domenica 31 marzo 2019

Vengono a stare a casa loro

La Trinità intera si invita a casa nostra. E vengono a casa loro! 
Ancora una delle molte promesse per il sito di Città Nuova.



Sentirsi a casa, una delle sensazioni più piacevoli e rassicuranti. È bello viaggiare, conoscere altri luoghi, la compagnia degli amici. Spesso ci si trova a proprio agio anche nell’ambiente di lavoro, con gli amici. Ma quando si torna a casa è tutta un’altra cosa. “Casa mia, casa mia / per piccina che tu sia / tu mi sembri una badia”, scriveva Elda Bossi in una famosa filastrocca per bambini. Non c’è soggezione a casa, si è rilassati, ci si sente protetti. La casa, naturalmente, non sono soltanto le sue mura, è fatta soprattutto dalle persone che la abitano, dagli affetti che racchiude.
Gesù lo sa, lui che ha provato l’intimità della famiglia di Nazaret, come pure la desolazione di non avere dove posare il capo. Per questo vuol farci casa e, paradossalmente, si invita a casa nostra, come quella volta che si rivolse a Zaccheo sorpreso appollaiato sul sicomoro: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19, 5). Sì, perché se Gesù viene a casa è come quando si accoglie un amico che porta aria di festa; o meglio ancora, come quando lo sposo entra nella casa della sposa e quelle mura diventano davvero una casa, una famiglia. «Oggi per questa casa è venuta la salvezza», ripete Gesù una volta dentro, come da Zaccheo a Gerico (Lc 19, 9). S’è lui siamo davvero a casa.
La sua venuta è oggetto di una promessa: «Se uno mi ama, osserverà la mia parole e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Il momento è solenne e drammatico. Siamo nell’ultima cena e Gesù ha appena annunciato ai suoi amici che li lascerà per tornerà al Padre. Ha già promesso che non rimarranno soli, perché manderà loro “un altro Consolatore”. Promessa straordinaria, come abbiamo visto, ma a Gesù non basta, vuole tornare anche lui e vuole portare con sé il Padre. Non soltanto avremo lui di nuovo, ma la Trinità intera! Vengono insieme… Allora sì che la casa diventa famiglia.
Non vengono di passaggio, per qualche giorno, per una visita saltuaria, prenderanno dimora stabile, intenzionati a rimanere con noi per sempre. “Dimorare” (in greco ménō) è un verbo che piace particolarmente a Giovanni, lo usa ben 67 volte. Vi traspare in filigrana il ricordo di quando Dio dimorava con il suo popolo in quella che si chiamava proprio “la dimora”, costituita prima dalla tenta del convegno, al tempo del cammino nel deserto, poi dal tempio, dalla città di Gerusalemme. Adesso che il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi (cf. Gv 1, 14), inizia una nuova presenza di Dio tra noi. Non più un luogo circoscritto, ma il cuore di ogni credenti, l’assemblea dei fedeli, la Chiesa.
Le promesse al riguardo si moltiplicano, sempre sullo stesso tono: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (6, 56), «Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (14, 21), «Rimanete in me e io in voi» (15, 4). Il rimanere diventa reciproco: noi casa dove viene Dio ad abitare, lui casa dove noi possiamo dimorare, per sempre. Basta sedersi alla mensa dell’Eucaristia e a quella della Parola, accogliere e vivere il comandamento dell’amore.
Quanti hanno aderito a questo invito di Gesù assicurano che la sua promessa si realizza, fin da ora. Le testimonianze sono concordi. «Io ho trovato sulla terra il mio cielo; perché il cielo è Dio – scriveva Elisabetta della Trinità un secolo fa –, e Dio è nell’anima mia. Il giorno in cui l’ho compreso, tutto per me si è illuminato; vorrei svelare questo segreto a tutti quelli che amo, perché anch’essi aderiscano sempre a Dio e si realizzi così la preghiera di Cristo: Padre, che siano perfetti nell’unità». Più vicina a noi Chiara Lubich: «La Trinità dentro di me! / L’abisso dentro di me! / L’immenso dentro di me! La voragine d’amore dentro di me! / Il Padre che Gesù ci ha annunciato / dentro di me! / Il Verbo! / Lo Spirito Santo, che voglio sempre / avere per servire l’Opera, / dentro di me! // Non domando di meglio. / Voglio vivere in questo abisso, /perdermi in questo sole, / convivere con la Vita Eterna».
La promessa è per ciascuno di noi, basta “arrendersi” alla sua parola, lasciarsi trascinare dal suo amore, “aprirgli la porta”, ed egli subito entra e fa casa con noi: «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). Più casa di così!

sabato 30 marzo 2019

Dalla parte del fratello maggiore


“Un uomo aveva due figli…”. Uno degli incipit più affascinanti.
Quante volte sarà stata narrata questa parabola di Gesù?
A proposito, come si chiama? “La parabola del figlio prodigo”. Hai voglia a dire che è la parabola del padre misericordioso… Resta sempre la parabola del figlio prodigo, perché quella del figlio minore è la figura di spicco.
Vuoi mettere una vita avventurosa come quella di questo giovane, a confronto con quella monotona del figlio maggiore?
Il minore, scapestrato quanto basta, ribelle, avido di libertà, ne ha da raccontare!
Il maggiore, ligio al suo dovere, è una figura un po’ grigia. Basti pensare al famoso quadro di Rembrand, che mette in primo piano il minore, mentre il maggiore rimane dietro, nell’ombra, appena accennato.

