Dopo
aver compiuto il reciproco affidamento tra la madre e il discepolo, Gesù
pronuncia la seconda “parola”: «Ho sete» (19, 28).
Dopo
ore di torture e di crocifissione, la sete cocente attanaglia ogni condannato. Prima
di ogni interpretazione, quella parola va accolta così come suona, in tutto il
suo realismo, come l’hanno intesa quelli che gli erano attorno e che gli accostarono
alla bocca una povera bevanda. Si avverte l’eco del Salmo 69: «Quando avevo
sete mi hanno dato aceto» (v. 22).
Quanto
sono lontano le parole rivolte alla Samaritana. Anche allora Gesù era stanco, sotto
il sole del mezzogiorno. Anche allora chiese «Dammi da bere». Eppure le si
rivelò come fonte di un’“acqua viva”, capace di suscitare sorgenti che
avrebbero zampillato per la vita eterna (4, 5-16).
Nella
sinagoga di Cafarnao di nuovo si era proposto come fonte d’acqua che disseta pienamente
e per sempre (6, 35). L’ultimo giorno della festa della Capanne, ritto nel
tempio, aveva nuovamente gridato: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva» (7,
37).
Adesso
il calice che il Padre gli ha dato da bene lo ha assetato fino all’arsura (18,
11).
Colui da cui sgorgano torrenti d’acqua viva si trova “arido come un coccio”, con la lingua “incollata al palato” (cf. Sal 22, 16) e grida la sua sete.
Inizia
allora, nella tradizione cristiana, l’interpretazione mistica, senza che venga
cancellata la sete fisica che brucia le labbra e la gola del Crocifisso. Giovanni
stesso aveva posto il primo legame stretto tra l’acqua e lo Spirito quando,
dopo l’invito di Gesù ad andare a lui e bere, spiega le sue parole: «Questo
egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti» (7, 39).
Sant’Agostino, commentando il racconto della Samaritana,
scrive: «in realtà, colui che chiedeva da bere, aveva sete della fede di quella
donna». Lo stesso si potrà intendere nell’analoga richiesta sulla croce, da leggere
come espressione simbolica del bisogno e dell’urgenza di salvezza che arde nel
cuore del Salvatore.
Così l’ha intesa Madre Teresa di Calcutta il 10 settembre 1946 quando, sul treno che saliva verso Darjeeling, ai piedi dell’Himalaya, d’improvviso avvertiva una voce che le diceva: «Ho sete di te, del tuo amore». Era quella che definì la «chiamata nella chiamata». Era già suora ma su quel treno Cristo le chiedeva di lasciare tutto per servire i più poveri tra i poveri: «Saziare l’infinita sete di Gesù sulla Croce di amore per le anime, lavorando per la salvezza e la santificazione dei più poveri tra i poveri». Lo racconta lei stessa il 25 settembre 1993 alle sorelle, ai fratelli e ai preti della sua Congregazione: «È venuto il momento di parlare apertamente del dono che Dio mi ha dato il 10 settembre, per spiegare meglio che cosa significhi per me la sete di Gesù. Quella sete è per me qualcosa di tanto intimo che fino ad oggi ho preferito pudicamente non parlare di ciò che sentii quel 10 settembre... Le sue parole – “Ho sete” – vengono pronunciate in questo momento per voi... è Gesù stesso che vi dice “Ho sete”».
Forse
in quella parola si può scorgere un altro aspetto dell’ultimo momento di Gesù.
Potrebbe essere un modo per esprimere la medesima realtà trasmessa nei Vangeli
di Marco e di Matteo, quando egli grida l’abbandono del Padre. Il suo legame
con il Padre è lo Spirito Santo che ora sta per donare. Forse non avverte più
quel legame, espresso dallo sgorgare dell’acqua zampillante: «Questo egli disse
dello Spirito». Se «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» può essere
letto come un risvolto della parola «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato»: la stessa esperienza presentata in modo speculare, anche la
parola «Ho sete», può essere la traduzione della medesima esperienza. Tutti e
quattro gli Evangeli, pur con espressioni e modalità diversissime tra di loro,
stanno dicendo il mistero che si consuma sulla croce nel rapporto tra le Tre divine
Persone e nelle carni del Cristo.
Sono ormai pienamente sue le parole del Salmo: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (42, 2-3). Il suo «Ho sete» è l’eco della preghiera: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua» (63, 2).
È
così che dal quel corpo bruciato, da quell’anima inaridita e vuota, possono uscire
finalmente «sangue e acqua» (19, 34).
Ora si adempie la beatitudine di «quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5, 6), in attesa del compimento nella Gerusalemme celeste quando una moltitudine immensa di persone, avvolte in vesti candide, «Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole né arsura alcune, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle finti delle acque della vita» (Ap 7, 16-17).
E noi, abbiamo sete di lui? «Dio ha sete che noi abbiamo sete
di lui», scriveva Gregorio Nazanzieno commentandole parole alla Samaritana:
«Dammi da bere». L’invito di Isaia è ora rivolto ad ogni credente: «O voi tutti
assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate;
venite, comprate senza denaro, senza pagare venite a bere» (55, 1).
Dissetati, a nostra volta siamo chiamati a dissetare, seguendo l’invito di Gesù: «Chi avrà dato da bere anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, non perderà la sua ricompensa» (Mt 10, 42); «Ho avuto sete e mi avete dato da bene (…). L’avrete fatto a me» (25, 35-40).
Gesù ha provato la sete perché noi fossimo dissetati: «Chi ha sete venga;
chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,
17).
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