mio primo scritto sul fondatore.
In quel periodo iniziava la mia frequentazione del Movimento dei religiosi e i primi incontri con Chiara Lubich, che ci indirizzava costantemente verso i nostri fondatori. Era proprio il giorno del mio compleanno quando, nel 1974, rivolgendosi a noi giovani religiosi, ella ci invitava a «studiare bene il vostro fondatore agli inizi, nei primi anni della sua vita. Non per imitarlo pedestremente – perché i santi non vanno imitati in modo pedestre – ma per fare la volontà di Dio come lui l’ha fatta».
Il fondatore da giovane! Era il periodo della sua esperienza che più mi affascinava. Scrissi la mia prima biografia su di lui in occasione della beatificazione e sulla copertina volli pubblicare la foto del ritratto di quando aveva attorno ai trent’anni: giovane appunto, volitivo, con un fuoco dentro che traspare dagli occhi; gli anni nei quali si lanciava in un annuncio travolgente del vangelo in città e in campagna, capace di trascinare decine di giovani, di radunare gente semplice. desiderosa di ascoltare finalmente la parola di Dio in un linguaggio a loro comprensibile, di attirate dietro a sé compagni che ne avrebbero condiviso vita e ideali… Non apprezzavo invece le foto che lo ritraevano anziano, con la lunga capigliatura bianca, il volto un po’ stanco e consumato dalla fatica degli anni.
Il periodo della prima formazione fu dunque quello nel quale mi avvicinai al fondatore. Egli mi stava davanti come un maestro che insegna e come un modello che mostra come seguire Gesù, come vivere il Vangelo, come servire la Chiesa.

Appena terminata la prima formazione fui chiamato a partecipare ad un grande congresso organizzato dal governo centrale degli Oblati sul carisma del fondatore. Ero il più giovane del gruppo. Per tre settimane studiammo a fondo la storia passata e presente della Congregazione per coglierne gli aspetti fondanti. Mi accorsi di avere già assimilato tanti elementi del carisma e altri mi si rendevano particolarmente vivi. Poi tardi fui invitato a dare il mio apporto alla riscrittura delle Regole con un lavoro di ricerca d’ordine storico.
Mi pareva che il mio fondatore non stesse più davanti a me, ma che iniziasse a rivivere in me, al punto che cominciavo ad offrire un contributo alla mia famiglia religiosa. Soltanto allora potevo dire che la mia prima formazione era terminata.
In quegli anni nacquero i “Quaderni di Vermicino”, una serie di studi sul fondatore scritti nello studentato di teologia a Vermicino (Frascati) dove nel frattempo avevo assunto il compito di formatore. Erano un’espressione dell’interesse nuovo di tutta la comunità per il fondatore. In uno dei primi numeri, dal titolo Una comunità di fronte al suo fonda­tore, scrissi quello che avrebbe dovuto essere un po’ il nostro pro­gramma. Raccontai, in breve, anche la genesi del nostro andare in­contro al fondatore, un’esperienza che avevo condiviso e continuavo a condividere con i miei compagni di studio.

Il fondatore dietro di me

Intanto la mia partecipazione alla vita dell’Opera di Maria e in particolare al Movimento dei religiosi, che ne è una delle diramazioni, andava intensificandosi e con essa i rapporti di comunione con religiosi dei più diversi carismi. Fin dal primo incontro, già al termine del noviziato, ero rimasto affascinato dalla bellezza dell’unità che regnava tra loro, dalla tensione sincera verso la radicalità evangelica e dalla santità che tutti li legava. Iniziavo a comprendere meglio anche la bellezza delle altre vocazioni e ne gioii.
Come quei religiosi incontrati all’inizio della mia formazione, anch’io sono stato trascinato in questo vortice di unità che mi ha portato a trovarmi regolarmente con membri di differenti istituti, di tutte le parti del mondo. Chiara Lubich aveva spiegato il senso di una tale comunione. «Il carisma dell’unità – ci diceva nel 1974 – mette in moto i figli dei fondatori, e fa che si conoscano e si uniscano tra di loro. Siccome la carità è illuminante, ognuno viene illuminato sulla propria vocazione, che sente dentro di sé, perché se quel religioso è figlio di un Santo, ha naturalmente una grazia di figliolanza dentro di sé (…). La carità ravviva in loro il sangue del fondatore, lo fa circolare e quel religioso diventa sempre più benedettino, sempre più francescano, ecc.».
Questa esperienza di comunione si accompagnava con la preparazione della mia tesi di dottorato che verteva sul “carisma del fondatore”, non propriamente il mio, ma sulla figura del fondatore in quanto tale. Fu l’occasione per studiare da vicino altri fondatori e altri carismi. Mi sembravano tutti così belli che avrei voluto essere di ognuno di loro: Francescano, Gesuita, Vincenziano, Passionista... Mi interessavo degli altri fondatori come del mio, degli altri istituti come del mio.
Iniziavo intanto l’insegnamento della teologia spirituale e della teologia della vita consacrata all’Istituto Claretianum, all’Università Lateranense, a quella Salesiana… Davo corsi e conferenze a noviziati, a convegni di religiosi e religiose, i contributi più vari in diversi ambiti ecclesiali… Mi sentivo aprire sulla Chiesa e sulle diverse famiglie religiose, come spinto a lavorare sempre più per il raggiungimento dell’Ut omnes chiesto da Gesù al Padre: Un omnes… che “tutti” siano uno. Al punto che ad un certo momento ho avuto l’impressione che il mio fondatore si facesse sempre più lontano, di aver perduto la mia stessa famiglia religiosa.

