venerdì 31 luglio 2020

A Scicli e Modica



Alla scrivania di Quasimodo
30 luglio
Modica, prima di una città, è un volto amico, quello di Teresa.
I luoghi si animano di una vita più intensa e parlano un altro linguaggio quando c’è con te qualcuno che conosci.
Eppure a Modica non manca la voce. Ne ha di storia da raccontare: da Quasimodo, di cui visitiamo la casa, agli scorci resi famosi dagli sceneggiati di Montalbano.
Soprattutto ha da raccontare una straordinaria storia di fede e di arte.
Risorta dalle ceneri del terremoto del 1693 ha saputo creare, come le cittadine d’intorno, il tardo barocco siciliano.
Ma vi è anche una chiesa rupestre bizantina, che attesta l’antichità del cristianesimo.
La presenza di così tante chiese è certamente indice di ostentazione di potere e di prestigio, ma prima di tutto di una pietà genuina, viva anche oggi, è un canto alla bellezza di Dio, la celebrazione della sua gloria.


Stessa sovrabbondanza di bellezza a Scicli, che appare improvvisa in mezzo alle campagne di noccioli, ulivi, carrubi…
Come sorgevano questi capolavori, tra popolazioni povere?
È d’obbligo una visita fugace al “Commissariato di Montalbano”, set cinematografico permanente installato nel palazzo comunale. L’effetto Montalbano è stato efficace per il turismo e la riqualificazione dei luoghi. Un effetto fugace che mette finalmente in luce la ricchezza secolare di questo lembo di Sicilia.


Il mio filo conduttore rimane Teresa, luminosa come le pietre di queste città, testimonianza vivente di una fede secolare. Altri volti, in questo mio viaggio, si accendono, di altre donne povere e coraggiose, che hanno saputo tenere accesa la luce cristiana. Come Letizia, che ho incontrato a Lentini…


giovedì 30 luglio 2020

A Noto e a Rosolini



Splendida nel suo barocco fantasioso e sobrio insieme. Armonia di chiese e di palazzi.
29 luglio
È innanzitutto luce, è tutta luce. Nel chiarore del cielo, nel candore delle sue pietre.
Splendida nel suo barocco fantasioso e sobrio insieme. Armonia di chiese e di palazzi.
Noto risplende pacifica, tra strade luminose e silenziose.
Rallegrata dalla gaiezza dei giovani che, di sito in sito, guidano il visitatore.
Nient’altro da dire di Noto?
Nient’altro. Noto è una città da guardare, da godere, da starci dentro, lasciandosi abbracciare dalle sue linee curve e da quelle rettilinee, che dialogano tra loro in concordanza sotto il sole infuocato.

Nel pomeriggio, tra campagne squadrate da muri a secco che segnano antichi limiti, eccoci a Rosolini, un paese agricolo che mi pare del tutto insignificante.
Ci conduce ha trascinati lì Lucia, appassionata di questo luogo inespressivo, per mostrarci il Santuario del Sacro Cuore di Gesù. Si chiama “santuario”, ma è una stanzetta chiusa da una cancellata che ci viene aperta per benigna concessione.
La sua storia è legata a Carmela Aprile, analfabeta, nata a Rosolini nel 1878. Aveva da poco perso il marito emigrato ad Alessandria d’Egitto quando un signore del paese le dona una povera casa. Venticinquenne, acquista da un venditore ambulante un quadro del Sacro Cuore di Gesù davanti al quale prega con le vicine. Presto la sua casa diventa un piccolo santuario. Il parroco inizia a celebrarvi la Messa. Alcune compagne si uniscono a Carmela. La gente le chiama “apostole del Sacro Cuore”.
 Il 30 giugno 1959 il Vescovo di Noto affida il Santuario alle Monache della Visitazione. Carmela continua a vestire il suo abito religioso di color rosso in onore al Sacro Cuore di Gesù.
Una sua nipote, monaca della Visitazione, ci racconta le antiche storie…

mercoledì 29 luglio 2020

Natura d'estate / 2


Per continuare l’azione di Dio l’uomo deve poter conoscere il piano di Dio e quindi essere in comunione con lui, in un rapporto profondo di amicizia e di amore. Senza un rapporto vivo con Dio suo creatore egli non può svolgere la missione di coltivare con amore la terra. In effetti quando con il peccato l’uomo si stacca da Dio non è più capace di custodire il mondo nella bellezza e nell’armonia nelle quali era stato creato.
La rottura del rapporto con Dio ha provocato non solo la rottura tra l’uomo e la donna, tra i fratelli (vedi Caino e Abele), tra i popoli (vedi la torre di Babele), ma anche tra l’uomo e la natura. Il diluvio è il segno che il cosmo, a seguito del disordine dell’uomo, sta tor­nando nel disordine, nel caos primordiale.
Leggendo il racconto delle origini appare chiaro l’intimo rapporto che esiste tra la comunione dell’uomo con Dio e l’armonia del creato. Se brilla in noi l’immagine e la somiglianza con Dio allora sapremo continuare l’opera di Dio. L’armonia della nostra vita diventa armonia del creato.


