Vigilia di Natale unica e
irrepetibile. Andiamo a trovare il prof. Uppadhyaya nella sua casa al centro di
Mumbai. Un appartamento piccolo, stracolmo di libri, sparsi ovunque. Due camere
e cucina, dove vive il professore con la moglie e con il figlio sposato. In
questi giorni siamo stato insieme durante il seminario interreligioso, ma
visitarlo nella sua casa è un’esperienza diversa, intensa, che rinsalda ancora
l’amicizia iniziata 15 anni fa.
Roberto Catalano, che mi accompagna assieme
a Judith (è con noi anche Luciano, discepolo del professore), ha appena scritto
sul suo blog: “A guardarlo il prof. Uppadhyaya è l’immagine del vero guru:
piccolo di statura, occhi vivissimi e sguardo penetrante, capelli fluenti
raccolti in una treccia che la moglie cura ogni mattina con grande amore e
rispetto e, poi, la barba, bianca, spesso raccolta in un pomo che non ne
diminuisce la bellezza e l’invito al rispetto. Ma, soprattutto, è quando
comincia a parlare che si sente la sua statura morale, di pensiero, umano e
religioso insieme. A quel punto non si vorrebbe più smettere di ascoltarlo. Non
l’ho mai visto leggere, anche se ogni suo discorso è preparato con cura. Ma è
quando lascia fluire quanto ha in cuore e nella mente (nella tradizione indiana
i due aspetti sono una unica realtà) che il professore incanta”.
Gli chiedo cos’è un
guru. “È colui che illumina la via, e
mostrare la strada, che eliminare la tenebra e dà luce agli occhi per poter
vedere fuori di noi e dentro di noi”. La parola ha la radice
gŗ che
significa luce.
E come si sceglie il proprio guru?
Gli domando. “Il guru non si sceglie, è il guru che sceglie te. O piuttosto è
una misteriosa, inspiegabile attrazione reciproca. Come è accaduto a Gesù con i
suoi primi discepoli – continua a spiegarmi. Le ha guardati negli occhi, loro
lo hanno guardato negli occhi e c’è stata l’attrattiva. La stessa che sta
all’origine dell’innamoramento di un ragazzo e di una ragazza: perché proprio
quella ragazza, quando ce ne sono di più belle, di più ricche? È il mistero
dell’amore… In definitiva è Dio che ha scelto quelle due persone a percorrere
una strada insieme come due tronchi che navigano sullo stesso fiume, uno
accanto all’altro”.
Intanto la moglie Koikyla e la nuora
ci offrono tè indiano con ginger e menta e tipici snacks del Gujarat:
pakora fritte in nostra presenza e minuscoli dolci con diversi ingredienti.
Noi, essendo Natale, gli regaliamo una statuina di Gesù Bambino, fatta dai gen
4.
Ci facciamo raccontare la loro
storia di coppia. Koikyla era stata promessa a Sureshchandra Uppadhyaya quando
lui aveva tre anni e lei era ancora nel seno materno. Il padre della bambina
che stava per nascere aveva scritto al padre del ragazzino chiedendo se i due
si potevano sposare quando avrebbero raggiunto al giusta età. Quando il momento
arrivò, si videro per la prima volta, dopo tre giorni di festa dei membri della
famiglia nel villaggio di origine. Alla fine si sposarono ed ora sono insieme
da 62 anni. Fedeltà assoluta, armonia incredibile. Il segreto? “Non conoscendosi, non sapendo nulla l’uno
dell’altro non avevamo nessuna aspettativa e quindi abbiamo dovuto cominciare
tutto fra noi, proprio tutto”.
Il discorso si fa sempre più profondo
pur nella semplicità e la cordialità che continua a caratterizzare le due ore
che restiamo insieme.
Verso la fine gli chiedo di vedere
un testo del Bhagawad-Gita in sanscrito, poi azzardo: “Perché non salmodiate un
capitolo?” Koikyla allora canta tutta una parte del testo sacro indù. Ha il
libro aperto, ma lo sa tutto a memoria. Canta anche la nuova; anche lei lo sa a
memoria, pur non conoscendo l’antica lingua sanscrita. Si crea una atmosfera
sacra.
Il prof. Uppadhyaya mi chiede se
possiedo il testo del Bhagawad-Gita. “In inglese”, gli risposto. Sorride: “È
come se invece di vivere con la moglie avessi soltanto una sua foto!”. Me ne
offre una copia in sanscrito, anche con alcune illustrazione.
Parlando di prossimi appuntamenti,
ci prega di ricordargli le date, “perché ormai sono vecchio e ho poca memoria.
L’unica cosa che ricordo è Dio”.
Prima di uscire gli chiedo se posso
vedere il Baby Krishna che aveva portato con sé a Roma nel 2002, quando ci
eravamo conosciuti la prima volta. Passiamo così nella mini cucina dove si
trova il piccolo tempio di famiglia dedicato a Krishna e ai due piccoli Krishna
(sono due gemelli!). Sorpresa: il Gesù Bambino che avevamo appena regalato è
già collocato accanto a Krishna! Faranno Natale insieme! Gesù non è venuto in
terra proprio per entrare nelle nostre culture? “Anche questo – commenta
Roberto – un momento sacro: non siamo entrati solo nella vita dei due coniugi,
condividendo aspetti personali e spirituali, ma anche nel cuore della loro
religiosità, del loro rapporto con la divinità”.
