venerdì 24 gennaio 2020

Il mio rapporto con Eugenio de Mazenod


25 gennaio 1816: iniziava l'avventura di sant'Eugenio con i suoi primi compagni... Lì è iniziata anche la mia...

La chiamata a seguire Gesù è la stessa per tutti, continuazione di una storia iniziata sul lago di Galilea, quando Gesù, passando su quelle rive e vedendo Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, rivolse loro l’invito: “Venite dietro a me…”. È la stessa per tutti e nello stesso tempo diversa per ognuno.
Perché ho deciso di seguirlo nella famiglia dei Missionari Oblati di Maria Immacolata? Non è facile rispondere. Ho raccontato più volte come finii per andare a Firenze a incontrarli e, fin dal primo momento, fui toccato dallo spirito di famiglia che vi regnava e dalla semplicità di vita. Da allora gli Oblati sono diventati la mia famiglia. Ho conosciuto loro prima del loro fondatore.


Il fondatore davanti a me

Fu soltanto durante l’anno di noviziato sco­prii il fondatore, Eugenio de Mazenod, allora non ancora proclamato beato. Leg­gere la sua vita e i suoi testi fu un’autentica rivelazione. Come scrissi più tardi al superiore generale, trovavo con lui una partico­lare consonanza, mi sentivo espresso da lui. Con mia sorpresa il Superiore generale pubblicò quella mia lettera in uno scritto indirizzato a tutta la Con­gregazione, quale testimonianza di come i giovani “sentivano” il Fonda­tore. A mano a mano che leggevo i testi di Eugenio de Mazenod, tra­scrivevo e traducevo dal francese i passi che più mi colpivano. Quando la pic­cola raccolta cadde sotto gli occhi del superiore provinciale la fece subito pubblicare. Fu così che, ancora novizio, curai il mio primo scritto sul fondatore.
In quel periodo iniziava la mia frequentazione del Movimento dei religiosi e i primi incontri con Chiara Lubich, che ci indirizzava costantemente verso i nostri fondatori. Era proprio il giorno del mio compleanno quando, nel 1974, rivolgendosi a noi giovani religiosi, ella ci invitava a «studiare bene il vostro fondatore agli inizi, nei primi anni della sua vita. Non per imitarlo pedestremente – perché i santi non vanno imitati in modo pedestre – ma per fare la volontà di Dio come lui l’ha fatta».
Il fondatore da giovane! Era il periodo della sua esperienza che più mi affascinava. Scrissi la mia prima biografia su di lui in occasione della beatificazione e sulla copertina volli pubblicare la foto del ritratto di quando aveva attorno ai trent’anni: giovane appunto, volitivo, con un fuoco dentro che traspare dagli occhi; gli anni nei quali si lanciava in un annuncio travolgente del vangelo in città e in campagna, capace di trascinare decine di giovani, di radunare gente semplice. desiderosa di ascoltare finalmente la parola di Dio in un linguaggio a loro comprensibile, di attirate dietro a sé compagni che ne avrebbero condiviso vita e ideali… Non apprezzavo invece le foto che lo ritraevano anziano, con la lunga capigliatura bianca, il volto un po’ stanco e consumato dalla fatica degli anni.
Il periodo della prima formazione fu dunque quello nel quale mi avvicinai al fondatore. Egli mi stava davanti come un maestro che insegna e come un modello che mostra come seguire Gesù, come vivere il Vangelo, come servire la Chiesa.

Appena terminata la prima formazione fui chiamato a partecipare ad un grande congresso organizzato dal governo centrale degli Oblati sul carisma del fondatore. Ero il più giovane del gruppo. Per tre settimane studiammo a fondo la storia passata e presente della Congregazione per coglierne gli aspetti fondanti. Mi accorsi di avere già assimilato tanti elementi del carisma e altri mi si rendevano particolarmente vivi. Poi tardi fui invitato a dare il mio apporto alla riscrittura delle Regole con un lavoro di ricerca d’ordine storico.
Mi pareva che il mio fondatore non stesse più davanti a me, ma che iniziasse a rivivere in me, al punto che cominciavo ad offrire un contributo alla mia famiglia religiosa. Soltanto allora potevo dire che la mia prima formazione era terminata.
In quegli anni nacquero i “Quaderni di Vermicino”, una serie di studi sul fondatore scritti nello studentato di teologia a Vermicino (Frascati) dove nel frattempo avevo assunto il compito di formatore. Erano un’espressione dell’interesse nuovo di tutta la comunità per il fondatore. In uno dei primi numeri, dal titolo Una comunità di fronte al suo fonda­tore, scrissi quello che avrebbe dovuto essere un po’ il nostro pro­gramma. Raccontai, in breve, anche la genesi del nostro andare in­contro al fondatore, un’esperienza che avevo condiviso e continuavo a condividere con i miei compagni di studio.

