Virgilio ha accompagnato Dante lungo l’inferno e il purgatorio, Beatrice lungo il paradiso; il primo figura della ragione e della filosofia, la seconda della fede e della teologia. Adesso che il Poeta è arrivato alla soglia della visione di Dio, per andare oltre – “l’estremo oltraggio” – non basta più neppure la teologia: per vedere Dio occorre la mistica. È così che Beatrice cede il posto a Bernardo, “quel contemplante” (Paradiso XXXII, 1).
Non
mancavano i mistici che avrebbero potuto accompagnare Dante nel suo ultimo
tratto. La scelta determinante di Bernardo nasce dalla convinzione che, in
realtà, chi dischiude appieno il mistero di Dio non è neppure una mistica
astratta, ma una persona: Maria. Soltanto guardando il volto di Maria «che a
Cristo / più si somiglia» si può giungere a guardare il volto stesso di Cristo:
lei «sola ti può disporre a veder Cristo» (XXXII, 85-87). Soltanto lei è capace
di “dislegare” ogni nube che impedisce la visione di Dio (XXXIII, 32-33).
Bernardo
è il più adatto a fare da intermediario tra Dante e Maria in quanto unanimemente
riconosciuto come massimo mariologo medievale, “ardente tutto d’amor” per la
“regina del cielo” (cf. XXI, 100-101). Il Poeta ricorre «alla dottrina / di
colui ch’abbelliva di Maria / come del sole stella mattutina» (XXXII, 106-108),
di colui che, tenendo fisso lo sguardo in Maria, si illumina della luce divina
che in lei brilla. È dunque Bernardo che presenta Dante a Maria e intercede per
lui con una “santa orazione” (XXXII, 151).
La
preghiera del santo – la “santa orazione” – come la intitola Dante (XXXII, 151)
– è divisa in due parti. La prima (XXXIII, 1-21), quella che è divenuta un inno
nella Liturgia delle ore, è una lode alla Vergine, la seconda (22-39)
una supplica di intercessione perché Dante possa giungere alla visione di Dio.
La prima parte più che commentata andrebbe semplicemente pregata.
Vergine Madre, figlia
del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
«Castità di parole e di
ritmo», la preghiera immette immediatamente nella realtà del mistero,
inafferrabile, indicibile, usando il linguaggio antinomico e paradossale,
tipico della scrittura mistica. La congiunzione di termini estremi e
contraddittori, profondamente biblici, schiude la contemplazione di una realtà
che supera infinitamente l’intelletto umano. Le parole, così scelte e insieme comuni,
disposte in maniera così armonica, rendono familiare la presenza di Maria, per
niente discosta pur nella sua grandezza. Il primo dei due termini antinomici ce
la rende vicina: vergine, figlia, umile; il secondo – Madre (di Dio), Figlio
(di Dio), alta – non l’allontana da noi perché non cancella ma rafforza il
primo. In lei ogni credente può rispecchiarsi e comprendere la grandezza e la
bellezza della vocazione a cui è chiamato in Maria: è il nostro dover essere. Non
ha detto Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli, che possono essere sua madre
(cf. Marco 3, 31-34)? È la grandezza a cui è chiamata ogni creatura,
capace, per grazia e in analogia, di accogliere in sé i titoli stessi di Maria,
modello irraggiungibile e pur sempre modello nel quale specchiarsi.
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