Vidi
la prima volta l’Isola San Giulio di Orta in un pomeriggio piovoso, di fine
settembre. Arrivavo da Roma, dov’era ancora estate, e per contrasto mi pareva
che qui l’autunno fosse ormai inoltrato. Il grigio uniforme del cielo si
specchiava nel grigio plubeo del lago, in tenue gradazioni di colori con i
tetti di ardesia, la pietra del campanile e delle case isolate. In quel chiarore
cinereo, il verde folto della riviera si adombrava di toni misteriosi e
placidi.
Appena
giunta nella piazzetta di Orta, la mia prima impressioni fu di trovarmi in una
quiete inattaccabile e che niente, fra le case, i portici e l’imbarcadero,
stridesse con quella quieta. Non un’insegna, un rumore, una presenza animata,
una tenda di finestra, un uscio, un dettaglio artificioso e estraneo all’ordine
colto del paesaggio. Mi sentivo arrivata in un’epoca indefinita e non databile,
piena di richiami ad un passato ancor vivente.
Sul
traghetto di linea ero l’unica passeggera. In pochi minuti arrivammo presso l’Isola,
l’aggirammo da settentrione e così ebbi modo di vederla subito tutta…
Scesi
da sola, in un silenzio che ne mio ricordo si fa perfetto.
Oltre
la riva irregolarmente lastricata, accidentata dai nodi di grosse radici, gli
edifici impongono d’impatto il senso del luogo, ci si accorge subito che è uno
spazio religioso e che lo è da lungo tempo…
È la stessa sensazione che ho provato anch’io. Anch’io,
alla fine di settembre, sono sceso a piedi dalla statale fino ad Orta, lungo l’acciottolato,
i mezzi pubblici non vi giungono. Anch’io, dopo aver percorso l’unica strada,
quasi un tunnel tra le case, mi sono trovato nella piazzetta, sul bordo del
lago, silenziosa e vuota. L’unica differenza è che sono giunto di mattina, e il
cielo velato di nubi si è presto aperto in un sole vigoroso.
La pagina che ho citato è della grande storica del
monachesimo femminile Mariella Carpinello, tratta dal libro Il segreto del chiostro, 1996.
Sapendomi a Domodossola la Carpinello mi ha pressato perché
visitassi l’Isola San Giulio, respirassi l’aria di questo piccolo mondo antico,
perché mi lasciassi compenetrare dagli affreschi della cattedrale che domina l’isola,
dal fascino misterioso della storia di secoli rappresa in un piccolissimo lembo
di terra, perché ammirassi il pulpito, il più originale che si possa pensare, perché
rievocassi la genialità di Guglielmo da Volpiano, partecipassi alla liturgia
monastica… tutti appelli che non ho disatteso. Ma soprattutto voleva che
incontrassi la monaca più famosa d’Italia, la madre Anna Maria Cànopi, da lei
prevenuta sul mio arrivo.
L’ho incontrata. Mi attendeva, minuta e sorridente,
avvolta nell’ampio abito abbaziale, con la croce appesa ad una lunga catena. Ormai
consumata dagli anni e dal lavoro, molto debole, ha lasciato il seggio per la sedia
a rotelle.
Quando nel 1973, su richiesta del vescovo di Novara,
venne a fondare il monastero sull’isola dai molti edifici ma deserta e invasa
dai rovi, portò con sé cinque sorelle, una ragazza la trovò in paese, prima di
traghettare. Ora sono un centinaio. A pranzo in foresteria, dove eravamo 15
ospiti, ho conosciuto una donna che nello stesso giorno entrava in monastero,
la sesta di quest’anno; la settimana verrà due giorni dopo…
Nonostante la sua rinomanza, la forte presenza nella
Chiesa italiana, i suoi sostanziali contributi nel campo della liturgia e della
spiritualità, madre Cànopi, si è presentata con grande semplicità, continuando
a ripetere che tutto è opera di Dio e che lei è un suo piccolo strumento. Pur
fragile appare maestosa, abitata da Dio. Non potevo non chiederle di benedirmi
e l’ha fatto con grande solennità, dopo aver preteso che io la benedicessi per
primo.