Ed ecco che qui s’innesta l’apporto specifico della vita consacrata, nata per “quaerere Deum” e per scoprire il suo disegno sulla creazione e sulla storia. Il rapporto persona-natura non è mai distaccato dal rapporto Dio-uomo e Dio-natura. Il religioso e la religiosa sono chiamati a entrare in questo rapporto vitale che nasce dallo stesso atto creativo. Nella natura dovrebbero saper cogliere l’autorivelazione di Dio e il dono che egli fa di sé.
Ma come cogliere la presenza di Dio nelle cose, il suo amore provvidente che tutto sostiene e che continuamente crea? Occorre uno sguardo puro, che sappia vedere con l’occhio stesso di Dio. Occorre la capacità di contemplazione, di preghiera, di meraviglia… Non fa parte tutto questo della vocazione della vita consacrata? Soltanto a queste condizioni la natura diventa un messaggio divino e mostra come ogni suo elemento è in relazione d’amore con l’altro, quasi riflesso della relazione d’amore trinitaria. Se tutto è opera di un Dio che è Amore, di un Dio che è Trinità, ossia rapporto di comunione, tutto porta il suo timbro e in tutto potremo scoprire la presenza dell’Amore.
Soltanto così nasce il rispetto per il creato, nella coscienza di essere parte di esso e con esso in cammino verso i cieli nuovi e la terra nuova. «Le creature – ricorda Papa Francesco – tendono verso Dio, e a sua volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente» (Laudato si’, n. 240). È un cammino solidale che ci conduce verso il punto Amena, diretta Theillard de Cardin, o verso i cieli nuovi e la terra nuova dell’Apocalisse. «L’uomo – scrive il politologo Pasquale Ferrara –, lungi dal disporre dispoticamente della natura, svolge piuttosto, rispetto alla realtà del mondo animale, vegetale, minerale, una funzione, per così dire, di riscatto e di liberazione, se si vuole tradurre in termini emancipatori l’opera di “redenzione”, in senso ampio e profondo, anzi di co-redenzione, al quale egli è chiamato».
Questo implica una conversione a livello personale e comunitario, che domanda un ripensamento del proprio stile di vita, la responsabilità davanti al consumo, l’attenzione all’ambiente, cominciando dalla cura per la propria casa.



Soprattutto occorre andare alla radice del problema, rompendo la logica egoistica di una cultura basata sul dominio, sulla sopraffazione, sull’avere. Si sfrutta selvaggiamente la natura e la si violenta perché‚ in fondo, si è guidati dalla falsa idea che io valgo e mi realizzo nella misura in cui accumulo potere e cose. È la stessa logica perversa che spesso guida i rapporti umani: voglio possedere l’altro, asservirlo a me, usarlo per i miei interessi.
Deve subentrare una logica nuova. Chi di noi non ha speri­mentato, almeno una volta, la gioia del donare? Quando rendo felice una persona, quando faccio un regalo ad un amico, quando offro il mio aiuto a chi è nel bisogno, mi sento contento. Quando amo sento come una pienezza di vita in me, mi sento realizzato. L’apostolo Paolo ricorda un detto del Signore secondo il quale «c’è più gioia nel dare che nel ricevere».
Credo che il problema ecologico troverà la sua risposta nella misura in cui sapremo dare una risposta al problema umano. Ossia saremo capaci di ridare l’armonia alla natura solo nella misura in cui sapremo trovare un’armonia tra noi uomini e donne. Non basta una nuova visione della cosmologia. Posso conoscere benissimo chi sono e togliermi la vita. Posso benissimo essere cosciente dell’interdipendenza tra le persone e uccidere e fare guerre. Occorrono motivi profondi per vivere, per vivere in armonia con sé e con gli altri, per vivere in armonia con il cosmo.
Occorre prima di tutto una “ecologia umana”. Ed essa sarà possibile soltanto nella misura in cui sapremo narrare non tanto il “mito” della creazione, quanto quello dell’incarnazione redentrice.
La “nuova cosmologia” può degenerare in una mistica panteista con una sua concezione olistica che non sa più cogliere la distinzione Dio-creato-persona umana. Per la tradizione giudeo-cristiana il centro della fede non è una cosmologia, ma una storia, ed è quella storia che fa comprendere in profondità la cosmologia. Quando, davanti allo sfa­scio che l’uomo ha operato nei confronti della creazione, Dio si è im­pegnato per rifare la creazione, ha mandato il Figlio suo, Gesù, nel quale tutto era stato creato. Egli è venuto sulla terra per ricapitolare tutto in sé, ossia per riportare l’armonia del cosmo. E ha cominciato proprio insegnando agli uomini a vivere in armonia tra loro. Colui che ci ha plasmati sa qual è la dinamica del nostro vivere in pienezza. Parole quali: «Amate i vostri nemici», «Perdonate», «Fate del bene a chi vi fa del male»... sono chiare proposte che segnano il cammino per un’armonia nuova tra persone e popoli. Le parole del Vangelo possono diventare la regola per l’ecologia umana e trovano il loro culmine nel comando «Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi».


