In quel tempo, le folle interrogavano
Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due
tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero
anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa
dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è
stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa
dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a
nessuno; accontentatevi delle vostre paghe» (Lc 3, 10-18).
“Che
cosa dobbiamo fare?”
Glielo
chiede la folla, i pubblicani, i militari…
È una
domanda sincera, che nasce dal bisogno di cambiare, di andare avanti nella
vita, dal desiderio di… (oso dirlo? È rischioso, anzi scandaloso) essere più
buoni.
Chissà
cosa si aspettano che proponga loro il profeta tagliente, duro, esigente…
Lui,
così rigoroso, che vive nel deserto coperto di peli di cammelli e mangia
cavallette, stranamente non chiede digiuni, penitenze, rinunce, vita ritirata.
Chiede semplicemente onestà e coerenza di vita: “Fai il tuo dovere, e basta”.
Ti pare poco?
È la
santità del quotidiano: far bene quello che devo fare, con coscienza, con
gusto, con passione, pensando al bene comune.
“Che
cosa dobbiamo fare?”
Che
bello se lo chiedessero gli impiegati dell’INPS, i barbieri, i sindacalisti
della CGIL, gli insegnanti, i ministri, i sindaci, i preti, gli studenti, gli
ingegneri, gli avvocati…
Basterebbe
porsi la domanda con sincerità.
Oggi
sul bus ho ascoltato una conversazione interessante. Un uomo col gilet giallo
ha chiesto a una signora giovane dove doveva scendere per andare a piazza Farnese,
per manifestare davanti all’ambasciata francese a Roma, in solidarietà con i
gilet gialli di Parigi.
Lei gli ha chiesto i motivi della protesta e lui ha
iniziato a esporre le sue idee contro gli immigranti. Lei, con garbo, gli spiegava
che siamo tutti immigrati e che gli italiani sono immigrati in tutto il mondo. “Ma noi abbiamo portato la civiltà”, obiettava lui. “Ma anche la mafia”, rispondeva lei,
e gli spiegava che senza questi lavoratori umili non si potrebbe andare
avanti, a cominciare da lei che non saprebbe a chi affidare i suoi bambini
quando va al lavoro. “Ma loro ci portano la droga”, insisteva lui. “Non ne
abbiamo bisogno. La nostra criminalità è tra le meglio organizzate del mondo, ce la caviamo da soli…”. Un gioco tra i due fatto con umore e buon gusto, fino
all’ultima raccomandazione: “Buona manifestazione, ma si ricordi che siamo
tutti migranti… Io mi chiamo… e lei come si chiama?”.
Cosa
c’entra col vangelo della terza domenica di Avvento? C’entra eccome.
Sicuramente
quella donna si è chiesta: “Che cosa debbo fare davanti a questo manifestante?”.
E ha risposto in modo costruttivo, senza urtare, con eleganza e simpatia, con
verità.
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