È la domanda che Dio rivolge al profeta
quando giunge al monte Horeb.
Elia è fuggito perché la regina ha ordinato
di ucciderlo.
Ha una paura da morire, nel senso letterale
della parola: vuole lasciarsi morire.
Ha corso per 150 km verso il sud, fino a
Bersabea, e poi ancora più giù, un’altra giornata di cammino.
È solo, nel deserto, affamato, sfinito: un
autentico crollo psicofisico, una depressione profonda…
Fin quando arriva al monte di Dio e passa la
notte in una caverna.
Allora finalmente il Signore si fa udire: “Che
cosa fai qui, Elia?”
Ho ricordato questa parola quasi per caso, all’inizio
del ritiro che in questi giorni sto guidando a un gruppo di sacerdoti.
Questa domanda mi è risuonata nuova, come non l'avessi
mai letta prima d’ora.
Mi ha colpito l'interesse di Dio per il
profeto angosciato, in crisi.
“Che cosa fai qui, Elia?”
Dio lo vede esagitato e si interessa di lui.
Ed Elia può sfogarsi, raccontargli l’angoscia
da cui è attanagliato.
Dio fa lo stesso con ognuno di noi.
Non è bello sentirsi rivolgere questa domanda
da Dio? Chiamati proprio per nome?
Non è bello potergli raccontare tutto sapendo
che ci capisce?
Si interessa proprio di me… Mi offre la possibilità di esprimermi, di capire cosa sto vivendo.
E poi mi dice di non preoccuparmi, perché ci pensa lui...
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