Mi
sto ancora dilettando con il nostro missionario itinerante, p. Ovidio
Charlebois.
Nato in una famiglia numerosa e formato in una congregazione dove era viva la dimensione comunitaria, il giovane missionario si trovò improvvisamente solo, per 13 lunghissimi anni, perduto nelle lande solitarie del Nord-Ovest canadese.
Il
contatto con gli indiani non era facile, sia per la difficoltà della lingua sia
per i loro continui spostamenti. Il suo superiore, p. Bonnald, lo visitava
solamente una o due volte all’anno. Ogni tanto p. Ovidio aveva la gioia di una visita
a sorpresa come quella del giugno 1888 quando il vescovo mons. Grandin si fermò
alla sua missione: «Deo gratias! Deo
gratias! Deo gratias! ancora Deo
gratias! Imaginatevi che mons. Grandin mi è apparso ieri sera in tutta la
sua grandezza e bontà!». Come riempire la solitudine?
P.
Ovidio inizia a scrivere, scrivere, scrivere… Scrive le meditazioni, le
preghiere, il diario... Mantiene i contatti con la famiglia e con la comunità
dello Scolasticato, soprattutto con i suoi due fratelli oblati, i padri
Guillaume e Charles. Specialmente con p. Guillaume si confronta sulle questioni
della vita missionaria e gli confida il suo cammino interiore: lo considera
come un padre spirituale. I suoi manoscritti
e i testi dattilografati sono stati raccolti in 20 grandi volumi. Numerosi
anche le opere pubblicate.
In
Gesù Eucaristia trova un altro potente antidoto alla solitudine: “La mia più grande
prova – scrive al Superiore generale – è la solitudine. Ciò si comprende
essendo abituato alla vita di comunità e dovendomi trovare tutto d’un colpo
completamente solo. Ho tuttavia Nostro Signore Gesù Cristo come compagno, egli
mi basta. Io gli offro le mie pene e le mie sofferenze e lui, in cambio, mi dà
la forza e il coraggio”.
Dopo un viaggio nell’estate del 1890, di rientro alla missione, scrive ad una delle sorelle rivelando il suo segreto per resistere: “Eccomi di nuovo nella mia piccola missione di Cumberland in mezzo ad una solitudine completa. Non sento altro rumore nella casa che quello dei topi che cercano di rubare un po’ del mio cibo. Ho tuttavia, vicino a me, il mio divino Compagno che, sebbene muto, sa ascoltare le mie pene, le mie noie e fortificarmi nel bisogno. Senza di lui, questa vita di isolamento sarebbe impossibile”.
Inoltre
legge e studia. Legge le vite dei santi e gli autori spirituali, la teologia e
la Sacra Scrittura… Studia con passione e tenacia la lingua degli indiani: «Studio
sempre il cree come un matto. A forza di colpi di martello sono riuscito a
farci entrare un po’ qualcosa nella mia testa» (Journal, 7 febbraio 1888). Scriverà poi testi in lingua cree per la
sua gente.
Poi,
appunto, ha la sua gente. Fin dagli inizi è considerato come un padre. Il 17
marzo 1889 scrive nel diario: “Ho letto oggi la mia seconda istruzione in cree. Dopo la cerimonia un buon meticcio
è venuto a farmi la sua critica:
«Padre, ci si comprende molto bene e questo è bello, ma c’è una cosa che non mi piace e cioè che dite: n’Totemetik
(miei amici)! Perché non dite: n’Tawassimissitik (miei
figli)? La chiamiamo padre e lei ci chiama amici. Questo non è giusto!»
Gli ho fatto osservare
che questo era dovuto al fatto che sono ancora giovane per chiamarli figli. «No, non è così, lei è per noi un padre allo stesso modo di un sacerdote
anziano.» Ho promesso di dargli soddisfazione per il futuro. Questo vi mostra la fede dei nostri fedeli”.
Nessun commento:
Posta un commento