Il fondatore dietro di me

Intanto la mia partecipazione alla vita dell’Opera di Maria e in particolare al Movimento dei religiosi, che ne è una delle diramazioni, andava intensificandosi e con essa i rapporti di comunione con religiosi dei più diversi carismi. Fin dal primo incontro, già al termine del noviziato, ero rimasto affascinato dalla bellezza dell’unità che regnava tra loro, dalla tensione sincera verso la radicalità evangelica e dalla santità che tutti li legava. Iniziavo a comprendere meglio anche la bellezza delle altre vocazioni e ne gioii.
Come quei religiosi incontrati all’inizio della mia formazione, anch’io sono stato trascinato in questo vortice di unità che mi ha portato a trovarmi regolarmente con membri di differenti istituti, di tutte le parti del mondo. Chiara Lubich aveva spiegato il senso di una tale comunione. «Il carisma dell’unità – ci diceva nel 1974 – mette in moto i figli dei fondatori, e fa che si conoscano e si uniscano tra di loro. Siccome la carità è illuminante, ognuno viene illuminato sulla propria vocazione, che sente dentro di sé, perché se quel religioso è figlio di un Santo, ha naturalmente una grazia di figliolanza dentro di sé (…). La carità ravviva in loro il sangue del fondatore, lo fa circolare e quel religioso diventa sempre più benedettino, sempre più francescano, ecc.».
Questa esperienza di comunione si accompagnava con la preparazione della mia tesi di dottorato che verteva sul “carisma del fondatore”, non propriamente il mio, ma sulla figura del fondatore in quanto tale. Fu l’occasione per studiare da vicino altri fondatori e altri carismi. Mi sembravano tutti così belli che avrei voluto essere di ognuno di loro: Francescano, Gesuita, Vincenziano, Passionista... Mi interessavo degli altri fondatori come del mio, degli altri istituti come del mio.
Iniziavo intanto l’insegnamento della teologia spirituale e della teologia della vita consacrata all’Istituto Claretianum, all’Università Lateranense, a quella Salesiana… Davo corsi e conferenze a noviziati, a convegni di religiosi e religiose, i contributi più vari in diversi ambiti ecclesiali… Mi sentivo aprire sulla Chiesa e sulle diverse famiglie religiose, come spinto a lavorare sempre più per il raggiungimento dell’Ut omnes chiesto da Gesù al Padre: Un omnes… che “tutti” siano uno. Al punto che ad un certo momento ho avuto l’impressione che il mio fondatore si facesse sempre più lontano, di aver perduto la mia stessa famiglia religiosa.

Scrivevo in quei giorni: «Possibile che il mio fondatore si sia eclissato così improvvisamente, senza preavviso e senza ragione? Perché è scomparso dal mio orizzonte? L’ho amato, lo amo ancora, ma non lo vedo più davanti a me, non lo sento più. Sono orfano, non ho più padre. Quando lo incontrai ne rimasi affascinato. La sua vita e i suoi scritti furono un’autentica rivelazione. Avvertivo una sintonia profonda con i suoi idealiHo ripercorso i luoghi della sua esistenza alla ricerca delle sue tracce: Aix-en-Provence, Sain-Laurent du Verdon, Marsiglia... Volevo conoscerlo più da vicino, nel suo stesso ambiente. L’eleganza della città natale, il fuoco della Provenza, i colori di Cezanne, il maestrale improvviso e violento mi hanno parlato di lui. L’ho sentito vicino questo santo senza miracoli, senza vistosi fenomeni mistici, passionale, impulsivo, sognatore, di grandi ideali... Ed ora dov’è? dove s’è nascosto?
«E la mia famiglia? Non sono, gli Oblati, la famiglia più unita che esista sulla terra? Dove sono i miei fratelli? Anche loro mi sono assenti. L’ho amata alla follia, la mia famiglia. Perché ora mi sento senza famiglia?».

