Accogliere: bello questo prestito dal latino colligere,
“raccogliere insieme”. Fa pensare a un mazzo di fiori vari colti in giardino,
al ritrovarsi tra amici o in famiglia, al mettere insieme una squadra. Dice
apertura verso l’altro, disponibilità a farlo entrare nel proprio mondo, in casa,
nell’intimità della propria interiorità. È lasciar cadere le barriere del
pregiudizio, della paura, della diffidenza, che ci tengono distanti se non
avversari, soprattutto in presenza del diverso. È aprire timidamente la porta.
Ti accorgi allora che il “diverso” non è poi così diverso come te l’eri
immaginato. Abbiamo in comune con tutti un 95% d’umanità che ci rende simili, e
un 5% di caratteristico che ci arricchisce reciprocamente. Allora la porta la spalanchi
e può nascere un’amicizia. Il pensiero va inevitabilmente agli immigrati in
cerca di casa, di lavoro, di rapporti, alle persone disabili, ma anche ai
vicini rumorosi, ai colleghi noiosi... È un mettersi in gioco. Può anche finire
male. È un rischio da correre, se vogliamo essere pienamente umani.
C’è reciprocità nel colligere, espressa da quel co-, una sfumatura che in italiano si è perduta, riducendo l’accoglienza a un’azione unilaterale. L’apostolo Paolo ha ben presente la valenza tipicamente cristiana della reciprocità, insita nel comandamento che Gesù ha definito suo e nuovo: “Amatevi gli uni gli altri”. Ed ecco come declina tale reciprocità: “Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi” (Romani, 15, 7). L’amore si esprime nei fatti, anche nella mutua accoglienza. Se io ti accolgo posso farti casa, ma la nostra casa la costruisco soltanto assieme a te, se anche tu mi fai casa. La famiglia, la società, in tutte le sue espressioni, la Chiesa stessa, sono frutto di un gioco: accettarsi gli uni gli altri, riceversi in reciproca cittadinanza. E alto modello ci è proposto: Cristo stesso, che ci ha introdotto nel suo cielo, e gli è costato non poco...
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