25 gennaio 1816: iniziava l'avventura di sant'Eugenio con i suoi primi compagni... Lì è iniziata anche la mia...
La chiamata a seguire Gesù è la stessa per tutti,
continuazione di una storia iniziata sul lago di Galilea, quando Gesù, passando
su quelle rive e vedendo Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, rivolse loro l’invito:
“Venite dietro a me…”. È la stessa per tutti e nello stesso tempo diversa per
ognuno.
Perché ho deciso di seguirlo nella famiglia dei
Missionari Oblati di Maria Immacolata? Non è facile rispondere. Ho raccontato
più volte come finii per andare a Firenze a incontrarli e, fin dal primo
momento, fui toccato dallo spirito di famiglia che vi regnava e dalla
semplicità di vita. Da allora gli Oblati sono diventati la mia famiglia. Ho
conosciuto loro prima del loro fondatore.
Il fondatore davanti a me
Fu soltanto durante l’anno di noviziato scoprii il
fondatore, Eugenio de Mazenod, allora non ancora proclamato beato. Leggere la
sua vita e i suoi testi fu un’autentica rivelazione. Come scrissi più tardi al superiore
generale, trovavo con lui una particolare consonanza, mi sentivo espresso da
lui. Con mia sorpresa il Superiore generale pubblicò quella mia lettera in uno scritto
indirizzato a tutta la Congregazione, quale testimonianza di come i giovani “sentivano”
il Fondatore. A mano a mano che leggevo i testi di Eugenio de Mazenod, trascrivevo
e traducevo dal francese i passi che più mi colpivano. Quando la piccola
raccolta cadde sotto gli occhi del superiore provinciale la fece subito
pubblicare. Fu così che, ancora novizio, curai il mio primo scritto sul fondatore.
In quel periodo iniziava la mia frequentazione del
Movimento dei religiosi e i primi incontri con Chiara Lubich, che ci
indirizzava costantemente verso i nostri fondatori. Era proprio il giorno del
mio compleanno quando, nel 1974, rivolgendosi a noi giovani religiosi, ella ci
invitava a «studiare
bene il vostro fondatore agli inizi, nei primi anni della sua vita. Non per
imitarlo pedestremente – perché i santi non vanno imitati in modo pedestre – ma
per fare la volontà di Dio come lui l’ha fatta».
Il fondatore da
giovane! Era il periodo della sua esperienza che più mi affascinava. Scrissi la
mia prima biografia su di lui in occasione della beatificazione e sulla
copertina volli pubblicare la foto del ritratto di quando aveva attorno ai trent’anni:
giovane appunto, volitivo, con un fuoco dentro che traspare dagli occhi; gli
anni nei quali si lanciava in un annuncio travolgente del vangelo in città e in
campagna, capace di trascinare decine di giovani, di radunare gente semplice.
desiderosa di ascoltare finalmente la parola di Dio in un linguaggio a loro
comprensibile, di attirate dietro a sé compagni che ne avrebbero condiviso vita
e ideali… Non apprezzavo invece le foto che lo ritraevano anziano, con la lunga
capigliatura bianca, il volto un po’ stanco e consumato dalla fatica degli
anni.
Il periodo
della prima formazione fu dunque quello nel quale mi avvicinai al fondatore. Egli
mi stava davanti come un maestro che insegna e come un modello che mostra come
seguire Gesù, come vivere il Vangelo, come servire la Chiesa.
Appena
terminata la prima formazione fui chiamato a partecipare ad un grande congresso
organizzato dal governo centrale degli Oblati sul carisma del fondatore. Ero il
più giovane del gruppo. Per tre settimane studiammo a fondo la storia passata e
presente della Congregazione per coglierne gli aspetti fondanti. Mi accorsi di
avere già assimilato tanti elementi del carisma e altri mi si rendevano
particolarmente vivi. Poi tardi fui invitato a dare il mio apporto alla
riscrittura delle Regole con un lavoro di ricerca d’ordine storico.
Mi pareva che
il mio fondatore non stesse più davanti a me, ma che iniziasse a rivivere in
me, al punto che cominciavo ad offrire un contributo alla mia famiglia religiosa.
Soltanto allora potevo dire che la mia prima formazione era terminata.
In quegli anni nacquero i “Quaderni di Vermicino”, una
serie di studi sul fondatore scritti nello studentato di teologia a Vermicino
(Frascati) dove nel frattempo avevo assunto il compito di formatore. Erano un’espressione
dell’interesse nuovo di tutta la comunità per il fondatore. In uno dei primi
numeri, dal titolo Una comunità di fronte
al suo fondatore, scrissi quello che avrebbe dovuto essere un po’ il
nostro programma. Raccontai, in breve, anche la genesi del nostro andare incontro
al fondatore, un’esperienza che avevo condiviso e continuavo a condividere con
i miei compagni di studio.
