Perché
l’oblazione? Perché è la nostra via di santità.
In questo
mese di novembre fa bene continuare a pensare alla santità.
Eugenio de
Mazenod ha nutrito un desiderio sempre crescente di santità. L’ha desiderata per
sé e per tutti coloro ai quali era rivolto il suo ministero: voleva condurre le
persone ad essere prima ragionevoli, poi cristiani e infine aiutarli a diventare
santi. L’ha desiderata per gli Oblati, che supplicava: «In nome di Dio, siamo santi”.
Ha creato
la comunità oblata come un luogo di santificazione. Ci aiuteremo nella nostra
“santificazione comune”, aveva scritto al suo futuro primo compagno, p. Tempier
già nel 1815.
Ha
abbracciato la vita religiosa come mezzo efficace di santificazione, ha scelto
la missione come ministero nel quale santificarsi e santificare. Ha compreso e
costantemente sottolineato l’intrinseco legame tra santità e missione. Ha
vissuto in modo da raggiungere la santità.
Per lui
infatti la santità è un divenire dinamico, un cammino costante che dura tutta
la vita. Gli Oblati, leggiamo nella Prefazione,
«devono lavorare seriamente a diventare santi, […] vivere […] in una volontà
costante di giungere alla perfezione». «Nessun limita alla nostra santità
personale», esclamava uni dei nostri superiori generali, p. Léo Deschâtelets
leggendo questo testo.
Già nella
Supplique adressée aux vicaires généraux
capitulaires d’Aix, il primo documento programmatico della nuova comunità
(25 gennaio 1816) Eugenio aveva scritto: «Il fine di questa società non è
soltanto quello di lavorare alla salvezza del prossimo, dedicandosi al
ministero della predicazione». I suoi membri «lavoreranno all’opera della
propria santificazione conformemente alla loro vocazione».
La Prefazione della Regola del 1818 conferma:
«lavorare più efficacemente alla salvezza delle anime e alla propria
santificazione», «per la propria santificazione e per la salvezza delle anime».
Alla fine
della vita, quasi a sintetizzare il proprio ideale di vita, scrive ai
missionari del Canada: «prego ogni giorno perché la grazia di Dio vi mantenga
tutti nella più alta santità. Non capirei altrimenti la vita di sublime
dedizione dei nostri missionari».
Il suo
non è rimasto un sogno. È divenuto una realtà: «Preti santi, ecco la nostra
ricchezza!», diceva guardando la sua famiglia religiosa.
Queste
parole testimoniano che la santità, nella congregazione degli Oblati, non è
solo un ideale. Essa è stata vissuta da tanti dei suoi membri. La Chiesa ne ha
riconosciuti ufficialmente 25 e un’altra schiera sta per essere proclamata santa.
Per sant’Eugenio era normale ritenere che nella sua famiglia «tutti i membri
lavorano a diventare santi nell’esercizio dello stesso ministero e nella
pratica esatta delle stesse Regole». La morte santa degli Oblati era per lui la
certezza che il suo ideale di vita poteva essere realmente vissuto: «La porta
del cielo – scriveva in occasione della morte di p. Victor Arnoux, nel 1828 – si
trova al termine del sentiero sul quale siamo incamminato».
Altre
volte, guardando ai suoi Oblati, scrive: «In mancanza di virtù mie, mi vanterò
di quelle dei miei fratelli e dei miei figli, e sono fiero delle loro opere e
della loro santità».
L’esempio
della santità di Eugenio e di tanti Oblati continui a tenere desto in noi il
desiderio e l’impegno verso la santità. «Noblesse oblige - scriveva un altro
superiore generale, mons. Dontenwill in occasione del primo centenario della
Congregazione -. Figli e fratelli di santi, dobbiamo lavorare a essere santi
noi stessi».
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