Provo a mettermi dalla parte sbagliata, da quella del maggiore, un mulo che porta avanti la fatica d’ogni giorno, senza troppa fantasia, ligio al dovere. Lasciamolo sbottare un po’, che possa anche lui ribellarsi per una volta, tanto poi torna nei ranghi.
Fa la figura di chi recrimina, risentito per non essere preso in considerazione. Tutte le attenzioni per il più piccolo, viziato.
Sì, la simpatia di tutti è per il minore.

È sempre così. Viene premiato chi è creativo, chi osa, il diverso. In fondo è la persona più amata. Questo in famiglia, ma anche nella società, nello stesso mondo ecclesiale.
Chi fa il proprio lavoro in silenzio non attira le considerazioni di nessuno. È normale che faccia così…
Povero fratello maggiore. Eppure è proprio lui che porta il peso della casa. Se non ci fosse lui non ci sarebbe neppure il vitello grasso da ammazzare.
Ed è proprio lui a ricevere da Gesù un elogio straordinario: “Tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua”.
D’improvviso si accorge che dietro quella monotonia c’è in fondo una straordinaria esperienza di convivenza semplice e profonda, di intimità, di cui non si era mai reso conto. È a casa, tutto gli appartiene, senza per questo dovere scialacquare. L’altro si dà all’avventura, beato lui. Egli invece preferisce stare a casa, godere del lavoro sodo, nascosto e portare avanti l’azienda di famiglia – la comunità, la vita della Chiesa – senza ambire a riconoscimenti, medaglie, festeggiamenti particolari.
Sperimenta così la dolcezza della vita quotidiana, della fedeltà, della regolarità, dell’amore silenzioso, che costruisce. Le cose che restano hanno bisogno di essere curate con perseveranza e continuità.
Che bellezza se i due fratelli fossero solidali e riconoscessero la ricchezza della diversità dei loro caratteri e delle loro scelte!


venerdì 29 marzo 2019

Un esserino


In via Aurelia, su una settantina di persone, siamo soltanto 3 italiani.
Le messe sono in tutte le lingue, e anche quando sono in italiano… spesso sembrano in altre lingue.
Oggi ha presieduto, in italiano, Julius del Lesotho.
Iniziando ha utilizzato una parola che non sentivo da tanto tempo.
Si riferiva a come si sente una persona debole e piccola quando si prende coscienza di essere nelle braccia di Dio: un “esserino”...
Mi ha fatto impressione questa parola - esserino - anche perché pronunciata da un uomo tozzo, ben piantato, con una bellissima voce di basso.
Un esserino! parola dolcissima, che fa pensare alla delicatezza dell'amore materno.
Chissà dove è andata a pescarla quella parola.
Era più bella sentita pronunciare da lui.
Non avrei mai pensato che Dio mi potesse considerare come un esserino di cui prendersi cura…


giovedì 28 marzo 2019

Il rosario per le vie di Roma



Percorrendo via dei Banchi Nuovi in direzione del Centro l’apparizione della torre dell’orologio illuminata dal sole del tramonto è uno degli spettacoli più bella, tra i mille bellissimi dei vicoli della Roma antica. Lo vedi da lontano e ti si allarga il cuore. L’ha costruita il Borromini… e si vede! Il mosaico della Madonna della Vallicella brilla pieno di luce.

All’angolo di via del Governo Vecchio, sempre sul palazzo, una statua della Madonna col bambino, una delle tante immagini che costellano la città. Una volta a sera il vicinato portava le sedie e tutto attorno si diceva il rosario. Chissà se oggi qualcuno le volge almeno uno sguardo? Quando passo mi piace darle un saluto. Un’Ave Maria ogni “madonnella” che si incontra per le vie di Roma ed il rosario è detto…


mercoledì 27 marzo 2019

La spiritualità dei cristiani comuni / 4 - L’impegno in ambito sociale



È ora di terminare la mia lezione introduttiva ai novizi e novizie dei Castelli Romani. Ho iniziato con la spiritualità dei laici, perché la vita religiosa è un mododi vivere la commune spiritualità di tutti I cristiani.

La novità evangelica non si limita a portare i suoi frutti nell’ambito familiare. I cristiani, gradatamente, fanno sentire la loro influenza anche nel campo sociale.
Esternamente la vita dei cristiani non pare diversa da quella dei pagani. «Noi viviamo insieme a voi - scrive Tertulliano rivolgendosi ai pagani - frequentando con voi il foro, il mercato, i bagni, i negozi, gli empori, gli alberghi…; navighiamo con voi; compiamo il servizio militare, lavoriamo la terra; ci dedichiamo al commercio; scambiamo i prodotti della nostra arte e i nostri manufatti vendiamo al modo vostro». Tuttavia la nuova fede ha modificato qualcosa in quel tipo di attività. O meglio, ha modificato qualcosa nel cuore dei fedeli, per cui essi, anche quando operano nel campo sociale, sono consapevoli di essere sempre figli di Dio e quindi vedono tutto in rapporti a Dio. «Se tu sei un lavoratore - scrive Clemente Alessandrino -, ti raccomandiamo di lavorare, ma riconosci il Dio del lavoro; se ti piace di navigare, fai il marinaio, ma invoca il nocchiero del cielo; se hai conosciuto Dio mentre militavi nell’esercito, ascolta il generale che ti guida nella giustizia».
I cristiani creano una società nuova, non ancora nelle strutture - almeno in questi primi secoli -, ma certo nei rapporti umani. Così, ad esempio, minano l’istituzione della schiavitù non tanto abolendola, quanto cambiando i rapporti tra padroni e schiavi.