Scrivevo in quei giorni: «Possibile che il mio fondatore si sia eclissato così improvvisamente, senza preavviso e senza ragione? Perché è scomparso dal mio orizzonte? L’ho amato, lo amo ancora, ma non lo vedo più davanti a me, non lo sento più. Sono orfano, non ho più padre. Quando lo incontrai ne rimasi affascinato. La sua vita e i suoi scritti furono un’autentica rivelazione. Avvertivo una sintonia profonda con i suoi idealiHo ripercorso i luoghi della sua esistenza alla ricerca delle sue tracce: Aix-en-Provence, Sain-Laurent du Verdon, Marsiglia... Volevo conoscerlo più da vicino, nel suo stesso ambiente. L’eleganza della città natale, il fuoco della Provenza, i colori di Cezanne, il maestrale improvviso e violento mi hanno parlato di lui. L’ho sentito vicino questo santo senza miracoli, senza vistosi fenomeni mistici, passionale, impulsivo, sognatore, di grandi ideali... Ed ora dov’è? dove s’è nascosto?
«E la mia famiglia? Non sono, gli Oblati, la famiglia più unita che esista sulla terra? Dove sono i miei fratelli? Anche loro mi sono assenti. L’ho amata alla follia, la mia famiglia. Perché ora mi sento senza famiglia?».

Finalmente ho compreso: «Ti avevo davanti e più mi avvicinavo a te, più mi diventavi familiare. Ma non sei tu la meta. Davanti a te non avevi un fondatore da seguire: avevi Gesù! Lo stesso vuoi da me. Non ti vedo più perché non ti ho più davanti: forse ti ho dentro di me. Non ti vedo più perché mi fai guardare quello che guardavi tu, mi fai seguire Colui che seguivi tu: ho davanti a me Lui!».
Ogni fondatore porta a Cristo. Il fondatore non chiama a sé, orienta a Cristo. Indica il cammino di sequela di Cristo. Il «ritorno al fondatore» implica un ritorno ancora più radicale: giungere là dove egli è giunto: direttamente a Cristo e al Vangelo.
Se il cammino formativo inizia col guardare al fondatore e seguirlo, esso deve condurre al punto nel quale egli passa dietro e spinge in avanti, a creare nell’oggi quello che egli aveva operato nel passato. Non si vive più per se stessi ma per la Chiesa. È soltanto a questo punto che si può veramente compiere l’opera di Dio, come l’ha compiuta il fondatore. Si è il fronte avanzato del carisma, in prima linea.

Il Fondatore accanto a me

Gli ultimi vent’anni della mia vita li ho vissuti in quella particolarissima comunità che è il Centro internazionale del Movimento dei religiosi, un piccolo gruppo di uomini proveniente da ordini e istituti religiosi diversi e di differenti nazionalità, a servizio di centinaia di religiosi che, in tutto il mondo, hanno accolto la spiritualità dell’unità propria dell’Opera di Maria e da essa si lasciano ispirare nell’attuazione del proprio carisma. Un servizio che, con il mandato dei miei superiori, mi ha portato a viaggiare per i più diversi Paesi del mondo e ad incontrare religiosi dei più diversi carismi. La mia famiglia si era allargata ad abbracciare ogni altra famiglia religiosa.
La lontananza fisica dalla comunità oblata e la convivenza quotidiana con religiosi di altri istituti avrebbe potuto far pensare che avrei perduto la mia “identità” carismatica. In effetti, pur continuando a lavorare anche per il mio istituto, il mio impegno maggiore, anche come tempo, era per il Movimento dei focolari e per le altre famiglie religiose.
Personalmente ero invece convinto che quanto più fossi entrato nella dinamica della comunione, dimenticando me (anche ciò che è più proprio di me, il carisma e il mio fondatore) per vivere l’altro e amarlo nelle realtà più profonda di sé (il suo carisma e il suo fondatore), tanto più avrei attuato la “comunione dei santi” e in essa avrei trovato la mia autentica realtà. Credevo a quanto aveva scritto Chiara Lubich: «Quando Gesù aveva detto: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro, non aveva escluso certo di sottintendere anche: Dove un francescano e un benedettino, o un carmelitano e un passionista, o un gesuita e un domenicano… sono uniti nel mio nome, lì sono io...”. E se era veramente Gesù fra loro, il risultato sarebbe stato che l’incontro con Lui avrebbe fatto il france­scano miglior francescano, e il domenicano miglior domenicano».