Qui forse è l’apporto più realista che i carismi possono offrire. Non tutti possiamo fare tutto. Lo scienziato, il politico, l’amministratore, l’economista, l’imprenditore... ognuno ha un compito da svolgere in base alle sue competenze e alle sue responsabilità.
Anche i religiosi e le religiose dobbiamo agire con competenza: quella che il carisma offre ad ogni comunità religiosa. Possono insegnare le parole del Vangelo. Possono mostrare come esse si realizzano e quali sono i frutti che portano tra di loro. Se sapranno aiutare chi sta loro attorno a vivere la reciprocità dell’amore allora anche ogni intervento sulla natura sarà compiuto tenendo conto non solo di sé stessi, ma anche degli altri, dei popoli e dei paesi vicini, degli altri continenti. Si avranno costantemente presenti anche le generazioni future, perché‚ tutti siamo legati da un rapporto di amore.

martedì 28 luglio 2020

Natura d'estate / 1




Papa Francesco, coerente con il proprio nome, affrontando il tema ecologico, ha additato, come paradigmatico, il rapporto di san Francesco con la natura. È significativo, anche se non lo si rileva esplicitamente, che il santo d’Assisi, nella sua irripetibile unicità, è pur sempre un “religioso”. La lettera Laudato si’ lo indica come punto di partenza per una nuova coscienza cosmologica, eppure il rapporto dei “consacrati” con la natura inizia con la nascita stessa del monachesimo, che fa “fiorire il deserto”: quei luoghi aridi e solitari vennero ingentiliti dalla presenza di monaci e monache.



Da allora il monachesimo ha continuato a prendersi cura del creato. Basterà ricordare cosa hanno rappresentato nella storia dell’agricoltura i monasteri di Bobbio, Pomposa, Farfa, solo per restare in Italia, oppure l’apporto dato alla silvicoltura e alle scienze forestali da Camaldoli a Vallombrosa. I monaci hanno piantato foreste e curato pascoli, incanalato acque e prosciugato paludi, bonificato terreni incolti e favorito nuove colture, insegnando a popolazioni intere le tecniche agronomiche e il senso del lavoro, in obbedienza a Dio che ha affidato la terra all’uomo. Di qui la «cura del lavoro ben fatto» come impone la Regola benedettina.
I primi monaci a coltivare la vite furono probabilmente i Pacomiani nel IV secolo, in Egitto, presto seguiti dai Basiliani. Ma fu soprattutto l’Occidente a vedere il grande sviluppo della viticoltura. In Italia il Chianti, il Greco di Tufo, il Cirò, sono vini benedettini; sono camaldolesi i vini Bardolino, Frascati, Colli Euganei. In Francia fu un benedettino, dom Pierre Pérignon, a produrre nel 1698 il moderno champagne inventando il metodo champenoise per arrestare la seconda fermentazione. Assieme alla cura della terra, che forniva gli alimenti per il sostentamento proprio e dei poveri, monaci e religiosi si sono dedicati alla cura del corpo e della mente delle persone che vivevano attorno a loro, sviluppando la scienza delle erbe e la farmacopea. Tutto questo ha favorito e sviluppato l’amore e il rispetto per natura.


