Ho
associato la parola “locale” a papa Francesco quando, dal primo istante della
sua elezione, ha voluto dare rilievo al fatto che gli veniva conferito un
compito d’ordine locale: era stato nominato vescovo di Roma.
Nello stessi tempo, quando
nella sua Esortazione apostolica riferisce il pensiero dei diversi episcopati,
il papa mostra di possedere uno sguardo e un interesse universali. L’affermazione
del suo essere vescovo di Roma e della volontà di decentralizzazione, che colloca
nuovamente al loro giusto posto gli episcopati locali, non contraddice la sua
vocazione universale. Perché vescovo di Roma è pastore della Chiesa universale.
Lo dice innanzitutto, anche se indirettamente, indirizzando la sua lettera a
tutti i vescovi, presbiteri e diaconi, persone consacrate e fedeli laici. Si
rivolge a tutta la Chiesa e a tutte le Chiese, mosso dalla sollecitudine
universale che gli è propria. Inoltre, se cita gli episcopati mondiali, molto
più cita i suoi predecessori, a cominciare da Paolo VI.
Proprio in questa Esortazione
c’è un passaggio nel quale afferma esplicitamente questa sua missione
“globale”, là dove invita a prestare attenzione e a essere vicini alle nuove
forme di povertà e di fragilità. In esse siamo chiamati a «riconoscere Cristo
sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e
immediati». Dopo aver enumerato varie povertà papa Francesco nomina i migranti
che, appunto in quanto tali, non sono più localizzabili in una Chiesa locale,
ma si ritrovano sbattuti da un Paese all’altro. Chi è il loro pastore? A questo
punto ne rivendica l’appartenenza e rivela il suo cuore paterno capace di
andare al di là delle frontiere: «I migranti mi pongono una particolare sfida
perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti»
(n. 210). Mentre scriveva queste righe avrà forse pensato alla sua visita a
Lampedusa, o all’esperienza della propria famiglia naturale? La sua paternità
qui si confonde con la maternità, che come tale abbraccia il mondo intero.
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