Il fondatore dietro di me
Intanto la mia
partecipazione alla vita dell’Opera di Maria e in particolare al Movimento dei
religiosi, che ne è una delle diramazioni, andava intensificandosi e con essa i
rapporti di comunione con religiosi dei più diversi carismi. Fin dal primo
incontro, già al termine del noviziato, ero rimasto affascinato
dalla bellezza dell’unità che regnava tra loro, dalla tensione sincera verso la
radicalità evangelica e dalla santità che tutti li legava. Iniziavo a comprendere
meglio anche la bellezza delle altre vocazioni e ne gioii.
Come quei
religiosi incontrati all’inizio della mia formazione, anch’io sono stato
trascinato in questo vortice di unità che mi ha portato a trovarmi regolarmente
con membri di differenti istituti, di tutte le parti del mondo. Chiara Lubich aveva
spiegato il senso di una tale comunione. «Il carisma dell’unità – ci diceva nel
1974 – mette in moto i figli dei fondatori, e fa che si conoscano e si uniscano
tra di loro. Siccome la carità è illuminante, ognuno viene illuminato sulla
propria vocazione, che sente dentro di sé, perché se quel religioso è figlio di
un Santo, ha naturalmente una grazia di figliolanza dentro di sé (…). La carità
ravviva in loro il sangue del fondatore, lo fa circolare e quel religioso
diventa sempre più benedettino, sempre più francescano, ecc.».
Questa
esperienza di comunione si accompagnava con la preparazione della mia tesi di
dottorato che verteva sul “carisma del fondatore”, non propriamente il mio, ma sulla
figura del fondatore in quanto tale. Fu l’occasione per studiare da vicino
altri fondatori e altri carismi. Mi sembravano tutti così belli che avrei
voluto essere di ognuno di loro: Francescano, Gesuita, Vincenziano,
Passionista... Mi interessavo degli altri fondatori come del mio, degli altri istituti
come del mio.
Iniziavo
intanto l’insegnamento della teologia spirituale e della teologia della vita
consacrata all’Istituto Claretianum, all’Università Lateranense, a quella Salesiana…
Davo corsi e conferenze a noviziati, a convegni di religiosi e religiose, i
contributi più vari in diversi ambiti ecclesiali… Mi sentivo aprire sulla
Chiesa e sulle diverse famiglie religiose, come spinto a lavorare sempre più
per il raggiungimento dell’Ut omnes
chiesto da Gesù al Padre: Un omnes…
che “tutti” siano uno. Al punto che ad un certo momento ho avuto l’impressione che
il mio fondatore si facesse sempre più lontano, di aver perduto la mia stessa
famiglia religiosa.
Scrivevo in
quei giorni: «Possibile che il mio fondatore si sia eclissato così
improvvisamente, senza preavviso e senza ragione? Perché è scomparso dal mio
orizzonte? L’ho amato, lo amo ancora, ma non lo vedo più davanti a me, non lo
sento più. Sono orfano, non ho più padre. Quando lo incontrai ne rimasi
affascinato. La sua vita e i
suoi scritti furono un’autentica rivelazione. Avvertivo una sintonia profonda
con i suoi ideali… Ho ripercorso i
luoghi della sua esistenza alla ricerca delle sue tracce: Aix-en-Provence,
Sain-Laurent du Verdon, Marsiglia... Volevo conoscerlo più da vicino, nel suo
stesso ambiente. L’eleganza della città natale, il fuoco della Provenza, i
colori di Cezanne, il maestrale improvviso e violento mi hanno parlato di lui.
L’ho sentito vicino questo santo senza miracoli, senza vistosi fenomeni
mistici, passionale, impulsivo, sognatore, di grandi ideali... Ed ora dov’è?
dove s’è nascosto?
«E la mia
famiglia? Non sono, gli Oblati, la famiglia più unita che esista sulla terra?
Dove sono i miei fratelli? Anche loro mi sono assenti. L’ho amata alla follia,
la mia famiglia. Perché ora mi sento senza famiglia?».
Finalmente ho compreso: «Ti avevo
davanti e più mi avvicinavo a te, più mi diventavi familiare. Ma non sei tu la
meta. Davanti a te non avevi un fondatore da seguire: avevi Gesù! Lo stesso vuoi
da me. Non ti vedo più
perché non ti ho più davanti: forse ti ho dentro di me. Non ti vedo più
perché mi fai guardare quello che guardavi tu, mi fai seguire Colui che seguivi
tu: ho davanti a me Lui!».