Poi è arrivato il progresso tecnologico, basato sull’equivoco che si potessero usare le risorse della natura in modo illimitato. Più ancora l’equivoco di fondo riguarda il concetto stesso di sfruttamento della natura inteso come possibilità e positività di una crescita indefinita del potere dell’uomo sulle cose.
L’incidenza delle attività dell’umanità nel suo insieme sul pianeta assume, secondo alcune ipotesi, i caratteri di una nuova era geologica. È un vero e proprio cambiamento del sistema-terra dovuto all’epoca industriale, che ha prodotto una grande accelerazione in molti processi planetari, destinato a lasciare un’impronta plurisecolare.
Finalmente si è preso coscienza che il problema ecologico è fondamentalmente un problema etico, un problema di rapporto di noi uomini e donne con la natura, un problema che riguarda il nostro modo di agire. Dalla cosiddetta “cosmologia classica”, che vede l’uomo distinto dal creato e come suo dominatore, si è passati alla cosiddetta “nuova cosmologia”, una concezione olistica, vede l’uomo come parte del creato, sua ultima e massima espressione, autocoscienza del cosmo. Il primo modello ha favorito la scienza e la tecnica con le conseguenze nefaste che hanno portato al degrado della terra. Il secondo dovrebbe favorire un nuovo approccio alle realtà cosmiche, aiutando a prendere coscienza della profonda interdipendenza che lega umanità e cosmo.
Finalmente si rileggere in modo nuovo il racconto biblico della creazione che, contrariamente a questo si è a lungo pensato, non dà assolutamente facoltà di sopraffazione sulla natura. Il verbo ebraico masal, che traduciamo con domi­nare, significa piuttosto governare, amministrare. Ossia l’uomo e la donna sono amministratori di una realtà di cui non sono i padroni. Il creato è opera di Dio, è di Dio, e Dio nel suo amore lo dona alle persone umane. Queste non possono allungare la mano sul mondo e dire “è mio”. Esse piuttosto si vedono porgere il mondo dalla mano di un Altro che gli dice “è per te”. L’umanità si vede consegnare un’opera meravigliosa. Al termine di ogni tappa della creazione il racconto della Genesi afferma: «E Dio vide che era buona». Il significato della parola ebraica tob non significa solo buono, ma anche bello, utile, vero, affascinante, dolce... Questa pa­rola è ripetuta per sette volte. Essendo il numero sette, simbolo della perfezione, indica l’armonia perfetta del mondo voluto da Dio.
Consegnando il cosmo all’umanità Dio ha voluto renderla responsabile dell’intera natura. Ha fatto l’uomo e la donna a immagine e somiglianza sua proprio perché potessero essere i suoi collaboratori e con lui continuare a dif­fondere la vita. Il lavoro dell’uomo non è dunque lo sfruttamento arbitrario delle risorse della terra, ma la custodia del mondo, una custodia sem­pre creativa. Tanto più che egli stesso è stato plasmato con la terra del suolo: è parte del cosmo, della materia. All’idea del dominium subentra il tema della responsabilità ambientale. «Non è la Terra che è stata affidata a noi – direbbe Jürgen Moltmann –, ma noi siamo stati affidati alla Terra».
Papa Francesco ha criticato la tesi della “supremazia” sfrenata ed arbitraria dell’uomo sulla natura, sottolineando che «oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature» (Laudato si’, n. 67); ha denunciato il «sogno prometeico di dominio sul mondo», mentre «invece l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di intenderlo come amministratore responsabile» (n. 116). Già prima, nel 1997, il patriarca ortodosso Bartolomeo I aveva definito “peccato” qualunque crimine commesso contro il mondo naturale e Giovanni Paolo II nel 2000 aveva parlato della “fraternità con tutte le cose create”. (continua/1)

lunedì 27 luglio 2020

A Gesso e Alì Terme



Gesso. La comunità oblata è sospesa tra cielo e mare, sui monti Peloritani. Da qui ogni giorno gli Oblati scendo alle parrocchie loro affidate, accolgono persone desiderose di spiritualità, di un colloquio, di preghiera, di un nuovo impulso missionario. La pandemia ha fortemente penalizzato le attività apostoliche, gli incontri, l’ospitalità. Anche qui nuovi appelli dello Spirito.






In mattinata visita alla parrocchia di Rometta, o meglio di alcuni chiese in diversi paesetti, affidati alla cura degli Oblati, che si dimostrano ancora una volta “Gesuiti di campagna” dediti al “popello per rura”.

Rometta, arroccate sui Peloritani, con panorama sui mari… la chiesa bizantina racconto le origini del V-VI secolo, ma la sua epopea è la strenua difesa contro gli Arabi, a cui tenne testa per un paio di anni. Fu l’ultima città della Sicilia a cadere, il 5 maggio 964, lasciando sul terreno più di 10.000 morti.


Dopo l’incontro con gli Oblati, quello con le Comi, “il volto femminile degli Oblati”.
Le messinesi mi accolgono con l’inconfondibile calore siciliano e con l’affetto fraterno.







A sera andiamo insieme ad Alì Terme, per incontrare la Comi più bella della Sicilia, quella che il Signore si è portato via all’improvviso, lasciandoci tutti sconcertati, a cominciare dagli alunni, affezionatissimi. Sono i misteri di Dio che sa meglio di noi ciò che conviene. 
La comunità oblata disegnata dieci anni fa
dalla signora Siracusano
Sono già quattro anni che è morta, ma mi sembra ieri. Sulla sua tomba preghiamo Giovanna Calmo che dal Cielo continui a camminare con noi. Mimmina, con il suo brio contagioso e la sua proverbiale generosità, continua la presenza Comi in questo angolo di Sicilia.

Intanto oggi è l’anniversario di oblazione di due di loro: 30 anni!  Una di loro, Daniela, mi scrive: “Ringrazio Dio per questi meravigliosi anni passati insieme con tanti avvenimenti, avventure, scoperte, resistenze, abbandoni... ma Gesù, il mio sposo, è sempre più stupendo, mi fa girare la testa, mi sorprende sempre di più, mi fa innamorare ogni giorno sempre di più... ha un amore esclusivo, sempre più grande... mi fa sentire sua... non posso vivere senza di Lui... ci amiamo... Lui mi ama di un amore infinito e io lo amo perché Lui mi ama... mi fa sentire una persona amata... e per questo vivo...”.

domenica 26 luglio 2020

Viaggio in Sicilia. Da mare a mare



25 luglio 

Ogni partenza è promessa di un nuovo inizio.
Domanda di lasciare qualcosa, forse, o soprattutto, anche il passato, con la sua zavorra, per protendersi verso una meta, annuncio di quella definitiva.
È sempre così quando intraprendo un viaggio, un appello a ricominciare, una ritrovata leggerezza, speranza di risurrezione.