Finalmente ho compreso: «Ti avevo davanti e più mi avvicinavo a te, più mi diventavi familiare. Ma non sei tu la meta. Davanti a te non avevi un fondatore da seguire: avevi Gesù! Lo stesso vuoi da me. Non ti vedo più perché non ti ho più davanti: forse ti ho dentro di me. Non ti vedo più perché mi fai guardare quello che guardavi tu, mi fai seguire Colui che seguivi tu: ho davanti a me Lui!».
Ogni fondatore porta a Cristo. Il fondatore non chiama a sé, orienta a Cristo. Indica il cammino di sequela di Cristo. Il «ritorno al fondatore» implica un ritorno ancora più radicale: giungere là dove egli è giunto: direttamente a Cristo e al Vangelo.
Se il cammino formativo inizia col guardare al fondatore e seguirlo, esso deve condurre al punto nel quale egli passa dietro e spinge in avanti, a creare nell’oggi quello che egli aveva operato nel passato. Non si vive più per se stessi ma per la Chiesa. È soltanto a questo punto che si può veramente compiere l’opera di Dio, come l’ha compiuta il fondatore. Si è il fronte avanzato del carisma, in prima linea.

Il Fondatore accanto a me

Gli ultimi vent’anni della mia vita li ho vissuti in quella particolarissima comunità che è il Centro internazionale del Movimento dei religiosi, un piccolo gruppo di uomini proveniente da ordini e istituti religiosi diversi e di differenti nazionalità, a servizio di centinaia di religiosi che, in tutto il mondo, hanno accolto la spiritualità dell’unità propria dell’Opera di Maria e da essa si lasciano ispirare nell’attuazione del proprio carisma. Un servizio che, con il mandato dei miei superiori, mi ha portato a viaggiare per i più diversi Paesi del mondo e ad incontrare religiosi dei più diversi carismi. La mia famiglia si era allargata ad abbracciare ogni altra famiglia religiosa.
La lontananza fisica dalla comunità oblata e la convivenza quotidiana con religiosi di altri istituti avrebbe potuto far pensare che avrei perduto la mia “identità” carismatica. In effetti, pur continuando a lavorare anche per il mio istituto, il mio impegno maggiore, anche come tempo, era per il Movimento dei focolari e per le altre famiglie religiose.
Personalmente ero invece convinto che quanto più fossi entrato nella dinamica della comunione, dimenticando me (anche ciò che è più proprio di me, il carisma e il mio fondatore) per vivere l’altro e amarlo nelle realtà più profonda di sé (il suo carisma e il suo fondatore), tanto più avrei attuato la “comunione dei santi” e in essa avrei trovato la mia autentica realtà. Credevo a quanto aveva scritto Chiara Lubich: «Quando Gesù aveva detto: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro, non aveva escluso certo di sottintendere anche: Dove un francescano e un benedettino, o un carmelitano e un passionista, o un gesuita e un domenicano… sono uniti nel mio nome, lì sono io...”. E se era veramente Gesù fra loro, il risultato sarebbe stato che l’incontro con Lui avrebbe fatto il france­scano miglior francescano, e il domenicano miglior domenicano».

Dieci anni fa sono stato chiamato dal superiore generale al centro della Congregazione per dare vita a un nuovo ufficio per lo studio e la ricerca sulla vita e la missione degli Oblati. Mi è stato affidato il tesoro più prezioso della Congregazione, la custodia dell’eredità carismatica, con il compito di introdurre soprattutto la nuova generazione nella conoscenza del fondatore, della storia dell’istituto e nella riflessione sul vissuto di oggi e sulla risposta da dare alle nuove sfide.
Eccomi di nuovo, come al tempo del mio noviziato, a riprendere in mano le fonti, a riscoprire, far riscoprire e diffondere il patrimonio di vita custodito negli archivi, che non sono tombe ma luoghi sorgivi di ispirazione. Ho dato vita ad una rivista di studio, “Oblatio”, nelle tre lingue principali dell’Istituto, francese, inglese, spagnolo. Ho iniziato a contattare le università e gli istituti superiori di cultura della Congregazione. Sto offrendo ritiri sul carisma ormai in tutti i continenti… Soprattutto sto trovando un rapporto nuovo con sant’Eugenio de Mazenod.
In questa nuova fase della mia vita, anche grazie al nuovo compito e all’età che avanza, sta nascendo con lui un rapporto diverso, forse più affettivo. Adesso mi piace la foto che lo ritrae vecchio, ormai settantottenne, segnato dalle prove, da cui traspare un certo affanno e una stanchezza sofferta. Mi pare di capirlo meglio. Continua a essere un maestro da ascoltare, un santo da imitare, un padre da amare, ma soprattutto sta diventando un intercessore da pregare. Non è più davanti a me che mi indica la via, non più dietro di me a spingermi in avanti: è accanto a me, un fratello, un amico con il quale condividere preoccupazioni, progetti, sogni…

1 commento:

  1. Grazie Padre Fabio per aver condiviso, come è cresciuto e cambiato l'amore per il tuo fondatore, diventato un fratello, un amico con il quale condividere preoccupazioni, progetti, sogni…

    RispondiElimina