Una quindicina d’anni fa mi ero proposto
di vedere come i molti commentatori delle “sette parole di Gesù in croce”
avevano commentato il grido dell’abbandono.
Mi trovai davanti a una produzione
sterminata e desistetti dall’impresa. Non avrei mai immaginato che la storia
della pietà e della predicazione avesse lasciato migliaia di opere sul tema.
Tutti i grandi si sono cimentati con le sette parole, uno dei momenti della
grande meditazione sulla Passione.
Già dal quarto secolo le ore dell’ufficio
divino venivano messe in relazione con i diversi momenti della Passione. Nel
medioevo e più tardi nel 1600 si diffondono gli Orologi per scandire le
scene della Passione. Si conosce inoltre la devozione a Gesù agonizzante
nel Getsemani, quella al Preziosissimo Sangue, alle cinque Piaghe,
al Santo Volto, per non parlare della Via Crucis.
Le parole di Gesù in croce, come settenario, sono sconosciute ai Padri della Chiesa. Esse emergono, pur senza ancora metterle in particolare evidenza, in Candido Bruun, monaco di Fulda, + 845 e Pietro Comestor, chierico di San Vittore, + 1179.
Il primo trattato è di Arnol di Bonneval,
cistercense, + 1156, seguito con scritti e spiegazioni più lunghe da Gerard di
Lüttich, Bonaventura, Guibert di Tournai, Baudouin d’Amsterdam, Gilberti de
Tornaco, Pietro Giovanni Olivi, Geraldus Odonis, Ludolfo di Sassonia,
Bernardino da Siena, Thomas Hemerken da Kempis, Roberto Bellarmino…
La meditazione sul tema finì per diventare
un tema abituale delle prediche della Settimana Santa, una tradizione che
continua con autori di tutto rispetto del secolo scorso, come F. J. Sheen e K.
Rahner, fino agli attuali T. Radcliffe (2006) e G. Ravasi (2019).
La spiegazione segue normalmente la sequenza stabilita da Vittorio da Capua:
1. Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno
(Lc 23, 34).
2. In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso (Lc
23, 43).
3. Donna, ecco tuo figlio! Ecco tua madre! (Gv
19, 26-27).
4. Elì, Elì, lemà sabachtani? Che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato? (Mt 27, 46; Mc 15, 34).
5. Ho sete (Gv 19, 28).
6. È compiuto! (Gv 19, 30).
7. Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito (Lc
23, 46).
La sequenza delle “sette”
parole non rispecchia i Vangeli. A rigor di termini è una composizione
arbitraria. Ogni evangelista segue un proprio racconto, una propria teologia.
Non si possono mettere una dietro l’altra prendendo da un Vangelo all’altro.
Eppure la loro meditazione riempie di luce.
Nel computo delle “sette”
parole di Gesù in croce non viene calcolata l’ottava, l’ultimo suo grido. In effetti non è una parola, ma un
grido inarticolato. Lo riportano sia Marco che Matteo.
Un grido improvviso,
terribile, inatteso, forte: “Gesù, dando un forte grido, spirò” (Mc 15,
37); “Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito” (27, 50).
Marco usa la parola Anabao, gridare.
Matteo krazo, gridare, senza articolare parola, gridare semplicemente
dal dolore, non per farsi sentire da lontano.
Gesù muore in maniera
drammatica. Non una parola, ma un grido, con tutto il fiato che gli rimane,
l’ultimo. Quest’urlo, più di
tutte le altre parole, lascia intuire quello che Gesù può aver vissuto. Ha
fatto suo, ogni angoscia, ogni disperazione, ogni grido.
Poi il gran silenzio,
senza risposta.
Tutte le altre sette parole – scrivevo l’anno scorso sul blog – dicono qualcosa di grande, sono un insegnamento, meritano di essere ascoltate, meditate, commentate, come ha fatto la grande tradizione cristiana.
Questa ottava è quasi
scandalosa, la si sorvola
facilmente, tanto è enigmatica. Ma forse è la più bella, quella che,
senza parole articolate, dice il mistero che si sta compiendo su quella croce,
talmente grande che è indicibile.
Eravamo maledetti e per
portarci la benedizione si è fatto lui maledetto: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della
Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto
chi è appeso al legno» (Gal 3, 13).
Eravamo piagati e ci ha
guariti con le sue piaghe: «Dalle sue piaghe siete stati guariti!» (1 Pt
2, 24).
Eravamo nemici di Dio e
ci ha portati ad essere suoi amici, ma gli è costata la vita: «quand’eravamo
nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo»
(Rm 5, 10).
Eravamo peccatori perché
disobbedienti e per costituirci giusti si è fatto peccato; ha dovuto obbedire
in maniera radicale come noi mai saremmo stati capaci: «Infatti, come per la
disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche
per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5, 19).
Gli siamo costati cari,
come ricorda per due volte Paolo: «siete stati comprati a caro prezzo» (1 Cor 6, 20. 23). Lo ripete Pietro: «Voi sapete che non a prezzo di cose
effimere siete stati riscattati…, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello
senza difetti e senza macchia» (1
Pt 1, 18-19).
Gesù ha portato a
compimento la sua missione non nella forza, ma nella debolezza e nella fragilità; non con una
legione di angeli e un esercito di seguaci, ma nell’estrema solitudine; non
nell’imposizione di un potere, ma nel servizio silenzioso e operoso.
Niente mi sembra più
bello di quel grido, parola non detta: la parola dell’amore più grande, la
parola della nostra salvezza.
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