Questa volta Messina. Vi torno dopo sette anni.
I viaggi al Sud sono ancora penalizzati e dividono l’Italia in due: da Roma il treno deve fare 14 fermate per arrivare a destinazione, ma la meta è una calamita e non si cura di ciò che la distanzia: mi aspettano amici e amiche di lunga data e sarà una gioia incontrarli di nuovo.
Sarà una “visita pastorale” alle Comi anziane, che ormai non si possono più muovere da casa e che quindi non posso mai vedere ai nostri incontri. Il viaggio era programmato durante il ponte del primo maggio, poi è successo quello che è successo…
Intanto ad aspettarmi al porto di Messina ci sono le più “giovani”, che mi accompagneranno in questi giorni.

Ma prima il momento culminante del viaggio, lo stretto di Messina!
Ogni volta un’emozione diversa, anche se l’aliscafo non consente le visioni panoramiche del traghetto, che mi riservo per il ritorno. La Madonna della lettera mi attente comunque, fedele come sempre, all’imbocco del porto.

26 luglio

Mi aggiro solitario per le vie del centro. Dalla piazza deserta mi contemplo il campanile del duomo e il portale maestoso. Entro e nella penombra silenziosa inizio la preghiera domenicale.

Per la messa sono in periferia, alle Case Gescal, nella parrocchia di Maria Regina degli Apostoli tenuta dagli Oblati. Che grande cambiamento: dalla centralissima chiesa di Santa Caterina, frequentata dagli universitari e punto d’irradiazione per tutta la città, alla periferica chiesa delle Case Gescal… ma è questa la parabola degli Oblati.
Trovo gente semplice, distanziata, con le mascherine, tutto come da rito. Una situazione di per sé scoraggiante, ma faccio di tutto perché sia festa.
Prendendo spunto dal tesoro e dalla perla, racconto di quando un 25 anni, su un’altra isola, l’Elba, salii alla Madonna del Monte. Una lapide murata sulla casetta che affianca il santuario attirò la mia attenzione. Diceva che Napoleone era stato lì dal 23 agosto ai primi di settembre 1814 e che “in questo ermo per lui trasformato in reggia abitava...”.
Era bastata la presenza dell’imperatore per conferire un significato nuovo a quella casetta. Dove mette piede il re, lì è una reggia!

Il giorno seguente, domenica, raccontai della targa napoleonica e mi benne spontaneo ricordare che quella mattina, proprio lì, in quella chiesa, sarebbe qualcuno che era ben più di Napoleone, Dio stesso e che avrebbe preso dimora dentro di noi! E se viene lui – concludevo –, la nostra povera dimora sarò tramutata in reggia.
Alla fine della messa, salutando, aggiunsi che ognuno avrebbe potuto portarsi dietro una targa con su scritto press’a poco così: “Oggi il Re dei re e il Signore dei signori è venuto ad abitare in questa umile dimora per lui trasformata in reggia...”.
Più tardi al mare, mentre nuotavo, divi una bambina di 11-12 anni nuotare veloce verso di me. Mi aveva riconosciuto. Felice mi gridò: “Sono una reggia!”.

Questa mattina, al termine della messa, una bambina (l’avevo notata durante l’omelia, ma mi sembrava fosse con la testa altrove) mi si è avvicinata e mi ha detto: “Mi chiamo Maria Regina”.

Pomeriggio a Dinnammare, a oltre 1100 metri sui monti Peloritani, in mezzo a boschi di querce, lecci, pini, faggi, abeti. Qua e là gruppi di messinesi (ossia filippini, srilankesi…), a famiglie intere, per il picnic, che danno un clima di festa alla montagna.
Da lassù un panorama mozzafiato: da un lato Messina, la Calabria, il Mario Jonio; dall’altra il Mediterranei con Milazzo e le isole Eolie e lontano l’Etna e il Tindari.
Nel santuario si canta e si prega. Guida un gruppo di ragazze che inframmezzano antichi racconti in rima di pagani, saraceni, terremoto di Messina, con strofe di un canto alla Madonna, con preghiere. Una litania infinita di una devozione antica che conserva intanto il suo fascino.

sabato 25 luglio 2020

Il tesoro

L’aveva detto Gesù: “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 21).
Eccolo il Regno dei cieli: un tesoro capace di appagare ogni desiderio.
Per il contadino e il mercante delle parabole è una gioia trovare il tesoro nascosto, la perla preziosa: sono pronti a vendere tutto per avere quanto hanno trovato.
Più avanti nel Vangelo un altro troverà il tesoro, e questa volta siamo fuori parabola, è una persona vera, un giovane, che ha trovato il tesoro vero, Gesù. Che altro gli rimane se non vendere tutto, come hanno fatto contadino e mercante della parabola? È proprio questo l’invito di Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19, 21).