Dieci anni fa sono stato chiamato dal superiore generale al centro della Congregazione per dare vita a un nuovo ufficio per lo studio e la ricerca sulla vita e la missione degli Oblati. Mi è stato affidato il tesoro più prezioso della Congregazione, la custodia dell’eredità carismatica, con il compito di introdurre soprattutto la nuova generazione nella conoscenza del fondatore, della storia dell’istituto e nella riflessione sul vissuto di oggi e sulla risposta da dare alle nuove sfide.
Eccomi di nuovo, come al tempo del mio noviziato, a riprendere in mano le fonti, a riscoprire, far riscoprire e diffondere il patrimonio di vita custodito negli archivi, che non sono tombe ma luoghi sorgivi di ispirazione. Ho dato vita ad una rivista di studio, “Oblatio”, nelle tre lingue principali dell’Istituto, francese, inglese, spagnolo. Ho iniziato a contattare le università e gli istituti superiori di cultura della Congregazione. Sto offrendo ritiri sul carisma ormai in tutti i continenti… Soprattutto sto trovando un rapporto nuovo con sant’Eugenio de Mazenod.
In questa nuova fase della mia vita, anche grazie al nuovo compito e all’età che avanza, sta nascendo con lui un rapporto diverso, forse più affettivo. Adesso mi piace la foto che lo ritrae vecchio, ormai settantottenne, segnato dalle prove, da cui traspare un certo affanno e una stanchezza sofferta. Mi pare di capirlo meglio. Continua a essere un maestro da ascoltare, un santo da imitare, un padre da amare, ma soprattutto sta diventando un intercessore da pregare. Non è più davanti a me che mi indica la via, non più dietro di me a spingermi in avanti: è accanto a me, un fratello, un amico con il quale condividere preoccupazioni, progetti, sogni…

giovedì 23 gennaio 2020

E la promessa?



“Che cosa mi darai?”. Se lo domandava e se lo ripeteva, come un’ossessione: “Che cosa mi darai?”. Si sentiva deluso. Più ancora, tradito. Si girava e rigirava sulla stuoia, con un’agitazione crescente. La notte era fredda, ma aveva gettato via il mantello che lo copriva e continuava a domandare: “Che cosa mi darai?”. Sara che gli dormiva accanto si svegliò, gli si avvicinò, l’abbracciò. “Cosa c’è?”. Gli toccò la fronte. “Stai bruciando, hai la febbre. Mettiti quieto, cerca di riposare”.
Lo ripeté come un grido: “Che cosa mi darai?”. Si alzò e uscì dalla tenda.
Che silenzio là fuori, e che pace. Strideva col tumulto che lo agitava.
Era ancora turbato dalle voci udite poche ore prima, quando il sole era al tramonto e inondava di luce calda la steppa d’intorno. Aveva ancora nelle orecchie e, più abbarbicati nel cuore, i nomi dei bambini del clan che le mamme chiamavano per cena, all’entrata delle tende. Li conosceva tutti quei nomi, ad uno ad uno, e ognuno gli disegnava un volto. La sua tribù, che amava, che gli era fedele, che guidava ormai da anni di pascolo in pascolo in quella terra straniera che lentamente gli diventava familiare. Erano i suoi figli, come lo erano i loro genitori. Era la sua tribù. Ne era il capo indiscusso, amato e temuto, venerato come un patriarca.
Ma non erano suoi. Quella sera, come ogni altra sera, ormai da anni e anni, sua moglie non chiamava nessun figlio per la cena. Non aveva figli, lui.
Ormai era anziano. Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene come quando era giovane, la forza di un bufalo. Ma era anziano. E senza figli.
Sarebbero passati pochi anni e presto la sera, nelle tende, quando si narrano le storie dei padri, nessuno l’avrebbe più ricordato, sparito come il sogno d’una notte.
Nel silenzio della notte, sotto un cielo d’un mare di stelle, gridò, senza voce, il suo lamento:
M’hai strappato dalla mia terra,
dalla mia gente,
dai miei dei
e l’hai lanciato verso un orizzonte
che non ha meta
in un’avventura
che ha perso ogni sapore.
Perché
Che cosa mi darai?
Me ne vado senza figli.
Mio erede sarà il mio servo,
fedele,
ma non carne della mia carne,
non sangue del mio sangue…