Dove più evidente appare il frutto della novità evangelica, è l’atteggiamento verso gli ultimi della società. L’amore evangelico spinge i cristiani a porsi a servizio dei poveri, delle vedove e gli orfani, dei bambini abbandonati, dei prigionieri, degli stranieri, degli anziani.
Così nelle chiese locali, fin dai primi secoli, nasce una cassa comune in favore dei bisognosi. «Essa - scrive Tertulliano - non è costituita da una somma obbligatoria… Ma ciascuno, una volta al mese e quando vuole, versa una modesta cifra e solo se lo vuole e solo se lo può. Nessuno è obbligato, ma vi contribuisce spontaneamente. Si tratta come di depositi di pietà. Infatti [le somme] non vengono spese in banchetti, né in bevute, né in sgradite gozzoviglie, ma per i poveri che devono essere sfamati o [per quelli] che devono essere seppelliti, per i fanciulli o le fanciulle a cui sono venuti meno i sostentamenti o i genitori, per i domestici anziani e anche per i naufraghi». Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Basilio arriveranno ad esporre una rivoluzionaria dottrina sociale che pone poveri e ricchi in rapporto di servizio e d’amore reciproci. Basilio realizza un’opera sociale di grande impegno, una cittadella chiamata Basiliade nella quale operavano un gran numero di servizi a favore dei viandanti, dei malati, dei poveri.
Non si tratta di semplice filantropia, ma del risultato di una nuova visione di fede: Gesù si è identificato con ogni persona, soprattutto con gli ultimi.

martedì 26 marzo 2019

La spiritualità dei cristiani comuni / 3 La vita cristiana in famiglia


 

Torniamo alle lezioni dei novizi e novizie…

Quanto il cristiano impara nell’assemblea comunitaria, nella vita liturgica e nella preghiera personale è invitato a viverlo nella vita familiare e sociale. La famiglia, fin dagli inizi, costituisce un autentico ambiente ecclesiale, la seconda comunità, la chiesa domestica, dove mettere in pratica la vita battesimale.
La novità evangelica appare evidente innanzitutto nella vita coniugale, dove mostra il primo grande distanziamento dalla comune mentalità pagana. In una società che ammette il divorzio e tollera le relazioni extraconiugali, il matrimonio cristiano esige l’indissolubilità e la fedeltà. Inoltre, come scriveva Aristide nella sua Apologia, «i cristiani si astengono da ogni unione illegittima e da ogni azione impura». La santità coniugale perseguita nei primi secoli non si limita comunque alla fedeltà reciproca. I Padri della Chiesa e i pastori indicano delle mete molto più esigenti ai coniugi. Dagli sposi si richiede una autentica comunione spirituale, quale compimento e realizzazione del reciproco amore. Il loro stato di vita viene dichiarato santo e la loro unione garantita dalla presenza di Gesù in mezzo a loro: «Chi sono i due o i tre riuniti in nome di Cristo, in mezzo ai quali sta il Signore? - si domanda Terulliano - Non sono forse l’uomo, la donna e il figlio dal momento che l’uomo e la donna sono uniti da Dio?». Il matrimonio cristiano raggiunge una dignità incomparabile: «Là dove vi è una sola carne, vi è un unico spirito».
Sempre Tertulliano, nella lettera alla moglie, descrive il rapporto tra i coniugi cristiani: «Essi sono fratelli l’uno per l’altro e si servono reciprocamente; nessuna distinzione fra carne e spirito. Anzi sono veramente due in una carne sola e dove la carne è una è uno anche lo spirito. Insieme pregano, insieme s’inginocchiano ed insieme digiunano; l’uno insegna all’altro, l’uno esorta l’altro, l’uno sostiene l’altro. Sono uguali nella chiesa di Dio, uguali al banchetto di Dio, uguali nelle angustie, nelle persecuzioni e nelle consolazioni. Nessuno ha segreti per l’altro, nessuno evita l’altro, nessuno è per l’altro di peso. Con libertà visitano i bisognosi e sostengono i poveri. Le elemosine sono senza tormento e i sacrifici senza scrupoli, la diligenza quotidiana non ha impedimento. Il segno di croce non si fa di nascosto; la lode non è timorosa, la benedizione non è silenziosa; i salmi e gli inni cantano a due cori e fanno a gara per cantare meglio al loro Dio, Cristo vede questo e nell’ascoltare gioisce, A loro manda la sua pace».
Anche se i ruoli familiari rimangono condizionati dalla cultura del tempo, il cristianesimo affermava la pari dignità e l’uguaglianza tra i due sposi. «Per l’uomo e per la donna - afferma Clemente Alessandrino - la virtù è la stessa. Se per entrambi, infatti, uno solo è Dio e uno solo anche il Pedagogo, per entrambi una sola è la chiesa, una sola la saggezza, una sola la verecondia; il cibo è comune e coniugali le nozze; il respiro, la vista, l’udito, la scienza, la speranza, l’obbedienza, la carità, tutto è simile: E quelli che hanno comune la vita e comune la grazia e comune anche la salvezza, hanno senz’altro comune anche la virtù».
Allo schema tradizionale della famiglia in cui l’uomo è capo indiscusso, anzi più che capo padrone, si sostituisce lo schema, che rimarrà classico nella spiritualità cristiana, della chiesa domestica; in essa deve regnare innanzitutto la carità, che produce il massimo dei beni quotidiani, la concordia e con essa il mutuo servizio del formarsi e camminare verso Dio. Basterà ricordare alcuni insegnamenti di Giovanni Crisostomo: «diventi una chiesa la casa (…). Vi riposi la grazia dello Spirito Santo e ogni pace e concordia difenda gli abitanti». «Gli sposi facciano qualsiasi cosa come se avessero una sola anima e fossero un solo corpo. Questo è il vero matrimonio, quando così grande è la concordia tra di loro, quando così sono concatenati tra di loro dal vincolo della carità».
Anche nel concepire, generare e allevare la prole i cristiani si distinguono dai pagani. I genitori cristiani hanno cura dei propri figli: «Non abbandoneranno mai la loro mano dal figlio o dalla figlia, ma fin dall’infanzia insegneranno loro il timore di Dio».
Assistiamo al passaggio dal concetto di patria potestas a quello di paterna pietas: non è più lecito l’aborto, l’esposizione dei neonati, la vendita dei bambini. «Ogni padre di famiglia - scrive Agostino - si senta impegnato, a questo titolo, ad amare i suoi con affetto veramente paterno. Per amore di Cristo e della vita eterna, educhi tutti quei di casa sua, li consigli, li esorti, li corregga, con benevolenza e con autorità». E Giovanni Crisostomo: «Io non cesso di esortarvi di pregare, di supplicarvi che prima di ogni altra cosa voi curiate per tempo l’educazione dei vostri figli. (…) Alleva un atleta per Cristo. (…) Ciascuno di noi, padri e madri, come i piccoli che noi vediamo lavorare ai loro quadri, alle loro opere con grande attenzione, presti tutte le sue cure a queste ammirabili opere d’arte».


