Una volta
all’università (anche in quella che ho frequentato, segno che faccio parte ormai
dell’antico) si diceva, riguardo ai corsi: “Prima lectio brevis, ultima non
datur”. La mia ultima lectio invece la darò, domani, al termine del convegno
del Claretianum, che si tiene nell’aula magna dell’Università Urbaniana.
Dovrei riassumere
il mio insegnamento di oltre 40 anni. Mi piacerebbe riprendere una delle miei
prime lezioni, pubblicata nel 1978 sulla rivista “Testimoni”, i cui due
sottotitoli segnavano già un percorso che ho poi seguito fedelmente: A seguito di Cristo e del fondatore, a
indicare la centralità evangelica della sequela di Cristo e della sua persona,
assieme alla dimensione carismatica che diversifica e attualizza la modalità di
sequela e di identificazione a Cristo; Comunità,
a ricordare la dimensione collettiva della sequela, così da rendere presente nella
Chiesa la koinonia paradigmatica delle origini.
Questa
mia ultima lezione sarà invece una testimonianza, che non ho mai reso prima
d’ora all’università, sulla mia vocazione di Missionario Oblato di Maria
Immacolata, in particolare sull’oblazione, che ha ispirato il nome di Oblati.
“Oblazione”,
secondo la nostra Regola (1982), è il termine tecnico che indica la consacrazione
e la professione perpetua (cf. C 57, 62; R 51, 56, 76). È l’atto fondamentale
nella vita dell’Oblato, il momento in cui egli si dona tutto e per sempre a
Dio, in risposta alla sua chiamata; si lascia da lui consacrare in un mistero
di alleanza e di amore sponsale che trova la sua fecondità nel ministero
apostolico dell’evangelizzazione. Essa possiede una dimensione totalizzante,
che abbraccia, penetra e dà senso e sapore all’intera vita in tutte le sue
espressioni. Gli Oblati di Maria Immacolata vi trovano la loro identità di
consacrati e di missionari. «Il loro zelo
apostolico – leggiamo nella Regola – è sostenuto dall’oblazione di sé senza
riserve, costantemente rinnovata nelle esigenze della loro missione» (C 2). La
vita consacrata è dunque strettamente legata alla missione e la missione
rinsalda la consacrazione in un progetto unitario, senza dicotomie. Che ha il
nome di “oblazione”.
Nella
Regola del 1818, che introduceva i primi due voti, i Missionari di Provenza non
si chiamavano ancora Oblati, ma già impiegavano la parola oblazione per
indicare la loro consacrazione religiosa. Nel paragrafo intitolato
“Dell’oblazione” (III, 2, 3), il termine ricorre sei volte e quattro quello di
Oblato. Questa idea di oblazione, grazie anche alla frequentazione della scuola
di spiritualità francese e di sant’Alfonso de Liguori, finì per dominare tutto
dando il nome non solo ai voti, ma anche alle persone dell’intera Società, come
per caratterizzare non solo un atto della loro vita, ma le persone stesse,
tutta la loro vita, la loro missione nella Chiesa.
Nella nostra tradizione le parole oblazione
e Oblato gradatamente sono diventate realtà identitarie e cariche di contenuti
spirituali forti. Se ne è trovato il fondamento in una frase dell’Antico
Testamento, «Si è offerto, donato, immolato (= oblato), perché lui stesso l’ha
voluto» (Is 53, 7).
L’uomo misterioso di cui parla Isaia
annuncia il Salvatore che, venendo nel mondo, si offre al Padre per compiere l’opera
di salvezza, a prezzo della vita. «Io offro la mia vita... Nessuno me la
toglie; ma la offro da me stesso» (Gv
10, 17-18; 14, 31; Lc 23, 46). Egli
offre la vita liberamente, si dona totalmente al Padre per noi. Potremmo
tradurre le sue parole, senza cambiarne il significato, affermando che Gesù è l’“Oblato”:
si dona tutto e si dona, senza alcuna resistenza, in segno del suo amore per noi.
È “Oblato” perché ama con l’amore più grande, quello di chi sacrifica la vita
per gli amici.
Vi è stata, nella nostra storia, una
progressiva identificazione tra oblazione e spiritualità oblata. Uno dei vertici
è costituito da una Lettera circolare degli anni Cinquanta del secolo scorso,
del superiore generale Lèo Deschâtelets: «Il nostro titolo di Oblati non ci
sembra davvero giustificato? Non è un dono totale di noi stessi, un impegno radicale,
un’oblazione illimitata questa nostra vita sacerdotale, religiosa e
missionaria? […] Lo spirito che maggiormente ci caratterizza, mi piace
ripeterlo, è questo spirito d’oblazione senza riserva ben significato dal
nostro nome e che si trova indubbiamente nello spirito e nella lettera delle
nostre Costituzioni […]. Una simile oblazione, un impegno tanto ardente ed
assoluto al servizio dell’amore divino, della Chiesa e delle povere anime, non
potrà nascere, mantenersi vivo e intensificarsi in noi, senza una profonda
unione con Cristo, nostro Salvatore e Redentore, l’Amore e la Misericordia in
Persona, senza un’unione con Maria Immacolata nostra Madre: “in Matrem semper
habebunt” e nostra Regina: “Regina Congregationis nostrae”».
Per me,
come Oblato, l’oblazione contiene dunque gli elementi costitutivi della mia vocazione.
Ne parlerò nella speranza di raggiungere un duplice obbiettivo. Il primo,
rendere testimonianza della mia vocazione. Il secondo suscitare, in chi mi
ascolta, una reazione che porti a dire: “Questa non è la vocazione degli
Oblati, questa è la mia vocazione, è la vocazione della vita consacrata”. Spero
sia così. Lo specifico è infatti sempre comune, altrimenti non sarebbe
ecclesiale. Le tante espressioni carismatiche della vita consacrata in fondo
esprimono una medesima realtà, hanno una comune origine e portano ad un’unica
meta.
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