Penso a questo grido di Abramo ogni volta che vedo persone sole. Magari hanno tutto. Quando tornano a casa dal lavoro, trovano un bell’appartamento, possono rilassarsi, uscire di nuovo a divertirsi… e poi?
E quanti hanno visto il fallimento della propria famiglia e il proprio con quella. Chi è attraversato dal dolore, dalla perdita di persone amate. Chi non riesce nella vita. Chi si sente insicuro, chi conosce il dubbio, chi è fragile, chi conosce l’oscurità…
Abramo non è il solo a chiedere a Dio “Che cosa mi darai?”.
“Fino a quando, o Signore,
mi dimenticherai?
Sarà forse per sempre?  gridava Davide in un suo salmo –
Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?
Fino a quando avrò l’ansia nell’anima

e l’affanno nel cuore tutto il giorno? (…)
Guarda, rispondimi, o Signore,
mio Dio!” (Salmo 13, 1-3).


Estella è sbarcata a Roma dal Sud America per gli studi. Ragazza solare, brillante. Ha davanti un futuro pieno di progetti e di luce. Abbiamo un appuntamento, assieme a un piccolo gruppo di amici, in una saletta alla periferia di Roma. Ma troviamo la porta chiusa e nessuno che ci aspetta. Ci sediamo per terra accanto a un’aiola, lungo la strada. L’ambiente è un po’ squallido e si sente il freschetto settembrino. Niente comunque ci ostacola nella conversazione calorosa.
D’improvviso, fuori contento, Estella mi interpella: “Perché non ci parli delle promesse che Gesù ci ha fatto? Mi hanno detto che sono tante!”.
Questo libro è nato così, da questa domanda estemporanea di Estella.
E prima di pensare a Gesù, mi è subito venuto alla mente Abramo, forse perché da poco tempo ero stato alla quercia di Mambre, il punto fermo nel perenne peregrinare del Patriarca. C’è ancora la quercia antica, o almeno asseriscono che è proprio quella. Vicino la sua tomba a Ebron, nella grotta di Macpela.

“Abramo, Abramo”.
Finalmente si udì la voce di Dio.
“Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”, disse Dio ad Abramo, e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza” (Genesi 15, 1-5).
Era una promessa!
Per accoglierla Abramo dovette guardare in alto. Solo dall’alto viene la promessa.
Abramo credette, “sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli (Romani 4, 18). E' l'uomo della speranza, nostro padre nelle fede.



mercoledì 22 gennaio 2020

I 100 anni di Chiara



Fino a questo momento sono quasi 4.000 le visualizzazioni del blog che ho postato ieri sera:
Continuano ad arrivarmi messaggi:

Sono commossa, non ho potuto trattenere le lacrime. Abbiamo vissuto quei giorni e tu hai saputo descriverli perfettamente.

Leggendo quello che tu scrivi, mi viene da pensare allo scritto di Chiara dove parla di Maria e dice..."la voglio rivedere in te...". Credo che quel giorno, al funerale, tu abbia visto tante piccole "Chiara", che ancora oggi provano (proviamo) ad essere tante piccole "Maria". Grazie Chiara per la Vita che ci hai donato.

Ti ringrazio per come condividi oggi la tua vita con Chiara, con Chiara fatta Gesù, con Gesù fatta Chiara. Io ti guardo, ti ascolto, ti leggo e la vedo.

Riguardo alla foto dove il Centro dei religiosi è davanti a Chiara: Questa foto è particolarmente bella. Voi in piedi sembrate uno specchio.  Grazie!

Ci hai fatto un grande dono riproponendo e ancora condividendo un tuo prezioso scritto. Ma la preziosità è l'anima che hai donato di quell'incontro con Chiara: qualcosa di molto intimo e personale eppure lo hai donato: anche questo è la ricchezza del Carisma di cui Chiara si è fatto strumento, oggi diremmo per la Chiesa tutta. Nel nostro amore per lei è un continuo perderla per l'umanità e nello stesso tempo un custodirla in noi con grande sacralità.

Altri messaggi su "commenti" del blog:
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Al Teatro dell’Eliseo, gremitissimo, una serata straordinaria, con il ricordo di Rutelli che vent’anni fa, in questo stesso giorno, insigniva Chiara della cittadinanza di Roma; con la presentazione del libro “Conversazioni” fatta a tante voci. 
Auguri Chiara per i tuoi 100 anni! Vivi con noi.