Apa Pafnunzio aveva sempre nutrito una segreta simpatia
per il profeta Geremia.
Sentiva particolare affinità
con la sua reazione difronte alla chiamata di Dio. Aveva iniziato a balbettare
come un bambino, per poi dichiarare candidamente: “Mi dispiace, Signore, ti sei
sbagliato, non so parlare, faresti meglio a chiamare un altro”.
Il profeta Isaia, di
famiglia nobile, con quel fare un po’ altero, gli risultava alquanto antipatico
nella sua presunzione. Si era fatto avanti e aveva dichiarato sfacciatamente: “Cerchi
qualcuno? Eccomi, ci sono qua io, manda me”.
Quel giorno l’apa riprese a
leggerne proprio il libro di Isaia che, al di là dell’autore, era stato fonte
di gioia e di consolazione per generazione di credenti.
Con sorpresa, quasi non l’avesse
letto mai prima d’allora, fu colto da stupore notando che anche per il profeta
Isaia la prima reazione davanti alla chiamata di Dio era stata di sgomento: “Che
guaio mi è capitato. Come parlare a nome di Dio se sono un uomo dalle labbra
impure?”
È pur vero che poco dopo
mutò atteggiamento e si fece avanti con ardimento. Ma fra i due momenti c’era
stato l’intervento del Signore che, con un tizzone ardente, aveva purificato la
bocca del profeta.
D’altra parte anche
Geremia, sempre sgomento e cosciente della propria inadeguatezza, s’arrese entusiasta,
con gioia appassionata, al fascino del suo Dio: “Mi hai sedotto e mi sono lasciato
adescare da te, non posso resisterti, non posso non dirti di sì”.
Apa Pafnunzio si ritrovava nell’esperienza
del primo moto provato da Geremia come da Isaia: la fuga. Anche lui come loro era
inadeguato, peccatore, incapace di parlare.
Eppure non poteva negare
che anche per lui c’erano momenti in cui avrebbe voluto gridare: Eccomi, manda
me, non posso resistere alla tua seduzione.
Di mezzo c’era quel tizzone
ardente che gli bruciava le labbra, quella spina nella carne, come l’avrebbe
chiamata Paolo, a ricordargli che sarebbe bastata la grazia di Dio, che tutto
sarebbe stato soltanto grazia.
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