lunedì 25 marzo 2019

Tre sì possibili




Nel parco degli Oblati
25 marzo, l’Annunciazione!

In questo giorno si intrecciano tre sì:

- il sì di Maria: “Si compia in me quello che tu vuoi”,
- il sì di Gesù: “Un corpo mi hai dato. Io vengo, Padre, per fare la tua volontà”,
- il nostro sì alla volontà di Dio: Anche in me si compia quello che tu hai pensato su di me.

È possibile? “Niente è impossibile a Dio!”.


domenica 24 marzo 2019

Eredi di grandi bellezze



Le giornate del FAI mi hanno aperto le porte del Palazzo della Rovere, in via della Conciliazione. Uno di quei bei palazzi di Roma di cui puoi solo intuire gli interni, ma perlopiù inaccessibili.
Due ore di fila hanno valso la pena per entrare in questa edificio elegante che ospita l'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro.
Alcuni cavalieri si muovevano lentamente nelle vaste sale; difficile sapere se fossero personaggi veri o comparse; in ogni caso l'Ordine svolge un servizio notevole, nel campo sanitario ed educativo nella Terra Santa, fedeli alle origini medievali.


L'architettura e le decorazioni del Pinturicchio del 1400 rendono prezioso un edificio ricco di storia, che ha visto ospiti illustri e che incanta per la sua bellezza.
Che grande eredità ci hanno lasciato gli antichi... speriamo di fare altrettanto con i nostri posteri.



sabato 23 marzo 2019

Conversione, presto e bene


“Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13, 1-9). La cosa è seria, Gesù lo afferma una prima volta e lo ribadisce una seconda volta.
I fatti di cronaca, quelli di allora come quelli di ora, ci parlano spesso di tragedie. Allora Pilato aveva fatto uccidere ebrei che erano nel tempio, ora un pazzo o un terrorista (è la stessa cosa) piomba su un mercato e fa strage di persone; allora crolla una torre e i passanti rimangono uccisi, oggi crolla un ponte…
Davanti a questi fatti di cronaca ognuno fa i suoi commenti. Quello di Gesù è semplice: quelle persone non pensavano che sarebbero morti così all’improvviso, ma può capitare anche a noi. Erano pronti? E noi, continua Gesù, siamo pronti?
No, non siamo mai pronti, arriva tutto così all’improvviso…
Per questo, continua Gesù, non c’è tempo da perdere, occorre convertirsi e farlo subito, prima che sia troppo tardi.