Ogni fondatore
porta a Cristo. Il fondatore non chiama a sé, orienta a Cristo. Indica il
cammino di sequela di Cristo. Il «ritorno al fondatore» implica un ritorno
ancora più radicale: giungere là dove egli è giunto: direttamente a Cristo e al
Vangelo.
Se il cammino
formativo inizia col guardare al fondatore e seguirlo, esso deve condurre al
punto nel quale egli passa dietro e spinge in avanti, a
creare nell’oggi quello che egli aveva operato nel passato. Non si vive più per
se stessi ma per la Chiesa. È soltanto a questo punto che si può veramente
compiere l’opera di Dio, come l’ha compiuta il fondatore. Si è il fronte
avanzato del carisma, in prima linea.
Il Fondatore accanto a me
Gli ultimi vent’anni della mia vita li ho vissuti in
quella particolarissima comunità che è il Centro internazionale del Movimento
dei religiosi, un piccolo gruppo di uomini proveniente da ordini e istituti
religiosi diversi e di differenti nazionalità, a servizio di centinaia di
religiosi che, in tutto il mondo, hanno accolto la spiritualità dell’unità propria dell’Opera
di Maria e da essa si lasciano ispirare nell’attuazione del
proprio carisma. Un servizio che, con il mandato dei miei superiori, mi ha
portato a viaggiare per i più diversi Paesi del mondo e ad incontrare religiosi
dei più diversi carismi. La mia famiglia si era allargata ad abbracciare ogni
altra famiglia religiosa.
La lontananza fisica dalla comunità oblata e la
convivenza quotidiana con religiosi di altri istituti avrebbe potuto far
pensare che avrei perduto la mia “identità” carismatica. In effetti, pur
continuando a lavorare anche per il mio istituto, il mio impegno maggiore,
anche come tempo, era per il Movimento dei focolari e per le altre famiglie religiose.
Personalmente ero invece convinto che quanto più fossi entrato
nella dinamica della comunione, dimenticando me (anche ciò che è più proprio di
me, il carisma e il mio fondatore) per vivere l’altro e amarlo nelle realtà più
profonda di sé (il suo carisma e il suo fondatore), tanto più avrei attuato la
“comunione dei santi” e in essa avrei trovato la mia autentica realtà. Credevo
a quanto aveva scritto Chiara Lubich: «Quando Gesù aveva detto: “Dove sono due o tre riuniti nel mio
nome, io sono in mezzo a loro”, non aveva
escluso certo di sottintendere anche: “Dove un francescano e un benedettino, o
un carmelitano e un passionista, o un gesuita e un domenicano… sono uniti nel mio nome, lì sono io...”. E se era
veramente Gesù fra loro, il risultato sarebbe stato che l’incontro con Lui
avrebbe fatto il francescano miglior francescano, e il domenicano miglior
domenicano».
Dieci anni fa sono stato chiamato dal superiore generale al
centro della Congregazione per dare vita a un nuovo ufficio per lo studio e la
ricerca sulla vita e la missione degli Oblati. Mi è stato affidato il tesoro
più prezioso della Congregazione, la custodia dell’eredità carismatica, con il
compito di introdurre soprattutto la nuova generazione nella conoscenza del
fondatore, della storia dell’istituto e nella riflessione sul vissuto di oggi e
sulla risposta da dare alle nuove sfide.
Eccomi di nuovo, come al tempo del mio noviziato, a
riprendere in mano le fonti, a riscoprire, far riscoprire e diffondere il
patrimonio di vita custodito negli archivi, che non sono tombe ma luoghi
sorgivi di ispirazione. Ho dato vita ad una rivista di studio, “Oblatio”, nelle
tre lingue principali dell’Istituto, francese, inglese, spagnolo. Ho iniziato a
contattare le università e gli istituti superiori di cultura della
Congregazione. Sto offrendo ritiri sul carisma ormai in tutti i continenti… Soprattutto
sto trovando un rapporto nuovo con sant’Eugenio de Mazenod.
In questa nuova fase della mia vita, anche grazie al
nuovo compito e all’età che avanza, sta nascendo con lui un rapporto diverso, forse
più affettivo. Adesso mi piace la foto che lo ritrae vecchio, ormai
settantottenne, segnato dalle prove, da cui traspare un certo affanno e una
stanchezza sofferta. Mi pare di capirlo meglio. Continua a essere un maestro da
ascoltare, un santo da imitare, un padre da amare, ma soprattutto sta
diventando un intercessore da pregare. Non è più davanti a me che mi indica la
via, non più dietro di me a spingermi in avanti: è accanto a me, un fratello,
un amico con il quale condividere preoccupazioni, progetti, sogni…