Quindici
anni fa mio babbo Leonello ci lasciava per il Cielo, proprio nel giorno della
Visitazione di Maria.
La
beatitudine che mi sembra caratterizzi il profilo spirituale del babbo Leonello
è: “Beati i miti”.
Mite
perché sapeva stare al gioco di noi piccolini che ci nascondevamo sotto la
tavola al suo rientro a casa dal lavoro. Ci piaceva sentirlo allarmato dalla
nostra scomparsa, forse mangiati dal lupo, e ci piaceva soprattutto saltargli
alle gambe per farci sentire vivi e gioire della sua gioia nell’averci
ritrovati.
Mite
perché ha affrontato le traversie della vita senza mai un lamento, anzi con
fede profonda e senso di gratitudine. La prima grande prova, che rimane nella
nostra memoria come un evento epico, sono state quelle tre lunghe ore in mare a
seguito dell’affondamento della nave su cui viaggiava. Quelle ore di «lotta per la vita furono lunghe –
scriveva da Bastia il 21 maggio 1943 –, saliva
un groppo alla gola, tremito, crampi, raffreddore, proprio non si respirava
più. Restavano ancora pochi minuti, invocavo la Madonna di Montenero, vedevo in
faccia la morte, pensavo a casa. Quando finalmente arrivarono i soccorsi: una
motobarca italiana … quando la vidi mi venne spontaneo: “Questi sono angeli!”».
Mite
nel modo con cui ha saputo affrontare la prova estrema, quella della morte,
come mite agnello, senza un lamento.
È
vero, si muore come si vive.
Aveva
57 anni quando già si preparava alla vecchiaia, «gli anni più faticosi - scriveva -: occhi stanchi, menti vuote, i nipoti che ci fanno chiasso, non si può
più leggere un libro, delle domeniche si perde la Messa per ragioni di salute».
Già da allora si esercitava a raccogliere e conservare nel cuore «una frase in una predica, un ricordo in una
gita, un pensiero in un libro. C’è sempre qualcosa che si ricorda in modo
particolare ed allora teniamolo in mente, ricordiamolo spesso (ad es. Loppiano,
Greccio, ecc.)». E ancora: «Studiamo
la strategia della preghiera, ci servirà in modo particolare negli ultimi anni
di nostra vita. Anche la vecchiaia la dobbiamo preparare, è importante, è una
fase della vita come ogni altra età. È l’ultima fatica, ci porta direttamente
al cospetto di Dio».
Una
mitezza evangelica la sua, che non aveva il sapore né della rassegnazione né
della codardia, e che non lo ha esonerato dall’impegno civile, politico ed
ecclesiale.
Determinato
e fermo nelle idealità e nei propositi ci ha lasciato una intensa testimonianza
di amore e dedizione sincera alla famiglia e alla Chiesa diocesana, di rettitudine
morale e di sensibilità spirituale esemplari, capaci di aiutare anche noi a
vivere con serietà l’impegno civile e cristiano. “Fatti e non parole” potrebbe
essere il suo motto.
Ricordo
solo il suo impegno ecclesiale, nelle sue tappe principali.
È
stato prima terziario francescano. Vestì l’abito di San Francesco il 20
dicembre 1935 e il 16 gennaio 1938 fece la professione. Quando arrivava con la
moto nel chiostro di S. Domenico il Direttore del Terz’Ordine si metteva le
mani nei capelli ed esclamava: La pace è finita! Fedele alle adunanze ne
redigeva i verbali. Ma soprattutto si è impregnato gradatamente e ha vissuto
con coerenza l’ideale di san Francesco.
È
stato un convinto membro dell’Azione cattolica, ricoprendo varie cariche
diocesane. Mi ricordo quando il Vescovo Pietro Fiordelli, incontrandolo cinque
anni prima della morte, lo abbracciò dicendogli e dicendoci con foga: “Ecco uno
dei miei giovani d’azione cattolica, uno dei miei sostegni”. Era l’ultimo
incontro qua in terra. Ora si sono nuovamente incontrati in Cielo.
È
stato un amico dei Missionari Oblati di Maria Immacolata dei quali
apprezzava l’apertura e lo stile di vita fraterno. Una delle poche parole che è
stato capace di pronunciare in questo ultimo periodo è stata l’esclamazione di
gioia quando ha sentito che entravano in casa due missionari: “Gli Oblati!”.
Ascoltando
gli aggiornamenti sulla vita del Movimento dei focolari, lui che tante
volte era stato a Loppiano e aveva partecipato alle Mariapoli e agli incontri
di Castelgandolfo, diceva: “Vorrei essere un focolarino”.
È
stato un uomo di fede dunque, capace di gioire di tutto ciò che avvertiva di
bello e di nuovo nella vita della Chiesa.
Il
rinnovamento liturgico è stato per lui come un grande respiro così come tutto
il messaggio del Concilio Vaticano II.
Nel
1964, in un suo scritto, già si sente quell’aria nuova: «La S. Pasqua di Resurrezione è prossima. Che giorni di Santi ricordi!…
Costante e fedelmente ci fa rivivere nel tempo tutta la Passione e morte di
N.S.G.C. sempre fresca come allora, dopo 20 secoli.
Resurrezione, che è
vittoria della vita sulla morte, della grazia sul peccato, di Dio sul demonio,
premio eterno a tante rinunzie ed opere buone, Speranza che ha dato forza a
tanti apostoli e martiri.
Quanto è bella la
nostra Religione!
Quante tappe così
belle durante l’anno, che la Chiesa Madre amorosa ci mette sulla via
dell’eternità. Ci facciano meditare veramente e ci siano oasi di ristoro, onde
ripartire più buoni, più zelanti, con più amore ai nostri doveri.