Convertirsi, un’altra delle parole chiave della Quaresima.
Cosa vuol dire convertirsi? Cambiare qualcosetta? Essere un po’ più buoni?
No, occorre proprio un ripensamento globale, un cambiamento radicale. Chissà perché questa parola mi fa sempre pensare alla “conversione a U”, quella dei cartelli stradali che indicano il divieto di tornare indietro perché la strada è a senso unico. Secondo il Vangelo occorre proprio una deviazione coraggiosa e imbroccare un’altra strada.
“La Quaresima – così papa Francesco nell’omelia del mercoledì delle ceneri – è il tempo per ritrovare la rotta della vita… Ognuno di noi può chiedersi: nel cammino della vita, cerco la rotta?... Qual è la rotta? … Ritornate a me, dice il Signore. A me. È il Signore la meta del nostro viaggio nel mondo. La rotta va impostata su di Lui”.
Forse la conversione più vera è entrare nella mentalità del Vangelo, così diversa dalla nostra mentalità.
Penso soprattutto a quello che Gesù ci chiede in questo tempo: “Chi vuol venire dietro a me, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”. Questa sì che è una conversione, un cambiamento di direzione per “ritornare a lui”, per andare nella stessa direzione nella quale sta andando lui.

Prendere la croce. Anche qui, cosa vuol dire?
Mi torna alla mente il vangelo di domenica scorsa, la Trasfigurazione. Allora pensavo ai due volti di Gesù, quello luminoso sul monte della trasfigurazione e quello sfigurato sul monte degli olivi e sul monte del Calvario, e mi chiedevo: saremo capaci di sovrapporre i due volti e riconoscere in quello sfigurato lo stesso volto luminoso? È l’unico Gesù, anche se si presenta in maniera tanto diversa.
Oggi mi chiedo ancora una volta: so riconoscere il volto luminoso di Gesù nel volto sfigurato delle persone e delle situazioni che incontro? Quante persone “brutte”, tali perché mi fanno soffrire. Riconosco in loro Gesù? Quante situazioni difficili mi si presentano ogni giorno, inattese, che non avrei mai voluto affrontare. Riconosco in essere la croce che Gesù mi mette sulle spalle, anzi, lui stesso che con me porta quella croce?

Dovremmo fare alla svelta a operare questa conversione, non possiamo aspettare, i tempi incalzano.
“Sono tre anni che aspetto, basta, tagliamo questo albero inutile, che non porta frutti di conversione”, dice il padrone.
“Aspetta ancora un anno, vediamo se questo fico si converte”, risponde il contadino, che si impegna a zappargli attorno, a concimarlo.
Dio ha sempre pazienza, ma noi dobbiamo affrettarci, un incidente può sempre capitare, una torre può sempre crollarci addosso. Gesù non ci mette paura, ma fretta sì! Perché ritardare a seguirlo?

venerdì 22 marzo 2019

Anna Maria Canopi: il canto del silenzio



«Il cosmo ha una voce, una musica, un canto, è pieno di vibrazioni e tutto pervaso dalla presenza di Dio. Come ascoltare questa voce che risuona nel silenzio cosmico?... La sentiamo quando stormiscono le fronde, quando sibila il vento o scroscia la pioggia, la sentiamo nel fremito della natura che si risveglia in primavera e nel gemito degli alberi che si spogliano in autunno. Per metterci in sintonia con questa presenza di Dio attorno a noi, dentro di noi e nella Parola abbiamo bisogno di recuperare un bene sempre più prezioso e raro, nella nostra società del rumore e dell’eccesso d’immagini: il silenzio».

Questa è Madre Anna Maria Canopi, che ho avuto la gioia di incontrare pochi mesi fa.
https://fabiociardi.blogspot.com/2018/09/visita-allisola-san-giulio-e-madre.html
Ieri è partita per il Cielo, proprio nella festa di san Benedetto

Rina, così si chiamava, nata nel 1931, nel 1973 fondò il monastero Mater Ecclesiae nell’isola di San Giulio, sul lago d’Orta, dove sono stato a trovarla.
Mi raccontò della sua vocazione, di quando, studente, nei suoi spostamenti per andare all’università pregava i salmi, quella la parola di Dio che l’ha forgiata.
Penso sperimentasse fin da allora quello che ha scritto nel suo ultimo libro:
«Con l’uomo Dio ha instaurato un dialogo d’amore. Dio gli parla e l’uomo gli risponde con le pa­role che lo stesso Spirito del Signore gli suggerisce. È la “preghiera” in senso più proprio. Essa nasce nel cuore e può essere anche senza parole: un semplice sentirsi sotto lo sguardo del Signore con riverenza, ammirazione, gratitudine e adorazione. Si può dire che lo stesso respiro vitale dell’uomo è preghiera».

giovedì 21 marzo 2019

Avrete un altro me

Lo Spirito Santo è la nostra libertà, è un soffio d’aria leggera, che ci suggerisce al momento opportuno come muoversi e come amare.
Una nuova "promessa" apparsa sul sito web di Città Nuova  

Questa volta Gesù non promette gioia, beni futuri, centuplo, esaudimento della preghiera… Promette nientemeno che Dio, nella persona dello Spirito Santo. Sta ormai per andarsene, Gesù, sta per tornare al Padre. Lo dice chiaramente ai suoi discepoli seduti attorno a lui per quella che sarà l’ultima cena con loro.

