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E come si sceglie il proprio guru?
Gli domando. “Il guru non si sceglie, è il guru che sceglie te. O piuttosto è
una misteriosa, inspiegabile attrazione reciproca. Come è accaduto a Gesù con i
suoi primi discepoli – continua a spiegarmi. Le ha guardati negli occhi, loro
lo hanno guardato negli occhi e c’è stata l’attrattiva. La stessa che sta
all’origine dell’innamoramento di un ragazzo e di una ragazza: perché proprio
quella ragazza, quando ce ne sono di più belle, di più ricche? È il mistero
dell’amore… In definitiva è Dio che ha scelto quelle due persone a percorrere
una strada insieme come due tronchi che navigano sullo stesso fiume, uno
accanto all’altro”.
Intanto la moglie Koikyla e la nuora
ci offrono tè indiano con ginger e menta e tipici snacks del Gujarat:
pakora fritte in nostra presenza e minuscoli dolci con diversi ingredienti.
Noi, essendo Natale, gli regaliamo una statuina di Gesù Bambino, fatta dai gen
4.
Il discorso si fa sempre più profondo
pur nella semplicità e la cordialità che continua a caratterizzare le due ore
che restiamo insieme.
Verso la fine gli chiedo di vedere
un testo del Bhagawad-Gita in sanscrito, poi azzardo: “Perché non salmodiate un
capitolo?” Koikyla allora canta tutta una parte del testo sacro indù. Ha il
libro aperto, ma lo sa tutto a memoria. Canta anche la nuova; anche lei lo sa a
memoria, pur non conoscendo l’antica lingua sanscrita. Si crea una atmosfera
sacra.
Il prof. Uppadhyaya mi chiede se
possiedo il testo del Bhagawad-Gita. “In inglese”, gli risposto. Sorride: “È
come se invece di vivere con la moglie avessi soltanto una sua foto!”. Me ne
offre una copia in sanscrito, anche con alcune illustrazione.
Parlando di prossimi appuntamenti,
ci prega di ricordargli le date, “perché ormai sono vecchio e ho poca memoria.
L’unica cosa che ricordo è Dio”.
Nel
2002 ho raccontato la storia del nostro incontro, scrivendo un breve articolo:
“Il flauto di Krishna”
Una ventina d’anni fa una piccola
statua del dio Krishna, venerata da due generazioni in una famiglia indiana,
espresse un desiderio: “Mi piacerebbe essere trasferita in casa del professor
Upadhyàya perché lui e sua moglie mi sono fedeli devoti”. Così l’11 novembre
1986 il bambino Krishna entrò in casa del professor Upadhyàya, direttore degli
studi di ricerca post-laurea in Sanscrito e Cultura indiana antica
all’Università di Bombay.
Incontro il professor Upadhyàya,
durante un simposio Indù-Cristiano. La barba bianchissima e folta gli arriva
fino alla cintola. I capelli sono raccolti in una lunga treccia arrotolata
dietro la nuca. La sua conferenza verte sul Bhàkti, l’amore puro che gli indù
sono chiamati a vivere, in totale abbandono e fedele donazione a Dio. Non è una
lezione teorica. Racconta semplicemente come, assieme alla moglie, vive il
rapporto con il bambino-Krishna. “La statuina che è giunta a casa nostra, ci
spiega, non è una semplice icona o statua o fotografia del dio Krishna: è
proprio lui, è nostro figlio, un bambino vero!”.
Ogni mattina lui e la moglie vanno a
porgere ossequi al loro Dio. Gli tolgono la coperta dal letto, gli cantano una
dolce melodia, gli porgono davanti una piccola giara d’acqua pregandolo di
volersi lavare da sé. Altre volte preferiscono lavargli loro stessi denti e
viso. Prendono quindi il tè e lo servono anche a lui in una tazzina che gli
sistemano su un piccolo vassoio. Gli mettono sempre accanto anche dei dolci.
Puliscono con cura il pavimento della stanza del bambino Krishna, e rimettono a
posto sedili, cuscini, ventagli, tendine e il bastoncino da passeggio. Quindi
gli fanno il bagno, lo massaggiano con acqua aromatizzata, tiepida d’inverno e
fresca d’estate. Infine lo posano su un apposito tavolo dove lo vestono e lo
adornano con fogge diverse a secondo delle stagioni, per poi adagiarlo sul suo
trono. E questo è soltanto l’inizio della giornata. Ci sono i pasti, il riposo
pomeridiano, le visite degli amici, le feste, il riposo serale… Il tutto
accompagnato da inni, nenie e dolci conversazioni (Krisgna abitualmente parla
loro nel sonno). L’intera giornata ruota attorno al bambino Krishna. “Parliamo
con lui – racconta il professore –, scherziamo con lui. Alle volte ci fa
perdere la pazienza, allora cerchiamo anche di intimorirlo: Se non ti lasci
vestire in fretta oggi non ti diamo i dolci. Oppure: Se non ti metti presto a
letto viene il ladro di bambini e ti porta via nella grande borsa dove mette i
bambini disobbedienti. Altre volte lo coccoliamo, gli diamo anche qualche
puffetto. Insomma io e mia moglie viviamo spontaneamente senza fatica insieme
con Lui ogni momento della nostra giornata. Dio è il centro della nostra vita,
tutte le nostre attività sono rapportate a lui”.
Mi ha incantato la semplicità di
questo grande professore, così come la sua grande fede e la profonda devozione.
Mi ha ricordato quello che anch’io come cristiano sono chiamato a vivere: stare
sempre alla presenza di Dio, agire costantemente in lui e per lui.
Ho quindi pensato di andare a
visitare il professor Upadhyàya nella stanza d’albergo dov’è ospitato. O
meglio, ho voluto andare a vedere il suo “bambino” (naturalmente se l’è portato
con sé a Roma). Mi tolgo le scarpe in segno di rispetto ed entro nella stanza.
Sono accolto con profonda cordialità e vengo invitato a sedermi per terra, sul tappeto,
davanti al piccolo Krishna. Con mia sorpresa mi accorgo che sono due gemelli,
grandi appena cinque centimetri. La signora mi mostra l’intero guardaroba del
Dio. Presto dovrà preparargli un vestito nuovo perché ad agosto celebra il
compleanno. Noto che il piccolo Krishna ha in mano un minuscolo flauto e mi
interesso anche a questo strumento.
Nel pomeriggio, prima di riprendere
i lavori del dialogo Indù-Cristiano, il professor Upadhyàya mi viene incontro
eccitato: “Durante la siesta mi è apparso il piccolo Krishna e di ha detto:
Sono stato contento che il tuo ospite sia venuto a farmi visita. Hai visto come
si è interessato del mio flauto? Ho un messaggio per lui: Digli di essere vuoto
come un flauto, in modo che attraverso di lui possa far risuonare le mie
melodie”.
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