Che tutti noi si sia
una cosa sola nell’imitazione di Gesù, per quanto ci è possibile, nella vita e
nella resurrezione».
Nel
suo volume dei documenti conciliari uno di questi è quasi interamente sottolineato,
il documento sui laici: finalmente vedeva riconosciuto il suo statuto di laico
all’interno della Chiesa, anche se in pratica continuava a soffrire nel
percepirne, di fatto, una certa emarginazione.
È
stato un uomo di fede, ma senza aver mai condiviso atteggiamenti ipocriti o bigotti.
Anzi, perché uomo di Chiesa, ha sofferto della divisione e delle piccinerie che
avvertiva in essa. Nel 1969 scriveva: «Vedrei
bene cambiare molto del passato per eliminare ogni rivalità tra vari ordini e
diocesi, sia nel campo laico che in quello religioso. Dovrebbe essere la stessa
cosa o dell’A.C., o del Terz’Ordine, o degli Scout, ecc., pur di lavorare bene,
allo stesso fine e in armonia con l’autorità, cioè con tanta più carità e amore!
Gesù disse a S. Francesco: “Va, restaura la mia Chiesa”, ma poi capì che era
quella spirituale; cioè non vale niente costruire chiese ed opere parrocchiali
se non sappiamo costruire la Comunità Parrocchiale nella carità e nell’amore,
con tutte le sue infinite applicazioni…».
A
volte, come Gesù, avrebbe voluto prendere le funi e cacciare i mercanti dal tempio,
ma più si rendeva conto delle debolezze dei membri della Chiesa più cresceva la
sua fiducia nella Chiesa. Davanti al negativo non è mai arretrato, anzi ha
continuato ad amare e servire la Chiesa, come scriveva nel bollettino della
nostra parrocchia: «Vogliamo amare la
Chiesa e lavorare per Essa, oggi che maggiormente ha bisogno di figli buoni,
obbedienti ed uniti per realizzare la nostra Comunità». Aveva infatti il
senso del mistero della Chiesa: «Individualmente
– scriveva – siamo servi inutile, ma
nella Comunione dei Santi anche la piccola azione o un pensiero d’amore può
avere grande valore».
Ogni
giorno andava a pregare nella chiesa di sant’Agostino dove c’è l’adorazione
eucaristica permanente. «Si cerca tanto
la fuga dai rumori, la casa in montana, una tregua alla vita dinamica – diceva
al Consiglio pastorale della parrocchia di san Paolo nel 1972. Andiamo qualche volta in Chiesa, per es. a
S. Agostino nel trionfo dell’Eucaristia, dai PP. Cappuccini nella pace e umiltà
francescana. In Chiesa ci dobbiamo star volentieri, dobbiamo trovarci un relax
davanti a Lui. Egli ha detto: “Venite a me, vi ristorerò”».
Ogni
giorno, come ogni buon cristiano, recitava con fedeltà le preghiere del mattino
e della sera, l’angelus e il rosario.
Ma
soprattutto pregava in maniera spontanea, un po’ originale.
Il
6 dicembre 1968, allora io avevo vent’anni, mi scriveva ad esempio: «Mi dici di pregare un po’ per te; sta sicuro
che lo faccio come nel passato. Di solito mi piace raccomandarti alla Madonna,
che ti guardi come suo figlio a codesta età: ne avrai fino a 33 anni e poi si
cambierà preghiera».
La
sua era una preghiera semplice, di uomo mite.
È
proprio questo il titolo che diede ad una sua meditazione del 1976: “La preghiera
semplice”. Termino leggendone alcune
righe soltanto.
«La strategia della preghiera consiste,
secondo me, nell’educare il cuore e la mente.
Prima di pregare
impariamo ad amare ed amare tanto fortemente.
L’amore convalida la
preghiera, la vivifica, la precede, l’amore la porta a Dio, fa pensare a quel
che si dice, a quel che si vuole, ne fa una forza, la concretizza, bussa, è
attenzione, non ci distrae, cerca il motivo della preghiera, si gustano le
parole più belle.
Per esempio il
pensiero dice “Padre nostro che sei nei cieli”, ed il cuore pensa a Dio, agli Angeli,
al Paradiso, alla Creazione.
L’amore condivide,
gioisce della bellezza di Dio.
Il pensiero cerca Dio
con la preghiera, il cuore la gusta.
La preghiera è bella
quando è semplice, spontanea».
E
qui riporta una serie sterminata di brevi e intense invocazioni che usava
rivolgere a Dio, una più bella delle altre.
«Tante di queste giaculatorie – continua
nel suo scritto – sono flash, istantanee,
fulmini per il cielo, parafulmini per la terra. È una preghiera sempre nuova,
inventata dal cuore, gratuita, senza libri. Nessuna ce la ruberà, né le chiese
chiuse, né le guerre, né le rivoluzioni, né le prigioni. Anche nel dolore
quando la disperazione sembrerà avere il sopravvento sapremo fare queste brevi
preghiere e ci saranno di grande utilità.
È questione di
allenamento e saremo sempre giovani di spirito in ogni età della vita. Come gli
Angeli col loro Sanctus in Paradiso sono la delizia di Dio, così noi con le
nostre invocazioni saremo in terra la delizia di Dio».
Termino
con una di quelle preghiere semplici che era solito ripetere e che ha lasciato
scritta:
«Cristo nostro Pasqua, Vita e Risurrezione nostra;
Gesù sono nudo come
Te sulla Croce, perdona i nostri peccati;
“Oggi sarai meco in
Paradiso”;
Oh! il Paradiso!;
Prendimi, Signore;
Grazie Signore;
Vedrò Maria, La
Madonna, Vergine bella più bella di tutte;
Sarà Santo come tanti
altri;
Andrò in Paradiso, di
Lassù pregherò per i miei famigliari».