“Dove vai? –  si affretta a chiedere Pietro – Voglio venire con te”. “Per adesso – risponde Gesù – dove vado io tu non puoi venire”. “Perché non posso seguirti subito?”, insiste Pietro (cf. Gv 13, 36-37).
Gli vuole bene, Pietro, e come sempre ha l’ardire di dirglielo, facendosi voce di tutti gli altri. No, Gesù partirà da solo. Loro resteranno per continuare la sua missione. Senza il Maestro? Come fare? Impossibile.
Ecco allora la grande promessa: “Non vi lascerò orfani. Vi mando un altro me stesso”: «io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito, perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14, 16). Gesù non ci sarà più, egli il “Dio vicino”, l’Emmanuele, il “Dio con noi”, colui che li difende dal male, che li guida…
In una parola, per i discepoli egli è un Paràclito, “colui che è chiamato in aiuto” (ad-vocatus), che prende la loro difesa, che consola. Non avranno più chi sta loro vicino, che li conosce, li capisce, si mette dalla loro parte? No, Gesù pregherà perché il Padre mandi un altro consolatore, un altro Paràclito, un altro Lui: lo Spirito Santo, una cosa sola con lui, come egli è una cosa sola con il Padre.
In quell’ultima cena Gesù lo promette a più riprese, per ben cinque volte. La prima volta annuncia il suo invio (Gv 14, 15-17), le altre quattro volte spiega la sua azione (14, 25-26; 15, 26-27; 16, 7-11; 16, 12-15). Parla ai discepoli per parlare a noi.
Lo Spirito Santo ci insegnerà ogni cosa e ci ricorderà tutto ciò che Gesù ci ha detto. Il suo nome è infatti “Spirito di Verità”, e opera in unità perfetta con il Maestro, che si è definito “la Verità”.
Spesse volte non sappiamo dare una risposta alle tante domande che ci assillano. Perché soffriamo? Perché la natura, seppur così maestosa, sembra pervasa da un’ombra di decadimento? Perché talvolta è tanto difficile farci comprendere da chi ci vive accanto? Perché Dio non si fa sempre sentire vicino a noi?
Sappiamo che nel Vangelo possiamo trovare le risposte vere, perché lì parla la Verità. Ma sappiamo davvero penetrare nel Vangelo? Chi rende quelle parole vive, palpitanti, significative per la nostra vita? “Tante cose non potete capirle”, ha detto chiaramente Gesù. Per questo ci manda lo “Spirito di Verità” che ci porta alla verità tutta intera. Riversando l’amore nei nostri cuori – perché lo Spirito è l’Amore – ci fa capire, ci fa vedere, perché solo l’amore è capace di comprendere in profondità.
Più ancora, ci porta proprio dentro il Vangelo, immedesimandoci con Gesù: ci insegna a proclamare che “Gesù è Signore” (cf. 1 Cor 12, 3) e in lui ci fa figli di Dio, e ci fa gridare “Abbà, Padre” (cf. Rom 8, 15).
Un altro compito che Gesù affida allo Spirito è quello di dargli testimonianza e insieme, da buon avvocato, di giudicare il mondo che non accoglie la testimonianza.
In questo modo svela il mistero della vita di Gesù e il senso della grande storia umana. Nello stesso tempo dà un “senso”, un perché, una direzione anche alla nostra piccola storia. Poiché vede le cose dall’alto, da Dio, sa di cosa abbiamo bisogno e quali sono i passi che siamo chiamati a compiere qui e adesso.
Sempre grazie al dono del suo amore, le nostre scelte possono essere motivate dall’amore, proprio come quando uno è innamorato. “Cosa piacerà a lui? Cosa piacerà a lei?”, si domandano sempre gli innamorati. Cercano di indovinare cosa può fare più contento l’altro. «A me piacerebbe andare al cinema, ma se alla persona di cui sono innamorato piace fare una passeggiata non me lo sogno neppure di andare al cinema: mi viene subito voglia di fare una passeggiata per stare con lei, per farla contenta. Ho rinunciato alla mia libertà? Tutt’altro! Proprio perché mi sento libero non faccio quello che mi piacerebbe, ma quello che piace all’altra persona; ed è questo che mi rende felice».
Lo Spirito Santo è la nostra libertà, è un soffio d’aria leggera, che ci suggerisce al momento opportuno come muoversi e come amare. San Tommaso d’Aquino, il grande teologo, parla di lui addirittura come di un “istinto” che è in noi: «Il cristiano, nell’agire, non deve essere mosso principalmente dalla sua volontà, ma dall’istinto dello Spirito».
Ce la faremo? Sì, perché lo Spirito Santo è la forza di Dio e ci rende capaci di attuare ciò che l’amore suggerisce: «Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» (2 Tim 1, 7). È la «potenza dell’Altissimo» scesa su Maria (Lc 1, 35), su Gesù (Atti, 10, 38), sugli apostoli «rivestiti della potenza dall’Alto» (Lc 24, 49), su Paolo, che lungo tutta la sua vita, ha costantemente sperimentato la medesima «potenza dello Spirito» (cf. 1 Cor 2, 4-5).
Che promessa grande, che dono! Grazie, Gesù.

mercoledì 20 marzo 2019

Appuntamento con san Camillo de Lellis


Questa volta gli Incontri con i santi “romani” ci porteranno nella chiesa di santa Maria Maddalena, nel cuore di Roma, tra il Panteon e Montecitorio.

Visiteremo, tra l'altro, una delle sacrestie più belle della città, con un affresco che da solo vale la visita.

