Sul
sito web di Città Nuova ho pubblicato un’altra delle innumerevoli promesse di
Gesù.
Un lontano Paese dell’Asia, con
una di quelle lingue per me impossibili. All’aeroporto non c’è nessuno ad
attendermi. Decine di persone mi circondano, ognuno vuole prendermi la valigia,
accompagnarmi in un luogo di cui non ha l’indirizzo. Non posso connettermi né
con il telefono né con il computer. Passa il tempo e si crea il vuoto attorno a
me. Mi sento perso.
Inattesa una voce grida il mio
nome. Non conosco quella persone, ma lei mi conosce, mi riconosce, mi chiama
per nome. Mi sento a casa.
Quante volte ci siamo trovati in
un luogo estraneo e ci siamo sentiti a disagio perché non conoscevamo nessuno?
Ci è mai
capitato di pensare all’ultimo viaggio? Quello sarà davvero un salto nel buio e
ci troveremo per la prima volta in un ambiente completamente nuovo. Il pensiero
dalla morte è sempre stato un’angoscia. «Non c’è chi venga di là e ci dica la
sua storia e calmi il nostro cuore – scriveva un antico egiziano nel Canto dell’arpista –. Guarda, non c’è
chi sia tornato indietro…». Lo era nell’antichità come lo è oggi: «Temo la fine
– affermava Paolo Borsellino – perché la vedo come una cosa
misteriosa, non so quello che succederà nell'aldilà».
Come
sarebbe bello se, atterrando in quell’altro mondo, non ci trovassimo da soli,
ma ci fosse qualcuno che ci riconosce, che ci chiama per nome, che ci accoglie
e ci fa sentire a casa.
È proprio
questa la grande promessa di Gesù: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli
uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10, 32).
Queste parole sono incastonate nel “discorso
missionario” che Gesù rivolge ai Dodici prima di mandarli ad annunciare il Vangelo.
In particolare esse concludono l’invito a parlare apertamente di lui, senza
timore. Parlare di lui come di qualcuno che si conosce. Far vedere che si è dalla
sua parte, che si condivide il suo pensiero. Siamo gente sua. Marco, che le
colloca in altro contesto, invita a non vergognarsi di Gesù (cf. 8, 38).
Può accadere infatti di vergognarsi d’essere
cristiani, quando invece siamo chiamati a testimoniare la bellezza e lo
scandalo del Vangelo. È capitato anche a Pietro quando, nel cortile del sommo
sacerdote, preso dalla paura, cominciò a imprecare e a giurare di non conoscere
Gesù (cf. Mt 26, 69-75). A volte
anche per noi potrà essere rischioso, potremo essere contraddetti, diventare
oggetto di derisione, magari di persecuzione. Se hanno perseguitato lui…
Senza paura, siamo chiamati ad essere suoi testimoni
col nostro comportamento, fatto di sincerità, coerenza di vita, impegno
sociale, vicinanza a chi è nel bisogno, condivisione delle gioie e dei dolori
di chi ci è vicino. Testimoniare Gesù vivendo il suo comandamento dell’amore
reciproco, mostrando la novità dei rapporti che esso genera, la fraternità,
l’unità delle nostre convivenze: famiglia, gruppi, ambienti di lavoro…
Testimoniare Gesù anche con la parola, quando è necessario, condividendo il
nostro pensiero e la nostra esperienza.
Questa parola, “Chiunque mi riconoscerà…”,
richiama il giudizio finale quando, sempre secondo il Vangelo di Matteo, Gesù
ci domanderà se lo abbiamo riconosciuto in chi aveva fame, era nudo, ammalato,
carcerato… Che terribile se capitasse, come alle vergini stolte, di bussare
alla sua porta, di gridare: “Signore, Signore, aprici”, e sentirsi rispondere:
“Non vi conosco” (cf. Mt 25, 1-13).
Se lo riconosciamo anch’egli ci riconoscerà. Oltre
la porta della morte lo troveremo ad aspettarci e ci introdurrà in casa sua, ci
porterà davanti al Padre, ci presenterà e gli dirà: “Lo conosco, è uno dei
miei”. Avere qualcuno che ci conosce!
Luca, nel suo Vangelo, dice che Gesù ci
riconoscerà davanti «agli angeli di Dio» (Lc 12, 8). Il Padre ci aprirà il paradiso e ci farà trovare
un’infinita schiera di angeli e di santi pronti ad accoglierci. Ci saranno
tante persone che conosciamo e che ritroveremo con gioia, tantissimi che non
conosciamo e che conosceremo con altrettanta gioia. Anche a loro Gesù dirà: “Lo conosco, questi è uno dei miei, come lo
siete voi”.
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