Un tesoro da una parte e le nostre piccole cosa dall’altra… Il Regno dei cieli richiede sempre una scelta.
Per gli angeli, alla fine dei tempi, sarà facile separare i buoni dai cattivi, come fanno i pescatori che scelgono i pesci, perché la scelta l’abbiamo già fatta noi.
Ci conviene scegliere subito e dire, con la vita e con le labbra e col cuore: “Sei tu, Signore, l’unico mio bene” (cf Sal 15, 2), perché “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”.

venerdì 24 luglio 2020

Libri d’estate: Il mare nel deserto


Un romanzo che entra nelle piaghe di una donna infelice e in quelle di un popolo martoriato.
Una bambina autistica, un saggio monaco, un terrorista crudele.
Sullo sfondo l’interminabile guerra in Siria, il rapimento di padre Paolo Dall’Oglio, l’esperienza del monastero di Mar Musa.

Un racconto sobrio, che non va mai sopra le righe, pur non mancandone le occasioni.
Un romanzo che suggerisce risposte senza essere consolatorio, che ha il coraggio di additare il perdono come unica via per la pace delle nazioni e l’accettazione di sé e degli altri per la pace del cuore.

giovedì 23 luglio 2020

La conversione missionaria della comunità parrocchiale



Ai laici nella Chiesa è consentito presiedere la celebrazione della liturgia della Parola nelle domeniche e nelle feste di precetto, quando «per mancanza del ministro sacro o per altra grave causa diventa impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica», l’amministrazione del battesimo, la celebrazione del rito delle esequie.
È quanto la stampa ha subito messo in rilievo del Documento della Congregazione per il Clero “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, che porta la data del 29 giugno 2020.
Ma questo è soltanto un numero (esattamente il n. 98) di un Documento costituito da ben 124 numeri. Inoltre la disposizione circa le competenze del laico non costituisce una novità, perché già presente nel Codice di Diretto Canonico, nonché in successivi documenti della Santa Sede.
Tale disposizione, semplicemente ricordata dal Documento, costituisce un elemento particolare che si incastona in un contesto molto più ampio: una riflessione a tutto campo sul senso e sul valore della parrocchia oggi.


Il termine “parrocchia”, nella sua etimologia, richiama la “casa” del popolo di Dio, il “vicinato”, e quindi rimanda alle “chiese domestiche” dell’inizio del cristianesimo, poi sviluppate in chiese di un determinato territorio. Oggi il contesto è completamente cambiato: l’accresciuta mobilità fa sì che «la vita delle persone si identifica sempre meno con un contesto definito e immutabile, svolgendosi piuttosto in “un villaggio globale e plurale”; dall’altra, la cultura digitale ha modificato in maniera irreversibile la comprensione dello spazio, nonché il linguaggio e i comportamenti delle persone, specialmente quelle delle giovani generazioni». Di qui l’invito di papa Francesco, fin dall’inizio del suo ministero, a «cercare strade nuove», ossia a «cercare la strada perché il Vangelo sia annunciato».
Il Documento della Congregazione del clero vuole aiutare a riflettere sulle sfide che la parrocchia è chiamata ad affrontare. La proposta è quella di una “conversione pastorale in senso missionario”: la parrocchia è invitata a uscire da sé stessa verso «uno stile di comunione e di collaborazione, di incontro e di vicinanza, di misericordia e di sollecitudine per l’annuncio del Vangelo».


Si tratta di un Documento (tecnicamente “Istruzione”) organico, che analizza le diverse componenti della singola parrocchia, le possibilità e modalità di raggruppamento delle parrocchie, la costituzione di unità pastorali, le forme ordinarie e straordinarie di affidamento della cura pastorale. Si sofferma in particolare sulla figura del parroco, del vicario parrocchiale, dei diaconi, delle persone consacrate, dei laici, analizzando i molteplici possibili incarichi e ministeri, gli organismi di corresponsabilità ecclesiale, come il Consiglio parrocchiale per gli Affari Economici e il Consiglio pastorale parrocchiale. In ultimo parla delle offerte per la celebrazione dei Sacramenti, altro aspetto che ha attirato l’attenzione della stampa («dall’offerta delle Messe deve essere assolutamente tenuta lontana anche l’apparenza di contrattazione o di commercio», tenuto conto che «è vivamente raccomandato ai sacerdoti di celebrare la Messa per le intenzioni dei fedeli, soprattutto dei più poveri, anche senza ricevere alcuna offerta» = due norme riprese letteralmente dal Diritto Canonico in vigore dal 1983).
Il Documento invita a «esplorare con creatività vie e strumenti nuovi, che consentano alla parrocchia di essere all’altezza del suo compito primario, cioè essere il centro propulsore dell’evangelizzazione». Di qui i suggerimenti ad andare oltre la delimitazione territoriale, a mettere a frutto i molti ministeri e i diversi carismi presenti tra il popolo di Dio, a nuova strutturazione che consenta una autentica “pastorale d’insieme”.
Ciò esige, riconosce il Documento, che «la storica istituzione parrocchiale non rimanga prigioniera dell’immobilismo o di una preoccupante ripetitività pastorale ma, invece, metta in atto quel “dinamismo in uscita” che, attraverso la collaborazione tra comunità parrocchiali diverse e una rinsaldata comunione tra chierici e laici, la renda effettivamente orientata alla missione evangelizzatrice, compito dell’intero Popolo di Dio, che cammina nella storia come “famiglia di Dio” e che, nella sinergia dei diversi membri, lavora per la crescita di tutto il corpo ecclesiale».
La speranza è che la parrocchia, secondo il desiderio già espresso da papa Francesco il 27 luglio 2016, diventi «un posto di creatività, di riferimento, di maternità. E lì attuare quella capacità inventiva; e quando una parrocchia va avanti così si realizza quello che io chiamo “parrocchia in uscita”».
Il Documento offre dunque proposte e le puntualizzazioni che possono costituire un importante punto di riferimento per il rinnovamento missionario della parrocchia. Ma soprattutto è un pressante e accorato invito perché si sperimentino vie nuove che il Documento non può individuale pienamente perché esse sono frutto della vita e della creatività delle comunità cristiane.