Conosceremo san Camillo de Lellis, di cui si narra:
«Stando adunque egli una sera verso il tardi (che poteva essere un’hora di notte) nel mezzo dell’hospidale» gli venne da pensare che l’unico rimedio per la mala sanità era quello di «instituire una Compagnia d’huomini pij, e da bene, che non per mercede, ma volontariamente e per amor d’Iddio servissero gli ammalati con quella charità et amorevolezza che sogliono far le madri verso i loro proprij figliuoli infermi».
Era l’anno 1582, «intorno alla santissima Assuntione di Maria sempre Vergine d’Agosto». Camillo de Lellis, un abruzzese dalla testa dura ma dal cuore tenero, si trova da quasi tre anni nell’ospedale di S. Giacomo degli Incurabili, un antico ospedale di Roma in via del Corso. Vi era stato già nel 1571 come inserviente dei malati, ma ben presto furono costretti a licenziarlo, essendo «di molto terribile cervello», litigando spesso con i colleghi e abbandonando sovente i malati per andarsene sulla riva del Tevere a giocare a carte con i barcaioli di Ripetta.
Adesso è tornato convertito…
Ma ci racconteremo a suo tempo.

Ascolteremo l’esperienza di un camilliano, Donato Cauzzo, che ci racconterà come si vive oggi il carisma di san Camillo.

L’appuntamento è sabato 30 marzo, alle 16.00, davanti alla chiesa della Maddalena, nella piazza omonima.


martedì 19 marzo 2019

A Cosenza una Chiesa in uscita



L’avventura cosentina è terminata. Che comunità bella quella degli Oblati. Mi sono sembrati l’anima della città. Unitissimi tra di loro sono in costante donazione, con generosità e creatività. La loro casa è aperta giorno e notte, frequentata da giovani e adulti, che vi sentono a proprio agio, accolti, ascoltati…

La mia ultima meditazione sul cenacolo è stata sul “mandato” di Gesù e sull’azione dello Spirito Santo che scaraventa fuori i discepoli fuori e li trasforma in “Chiesa in uscita”, per usare una parola cara a papa Francesco.
Il primo effetto del turbine dello Spirito è proprio quello di attuare il mandato missionario di Gesù: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20, 21-23). La missione di Gesù diventa la missione della Chiesa, la nostra missione. La sua opera è compiuta, inizia la nostra. Mio padre, Leonello, era estasiato all’idea che anche lui, semplice laici, fosse coinvolto da Gesù nella sua missione. Scriveva:

«Gesù non poté fare da solo l’opera della redenzione, ma tutta la Sua vita fu coinvolta col popolo e tutti furono protagonisti, chi in bene chi in male. Dicendo: “Sarò con Voi fino alla fine del mondo; manderò Voi a nome mio; fate questo in memoria di me”, vuole coinvolgere anche noi nella Sua opera redentrice. Ha bisogno di Apostoli per la diffusione del Suo Regno in ogni parte del mondo; di anime che lo ascoltano, lo comprendono, lo amano, lo consolano nell’angoscia: “Restate qui e vegliate con Me”. Allora aveva bisogno di Pietro, Giacomo e Giovanni, oggi ha bisogno di noi. Noi siamo Pietro, Giacomo e Giovanni; se vogliamo possiamo consolare Gesù. (…) Ha tanti nemici Gesù, deve avere anche tanti amici».

Il cenacolo si presenta dunque come il luogo nel quale il Signore Risorto invia i suoi apostoli nel mondo intero: dall’interiorità all’esteriorità, dall’intimità all’estroversione, da una comunità raccolta attorno al suo Signore a una comunità lanciata tra i popoli.

Spero che anche la comunità di laici che vivono attorno agli Oblati che ho incontrato a Cosenza sia sempre così.


lunedì 18 marzo 2019

L'unità di Chiara Lubich



Essendo a Cosenza sono stato invitato a commemorare l’anniversario della partenza per il cielo di Chiara Lubich. Il tema affidatomi era ben preciso: La spiritualità di Comunione risposta alle sfide della società moderna. Sono dunque andato al cuore del carisma, l’unità.

«Ogniqualvolta […] ci viene chiesto come si potrebbe definire la nostra spiritualità, e quale la differenza fra il dono che Dio ha elargito al nostro Movimento e quelli di cui ha abbellito e arricchito altri nella Chiesa, oggi o attraverso i secoli, noi non esitiamo a dire: l’unità. L’unità è la nostra specifica vocazione. L’unità è ciò che caratterizza il Movimento dei Focolari».
Così scriveva Chiara Lubich nel 1984 nel suo libro L’unità e Gesù Abbandonato.
La centralità dell’unità nel dono carismatico della Lubich emerse fin dai primi momenti quando, nell’infuriare della Seconda guerra mondiale, durante i bombardamenti sulla città, Chiara, rifugiandosi in una cantina assieme ad altre ragazze, a lume di candela lesse il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni. Lei stessa narra: «Quelle parole difficili sembrano illuminarsi, a una a una. Abbiamo l’impressione di comprenderle. Avvertiamo, soprattutto, la certezza che quella è la “magna charta” della nostra nuova vita e di tutto ciò che sta per nascere attorno a noi».
Con un’intuizione essenziale ma efficace, la Lubich vede altre spiritualità concentrarsi attorno a una parola e si confronta con esse per cogliere la propria specificità: «Come può essere la “povertà” per il Movimento francescano, l’“obbedienza”, forse, per i gesuiti, “la piccola via” per chi segue santa Teresa di Lisieux, l’“orazione” per i carmelitani di santa Teresa la Grande, e così via.
L’unità è la parola sintesi della nostra spiritualità». Si sente chiamata a far propria la preghiera di Gesù al Padre e a rispondere, assieme alle prime amiche, al desiderio di Gesù in essa espresso: l’unità andrà vissuta prima di tutto tra di loro. Gradatamente avverte la spinta a coinvolgere il più gran numero di persone nel disegno divino dell’unità, contribuendo così all’attuazione dell’Ut omnes unum sint (cf. Gv 17, 21).
«Consce della difficoltà, se non della impossibilità di mettere in pratica un tale programma, ci sentiamo spinte a chiedere a Gesù la grazia d’insegnarci il modo di vivere l’unità. Inginocchiate attorno ad un altare, offriamo a lui le nostre esistenze perché con esse – se crede – Egli la possa realizzare. È – a quanto ci ricordiamo – la festa di Cristo Re. Ci colpiscono le parole della liturgia di quel giorno: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra” [Sal 2, 8]».


