Sabato
scorso la conferenza su Ovide Charlebois,
trasmessa in streaming:
https://youtu.be/SMc2qTHwaD4
La
via diritta per la perfezione e la santità? La carità. Charlebois l’aveva
compreso a 19 anni, durante una grave malattia, come ricorda più tardi: «È
allora, che ho appreso cos’è questo mondo, è da allora che ho desiderato
consacrarmi soprattutto alla salvezza delle anime affinché potessi salvare
meglio anche la mia». Diventare santo per fare santi gli altri. Così all’inizio.
Ma
dopo anni di missione ecco un’altra prospettiva: «Diventare santi santificando
gli altri». È tipicamente oblato: si diventa santi vivendo la vocazione
missionaria, non pensando alla proprioa santità ma a quella degli altri.
Concretamente
Charlebois ha vissuto tutta la vita in mezzo alla sua gente e l’ha amata. Ha
studiato la lingua cree, ha visitato villaggi e famiglie, ha condiviso la
povertà e l’ha alleviata, ha curato l’educazione dei ragazzi. Dal diario appare
il profondo legame che si creava con i nativi e il reciproco rispetto che
nasceva:
“Trovai in questo campo quasi 40 selvaggi, tutti cattolici e buoni
cattolici. Quale non fu la loro gioia nel vedermi! Quale sollecitudine nel
confessarsi e comunicarsi! Come sono semplici e buoni! Questo è dovuto al fatto
che non si sono ancora contaminati con i bianchi. Il missionario è tutto per
essi. Lo amano e sentono che sono amati. Ma là come altrove, trovai la povertà
e la miseria.
In un altro campo, battezzai due bambini. Prima di
lasciarli uno di essi venne a trovarmi e mi disse: «Sono molto contento, Padre
mio, che sia venuto a dirci delle buone cose che fanno del bene alle nostre
anime. Per provarti che il mio cuore è riconoscente, tieni! Ecco che ho qui tre
pellicce, una di lontra, una di castoro e l’altra di martora. Scelga quella che
vuoi». Questa è una prova che, se ci sono dei selvaggi ingrati, ce ne sono
anche di quelli che sanno mostrarsi riconoscenti”.
Fin dagli inizi è considerato come un padre. Il 17 marzo 1889 scrive nel
diario:
“Ho letto oggi la mia seconda istruzione in cree. Dopo la cerimonia un buon meticcio
è venuto a farmi la sua critica:
«Padre, ci si comprende molto bene e questo è bello, ma c’è una cosa che non mi piace e cioè che dite: n’Totemetik (miei
amici)! Perché non dite: n’Tawassimissitik (miei
figli)? La chiamiamo padre e lei ci chiama amici. Questo non è giusto!»
Gli ho fatto osservare
che questo era dovuto al fatto che sono ancora giovane per chiamarli figli. «No, non è così, lei è per noi un padre allo stesso modo di un sacerdote
anziano.» Ho promesso di dargli soddisfazione per il futuro. Questo vi mostra la fede dei nostri fedeli”.
P. Dubeau,
al processo ordinario di Keewatin, ha
testimoniato:
“Il servo di Dio amava gli indiani perché si era donato a loro. In tutti i suoi sforzi, le sue parole, i suoi scritti, l’amore per gli indiani dominava sempre.
Quando a volte parlava ai bianchi, se vedeva passare un indiano
lasciava il bianco, scusandosi, per andare a salutare l’indiano. (…) Gli indiani sapevano che monsignore li amava.
Andavano da lui senza timore,
con fiducia, raccontandogli le loro difficoltà
e chiedendogli l’intercessione. Andavano da lui come da un padre.
(…) Non conosco indiani
che abbiano conservato un brutto ricordo
di mons. Charlebois”.
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