mercoledì 22 luglio 2020

Maria Maddalena, "Apostolorum Apostola" / 2



L’incontro della Maddalena col Risorto mostra un ulteriore tratto dell’amore di questa donna. Ella strinse a sé Gesù in maniera così forte che egli fu costretto a chiederle di non trattenerlo, perché doveva tornare al Padre.
Come tante altre donne del vangelo, anche lei ha bisogno di un contatto fisico con Gesù, rispondente alla realtà di un Dio che si è incarnato: le donne gli lavano i piedi, lo cospargono di unguenti, e una volta risorto gli prendono i piedi e lo adorano (cf. Mt 28, 9). Gli apostoli invece rimangono come paralizzati davanti al Risorto e dev’essere Gesù a domandare loro di toccarlo, di prendere contatto con la realtà della sua incarnazione, presente anche dopo la risurrezione: «Sono proprio io! Toccatemi» (Lc 24, 39). Maria Maddalena non ha bisogno di questo invito, al pari delle altre donne che baciano spontaneamente i piedi al Signore Risorto, lo abbraccia e lo tiene stretto a sé.
Questo episodio ci ricorda che Gesù non è un’idea, una dottrina, ma una persona concreta, Dio fatto uomo, entrato nella nostra storia, che ha assunto la nostra umanità con tutte le sue debolezze.
A me piace la devozione semplice della nostra gente, che ha bisogno di toccare le immagini, segno del bisogno di esprimere l’amore con concretezza.
L’amore vero è concreto, sa prendersi cura delle persone amate “toccando” le loro necessità, servendole nella quotidianità, facendosi “prossimi” ad esse, vicini, attenti, consolando, aiutando, condividendo…

Ora che Maria di Magdala ha ritrovato il suo Signore, ora che ha sperimentato in maniera nuova il suo amore personale – si è sentita chiamare per nome –, ora che, avendolo potuto toccare, ha scoperto che egli è vivo, anche se in maniera nuova rispetto alla vita di prima, ora può annunciarlo ai discepoli.
Ecco un’ulteriore sua caratteristica: è annunciatrice della Buona Novella: “il Signore è risorto e vivente!”
Il suo non è tuttavia un annuncio astratto, di pura dottrina, come di qualcuno che ha imparato grazie allo studio o per aver ricevuto una conoscenza grazie a un insegnamento.
La sua è una testimonianza diretta, personale: «Ho visto il Signore!».
L’annuncio autentico presuppone l’esperienza di ciò che si annuncia.
Maria di Magdala è “Apostolorum Apostola” perché trasmette agli apostoli quanto ha vissuto: l’incontro personale con il Risorto.
«Il Signore ci dia la grazia, a tutti noi – ha chiesto papa Francesco –, di poter dire con la nostra vita: “Ho visto il Signore”, non perché mi è apparso, ma perché “l’ho visto dentro al cuore”».

martedì 21 luglio 2020

Maria Maddalena, Apostolorum Apostola / 1


Tre anni fa, per volere di papa Francesco, la memoria liturgica di Maria Maddalena è stata elevata a ruolo di festa, come per gli apostoli. “Apostolorum Apostola” l’ha infatti chiamata san Tommaso d’Aquino. La motivazione del passaggio da festa a solennità è stata motivata «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata».

La tradizione latina, a cominciare da san Gregorio Magno, ha identificato in una sola persona la donna peccatrice che nella casa di Simone unse i piedi di Gesù e li lavò con le sue lacrime, Maria di Betania e Maria di Magdala. Tre donne che nei Vangeli appaiono ben distinte l’una dall’altra.
Di Maria di Magdala sappiano soltanto che, guarita da una grave malattia, ritenuta opera dei demoni, aveva preso a seguire Gesù, assieme ad altre donne. Benché esse fossero numerose, lungo i Vangeli la Maddalena è quasi sempre nominata per prima, come fosse alla testa di quel gruppo, leader indiscusso.
Maria è dunque una discepola, grata a Gesù per l’amore che le aveva dimostrata guarendola dal male.

