L’ha scritto 25 anni fa,
ma quell’articolo di Mario Luzzi “Vangelo e Poesia”, poi pubblicato su “La porta del cielo”,
sembra scritto per l’oggi.
Riporto soltanto
quello che dice sul rapporto tra silenzio e parola, ineffabile e mistero.
Il silenzio esalta la parola; infatti quello che oggi mortifica la
parola è la mancanza di silenzio. La parola viene da altre parole. La parola è
moltiplicata, è usata in eccesso più per non dire che per dire, più per
dissimulare un pensiero oppure per simulare un pensiero inesistente.
Noi sappiamo che questa è la malattia del nostro tempo: tutti gli
strumenti che noi stessi ci siamo creati ci invitano a rifiutare la dimensione
così profonda del silenzio, che è il rapporto essenziale con la parola, come il
deserto è un termine essenziale di rapporto con la società, la sociabilità; per
cui abbiamo il ritiro nel deserto, l’esperienza del deserto, il raccoglimento
nel silenzio: sono parti essenziali dell’esperienza religiosa, delle origini e
del periodo del primo cristianesimo, del grande cristianesimo iniziale oltre
che esempio tratto dalla vita di Cristo e da Cristo stesso. (…)
Va preservato il diritto divino dell’ineffabile; c’è
qualcosa che non si può dire, che non si può dire con parole e che però fa
parte ancora di quel linguaggio più vasto,
perché il Vangelo appunto non è solo verbale. Questo è splendido, questa
potenza del silenzio che vuole quasi garantirci che c’è un ineffabile, qualcosa
che non può essere pattuito con l’economia delle parole umane, ma che ha il suo
eloquio ugualmente come scansione, come tempo interno delle parole che invece
si possono dire. (…)
C’è qualcosa che non è alla portata della parola degli uomini, non
riducibile alla loro parola. Questo equivale a dire che c’è un mistero; ed è un
mistero che non nasconde, ma anzi si illumina come tale, si comunica come tale.
(…)
Il mistero: è un vocabolo che noi usiamo e di cui abusiamo e
abbiamo troppo abusato, perché in fondo è anche comodo; quello che non è
intelligibile lo chiamo mistero: per cui hanno avuto buon gioco i filosofi
dell’ottimismo positivista o gli scienziati euforici del positivismo quando nel
mistero vedevano l’ignoranza. Vedevano la prova della superstizione, la prova
di tutto ciò che essi imputavano alla religione o alla metafisica, come
negativo. Ma mistero
è una forma, invece, di conoscenza. C’è una conoscenza per mistero, come c’è
una conoscenza per idee e anche per formule, se volete.
Nei Vangeli, mi sembra, la presenza del mistero non solo aleggia,
ma è proprio palpabile, sensibile, e nel linguaggio del Vangelo è inclusa anche
la presenza del mistero come nozione non negativa. Non come un divieto a
conoscere, ma anzi come un’offerta di conoscenza. La parola che emerge dunque
dal silenzio, da quel silenzio, ha una forza straordinaria di intimidazione.
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