lunedì 23 novembre 2020

La via diretta alla santità

 

Sabato scorso la conferenza su Ovide Charlebois,
trasmessa in streaming:

https://youtu.be/SMc2qTHwaD4

La via diritta per la perfezione e la santità? La carità. Charlebois l’aveva compreso a 19 anni, durante una grave malattia, come ricorda più tardi: «È allora, che ho appreso cos’è questo mondo, è da allora che ho desiderato consacrarmi soprattutto alla salvezza delle anime affinché potessi salvare meglio anche la mia». Diventare santo per fare santi gli altri. Così all’inizio.

Ma dopo anni di missione ecco un’altra prospettiva: «Diventare santi santificando gli altri». È tipicamente oblato: si diventa santi vivendo la vocazione missionaria, non pensando alla proprioa santità ma a quella degli altri.

Concretamente Charlebois ha vissuto tutta la vita in mezzo alla sua gente e l’ha amata. Ha studiato la lingua cree, ha visitato villaggi e famiglie, ha condiviso la povertà e l’ha alleviata, ha curato l’educazione dei ragazzi. Dal diario appare il profondo legame che si creava con i nativi e il reciproco rispetto che nasceva:

“Trovai in questo campo quasi 40 selvaggi, tutti cattolici e buoni cattolici. Quale non fu la loro gioia nel vedermi! Quale sollecitudine nel confessarsi e comunicarsi! Come sono semplici e buoni! Questo è dovuto al fatto che non si sono ancora contaminati con i bianchi. Il missionario è tutto per essi. Lo amano e sentono che sono amati. Ma là come altrove, trovai la povertà e la miseria. 


In un altro campo, battezzai due bambini. Prima di lasciarli uno di essi venne a trovarmi e mi disse: «Sono molto contento, Padre mio, che sia venuto a dirci delle buone cose che fanno del bene alle nostre anime. Per provarti che il mio cuore è riconoscente, tieni! Ecco che ho qui tre pellicce, una di lontra, una di castoro e l’altra di martora. Scelga quella che vuoi». Questa è una prova che, se ci sono dei selvaggi ingrati, ce ne sono anche di quelli che sanno mostrarsi riconoscenti”.

Fin dagli inizi è considerato come un padre. Il 17 marzo 1889 scrive nel diario:

“Ho letto oggi la mia seconda istruzione in cree. Dopo la cerimonia un buon meticcio è venuto a farmi la sua critica: «Padre, ci si comprende molto bene e questo è bello, ma c’è una cosa che non mi piace e cioè che dite: n’Totemetik (miei amici)! Perché non dite: n’Tawassimissitik (miei figli)? La chiamiamo padre e lei ci chiama amici. Questo non è giusto!» Gli ho fatto osservare che questo era dovuto al fatto che sono ancora giovane per chiamarli figli. «No, non è così, lei è per noi un padre allo stesso modo di un sacerdote anziano.» Ho promesso di dargli soddisfazione per il futuro. Questo vi mostra la fede dei nostri fedeli”.

P. Dubeau, al processo ordinario di Keewatin, ha testimoniato:

“Il servo di Dio amava gli indiani perché si era donato a loro. In tutti i suoi sforzi, le sue parole, i suoi scritti, l’amore per gli indiani dominava sempre. Quando a volte parlava ai bianchi, se vedeva passare un indiano lasciava il bianco, scusandosi, per andare a salutare l’indiano. (…) Gli indiani sapevano che monsignore li amava. Andavano da lui senza timore, con fiducia, raccontandogli le loro difficoltà e chiedendogli l’intercessione. Andavano da lui come da un padre. (…) Non conosco indiani che abbiano conservato un brutto ricordo di mons. Charlebois”. 

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