Abitualmente i maestri di allora avevano soltanto discepoli uomini al loro seguito. Gesù invece ammette nella sua cerchia anche le donne, operando un autentico cambiamento di mentalità. Esse lo seguono al pari degli apostoli e degli altri discepoli, ascoltano le sue parole, condividono con lui e con gli altri i propri beni, fanno parte in tutto della nuova famiglia, del nuovo popolo di Dio che Gesù è venuto a formare.
Gesù non ha preclusioni, tutti possono seguirlo ed entrare a far parte della sua famiglia, anche i pubblicani e i peccatori (cfr. Mt 9, 10-13). Ormai non conta più essere d’un popolo o di un altro, schiavo o libero, uomo o donna; Gesù ci ha resi tutti uno in lui (cfr. Gal 3, 28).
Le donne hanno contraccambiato la sua fiducia nei loro confronti. A differenza degli uomini lo hanno seguito fino ai piedi della croce, accompagnandolo nella sepoltura e incamminandosi di nuovo per andare a visitarne la tomba.
Che cosa le ha motivate? Certamente l’amore: la consapevolezza dell’immenso amore di Gesù per loro e la risposta generosa del loro amore verso di lui.

Maria di Magdala ne è il modello perfetto. Gesù le ha mostrato il suo amore guarendola e lei lo ha riamato fino alla fine: Matteo e Marco la nominano per prima fra le donne che sono ai piedi della croce. Ma a lei non basta vederlo morire, vuole prendersi cura anche del suo corpo sepolto. Non trovandolo più nella tomba va a riferirlo a Pietro, senza rassegnarsi della sua scomparsa. Torna verso la tomba e continua nella disperatamente ricerca.

È l’icona della sposa del Cantico dei Cantici che, una volta smarrito l’amato, si mette alla sua ricerca: «Mi alzerò e perlustrerò la città, i vicoli, le piazze, ricercherò colui che amo con tutta l’anima… voglio cercare l’amore dell’anima mia». Non lo trova, eppure non si dà pace e continua nella ricerca: «Mi incontrarono i vigili di ronda in città: “Avete visto colui che amo con tutta l’anima?”».
Come quello della sposa del Cantico anche l’amore di Maria è un amore appassionato, perseverante e, proprio per questo, è presto ricompensato.
“Maria”! Si sente chiamare per nome. È Gesù che la chiama per nome. Sì, Gesù la conosce per nome, mostrando così un amore tutto personale. Per Gesù non esiste la gente, conosce ognuno per nome, conosce anche ognuno di noi, personalmente.
Papa Francesco commentava così l’incontro del Maestro con Maria di Magdala: “Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto – secondo i vangeli – sia avvenuta in un modo così personale! Che c’è qualcuno che ci conosce, che vede la nostra sofferenza e delusione, e che si commuove per noi, e ci chiama per nome. È una legge che troviamo scolpita in molte pagine del vangelo. Intorno a Gesù ci sono tante persone che cercano Dio; ma la realtà più prodigiosa è che, molto prima, c’è anzitutto Dio che si preoccupa per la nostra vita, che la vuole risollevare, e per fare questo ci chiama per nome, riconoscendo il volto personale di ciascuno. Ogni uomo è una storia di amore che Dio scrive su questa terra. Ognuno di noi è una storia di amore di Dio. Ognuno di noi Dio chiama con il proprio nome: ci conosce per nome, ci guarda, ci aspetta, ci perdona, ha pazienza con noi. È vero o non è vero? Ognuno di noi fa questa esperienza” (17 maggio 2017).

Sì, in questa pagina di Vangelo tutti noi possiamo specchiarci e riconoscerci. Non siamo anche noi alla ricerca di Gesù? Non vogliamo anche noi incontrarlo? Tanti l’abbiamo già trovato, siamo già suoi discepoli. Eppure a volte lo smarriamo, o lo sentiamo lontano. Abbiano l’impressione che ci abbia abbandonato, che non ascolti più la nostra preghiera. Altre volte siamo noi ad abbandonarlo con i nostri peccati, con scelte sbagliate o semplicemente con il sopraggiungere di una qualche indifferenza o stanchezza.
Che tristezza se ci lasciassimo scoraggiare, se non confidassimo nella sua misericordia, se non si risvegliasse in noi il desiderio di cercarlo, di incontrarlo ancora, di ricominciare un rapporto nuovo, più profondo. L’amore non si rassegna mai alla perdita dell’amato.
Quando Maria Maddalena, dopo lo smarrimento, ha ritrovato il Signore, ha provato una gioia mai provata prima ed è nato un legame così profondo che niente ha più potuto spezzare, neppure la morte.
Così per noi. Un amore ritrovato dopo la prova, anche dopo il tradimento, può essere ancora più bello, purificato, tutto intriso di misericordia. Basta non arrendersi, perseverare nella ricerca, come ci insegna Maria di Magdala. (Continua / 1)