Nel
2002 ho raccontato la storia del nostro incontro, scrivendo un breve articolo:
“Il flauto di Krishna”
Una ventina d’anni fa una piccola
statua del dio Krishna, venerata da due generazioni in una famiglia indiana,
espresse un desiderio: “Mi piacerebbe essere trasferita in casa del professor
Upadhyàya perché lui e sua moglie mi sono fedeli devoti”. Così l’11 novembre
1986 il bambino Krishna entrò in casa del professor Upadhyàya, direttore degli
studi di ricerca post-laurea in Sanscrito e Cultura indiana antica
all’Università di Bombay.
Incontro il professor Upadhyàya,
durante un simposio Indù-Cristiano. La barba bianchissima e folta gli arriva
fino alla cintola. I capelli sono raccolti in una lunga treccia arrotolata
dietro la nuca. La sua conferenza verte sul Bhàkti, l’amore puro che gli indù
sono chiamati a vivere, in totale abbandono e fedele donazione a Dio. Non è una
lezione teorica. Racconta semplicemente come, assieme alla moglie, vive il
rapporto con il bambino-Krishna. “La statuina che è giunta a casa nostra, ci
spiega, non è una semplice icona o statua o fotografia del dio Krishna: è
proprio lui, è nostro figlio, un bambino vero!”.
Ogni mattina lui e la moglie vanno a
porgere ossequi al loro Dio. Gli tolgono la coperta dal letto, gli cantano una
dolce melodia, gli porgono davanti una piccola giara d’acqua pregandolo di
volersi lavare da sé. Altre volte preferiscono lavargli loro stessi denti e
viso. Prendono quindi il tè e lo servono anche a lui in una tazzina che gli
sistemano su un piccolo vassoio. Gli mettono sempre accanto anche dei dolci.
Puliscono con cura il pavimento della stanza del bambino Krishna, e rimettono a
posto sedili, cuscini, ventagli, tendine e il bastoncino da passeggio. Quindi
gli fanno il bagno, lo massaggiano con acqua aromatizzata, tiepida d’inverno e
fresca d’estate. Infine lo posano su un apposito tavolo dove lo vestono e lo
adornano con fogge diverse a secondo delle stagioni, per poi adagiarlo sul suo
trono. E questo è soltanto l’inizio della giornata. Ci sono i pasti, il riposo
pomeridiano, le visite degli amici, le feste, il riposo serale… Il tutto
accompagnato da inni, nenie e dolci conversazioni (Krisgna abitualmente parla
loro nel sonno). L’intera giornata ruota attorno al bambino Krishna. “Parliamo
con lui – racconta il professore –, scherziamo con lui. Alle volte ci fa
perdere la pazienza, allora cerchiamo anche di intimorirlo: Se non ti lasci
vestire in fretta oggi non ti diamo i dolci. Oppure: Se non ti metti presto a
letto viene il ladro di bambini e ti porta via nella grande borsa dove mette i
bambini disobbedienti. Altre volte lo coccoliamo, gli diamo anche qualche
puffetto. Insomma io e mia moglie viviamo spontaneamente senza fatica insieme
con Lui ogni momento della nostra giornata. Dio è il centro della nostra vita,
tutte le nostre attività sono rapportate a lui”.
Mi ha incantato la semplicità di
questo grande professore, così come la sua grande fede e la profonda devozione.
Mi ha ricordato quello che anch’io come cristiano sono chiamato a vivere: stare
sempre alla presenza di Dio, agire costantemente in lui e per lui.
Ho quindi pensato di andare a
visitare il professor Upadhyàya nella stanza d’albergo dov’è ospitato. O
meglio, ho voluto andare a vedere il suo “bambino” (naturalmente se l’è portato
con sé a Roma). Mi tolgo le scarpe in segno di rispetto ed entro nella stanza.
Sono accolto con profonda cordialità e vengo invitato a sedermi per terra, sul tappeto,
davanti al piccolo Krishna. Con mia sorpresa mi accorgo che sono due gemelli,
grandi appena cinque centimetri. La signora mi mostra l’intero guardaroba del
Dio. Presto dovrà preparargli un vestito nuovo perché ad agosto celebra il
compleanno. Noto che il piccolo Krishna ha in mano un minuscolo flauto e mi
interesso anche a questo strumento.
Nel pomeriggio, prima di riprendere
i lavori del dialogo Indù-Cristiano, il professor Upadhyàya mi viene incontro
eccitato: “Durante la siesta mi è apparso il piccolo Krishna e di ha detto:
Sono stato contento che il tuo ospite sia venuto a farmi visita. Hai visto come
si è interessato del mio flauto? Ho un messaggio per lui: Digli di essere vuoto
come un flauto, in modo che attraverso di lui possa far risuonare le mie
melodie”.