“Glocal”. Il neologismo
coniato dal sociologo Zygmunt Bauman mi è venuto alla mente leggendo l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. La glocalizzazione o il glocalismo, barbara traduzione italiana, tendono a comporre globalizzazione
e localizzazione come esigenze correlate della società contemporanea: tutelare
e valorizzare identità, tradizione e realtà locali nel più ampio orizzonte mondiale.
Ho
associato la parola “locale” a papa Francesco quando, dal primo istante della
sua elezione, ha voluto dare rilievo al fatto che gli veniva conferito un
compito d’ordine locale: era stato nominato vescovo di Roma. Tale si è subito dichiarato,
la sera stessa, dalla loggia vaticana, rivolgendosi alla folla radunata in
piazza san Pietro. Nel suo saluto ha volutamente omesso la parola “papa”, che
richiama la funzione universale del ministero petrino. Da allora, come vescovo
di Roma, nelle omelie e nei discorsi, ha continuato a usare esclusivamente la
lingua italiana, nonostante sappia parlare altre lingue, a cominciare da quella
materna, lo spagnolo. Tanti dei suoi
gesti concreti tendono a demitizzare una immagine troppo ieratica del papa.
Nell’Esortazione apostolica invita a non parlare «più del Papa che della Parola
di Dio» (n. 38), affermazione ovvia, ma non molto ricorrente.
Come tiene
a sottolineare che è vescovo di Roma, così papa Francesco mette sempre più in
luce la responsabilità e la corresponsabilità degli altri vescovi locali,
avvertendo, come afferma esplicitamente nell’Evangelii gaudium, «la
necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (n. 16). Si
tratta, a suo giudizio, di «una conversione del papato»: «A me spetta, come
Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del
mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese
dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione» (n. 32).
Nello stesso n. 32 ripete
la necessità di «una conversione pastorale» da parte del papato e delle strutture
centrali della Chiesa universale. Riferisce in proposito il pensiero del Concilio
Vaticano II che le Conferenze episcopali, in modo analogo alle antiche Chiese
patriarcali, «possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il
senso di collegialità si realizzi concretamente”». Ma questo auspicio «non si è
ancora pienamente realizzato, perché non si è esplicitato sufficientemente uno
statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di
attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale.
Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e
la sua dinamica missionaria».
Pochi numeri prima Francesco
aveva affermato: «Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali
nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro
territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare
“decentralizzazione”» (n. 16). Analogamente scrive che «Non è compito del Papa
offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea, ma esorto
tutte le comunità ad avere una “sempre vigile capacità di studiare i segni dei
tempi”» (n. 51).
Un ulteriore segno
rivelatore della sua volontà di collegialità sono le frequenti citazioni e i
riferimenti ai documenti dei vari episcopati che appaiono nella sua Esortazione.
Prima di tutto alla V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei
Caraibi e al Documento di Aparecida
del 31 maggio 2007; egli stesso ne aveva curato la redazione; ma anche al Documento di Puebla (23 marzo 1979).
Riferisce inoltre il pensiero delle Conferenze episcopali e delle loro commissioni
di studio degli Stati Uniti (n. 64, 220), Francia (n. 66, 205), Brasile (n. 191),
Filippine (n. 215), Congo (n. 232), India (n. 250), Argentina (n. 263). Anche
quando cita le esortazioni apostoliche post-sinodali pontificie, ha sempre cura
di ricordare che sono stati i vescovi a suggerire quella o quell’altra
affermazione, così per Ecclesia in
Oceania, in Africa, in Asia, in Medio Oriente, in Europa.
Nessun commento:
Posta un commento