Da quei lontani anni Quaranta del secolo scorso il Movimento dei Focolari, con la guida della sua fondatrice e animatrice, ha dilatato gli orizzonti dell’unità in campo ecumenico, nel dialogo tra le religioni e le persone di convinzioni non religiose, fino a raggiungere gli ambiti della politica, dell’economia e i più diversi campi sociali.
Essa trova la sua radice in Gesù crocifisso e abbandonato che, nel dono estremo di sé al Padre nel mistero della croce, e più propriamente nel momento in cui prova l’abbandono dal Padre, è compreso come autore e modello dell’unità fra Dio e gli uomini e degli uomini fra di loro. Gradatamente si fa sempre più evidente il legame tra l’unità e Gesù abbandonato, che appare come il “segreto”, la “condizione” per la sua attuazione. Può così ben presto affermare: «Il libro di luce, che il Signore va scrivendo nella mia anima, ha due aspetti: una pagina lucente di misterioso amore: Unità. Una pagina luminosa di misterioso dolore: Gesù abbandonato. Sono due aspetti di un’unica medaglia».

Oggi il carisma dell’unità e la sua spiritualità, donati dallo Spirito a Chiara Lubich, sembrano rispondere provvidenzialmente alla domanda di una spiritualità comunitaria che Giovanni Paolo II ha avanzato per tutta la Chiesa del nuovo millennio: «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia […]. Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione». Giovanni Paolo II ha riconosciuto esplicitamente l’influsso che la “spiritualità di comunione” dell’Opera di Maria (nome ufficiale del Movimento dei Focolari) ha esercitato sulla Chiesa nella seconda metà del Novecento. In una lettera indirizzata a “cardinali e vescovi amici del Movimento dei Focolari”, evidenzia la straordinaria somiglianza fra la “spiritualità di comunione” da lui proposta e la “spiritualità dell’unità” propria di Chiara Lubich, sino a evidenziarne la convergenza: «“la spiritualità dell’unità” e “della comunione”» caratterizzano «il vostro Movimento». In un’altra lettera, sempre rivolta a un gruppo di vescovi, il papa mostra come la spiritualità di comunione, che egli indica alla Chiesa intera, può essere arricchita da cardini della spiritualità dell’unità di Chiara Lubich.
Non c’è da meravigliarsi se un carisma, che per sua natura è dato per il bene della Chiesa, viene accolto e fatto proprio dalla Chiesa, come lo è stata ad esempio la pratica degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola o la devozione al cuore di Gesù messa in evidenza da esperienze mistiche legate a persone particolari.
Siamo appena all'inizio del terzo millennio; siamo appena agli inizi del cammino verso l'unità, che caratterizzerà il millennio. Siamo ancora tanto lontano dal realizzarla, a volte ci sembra quasi impossibile e verrebbe da scoraggiarci. Ma noi puntiamo decisamente verso questa meta, per attuare il sogno di Dio, con fede e speranza.


domenica 17 marzo 2019

Da Gioacchino da Fiore



Non poteva esserci giornata migliore per salire sulla Sila: limpidissima e assolata. Nonostante il clima mite i boschi innevati non si sono ancora svegliati dall’inverno. Lasciati i primi paesi sulla Pre Sila vicino a Cosenza ci si inoltra su monti ammantati di pini solcati da vallate d’alberi spogli, in uno scenario maestoso e silente. Chissà come impervia doveva essere questa regione quando Gioacchino da Fiore vi si inoltrò alla ricerca di un luogo completamente isolato per iniziare la sua riforma monastica.
Non immaginavo che San Giovanni in Fiore, dove sorge la chiesa e il monastero, fosse un centro così grande. Assieme ad Acri è la cittadina più consistente sull’altipiano della Sila. All’antico nucleo sorto attorno all’abazia si è sviluppata in questi anni tutta una parte nuova.


Mi fermo alla chiesa di santa Lucia per la messa. All’esterno una chiesa senza una particolare personalità, di recente costruzione. All’interno accogliente, bella, luminosissima, con mosaici e vetrate molto belli. Chiedo di concelebrare ma il parroco è ben contento che celebri io. La chiesa si riempie di persone. Un bel coro, accompagnato dall’organo, guida i canti. Non mi pare vero di celebrare la messa di domenica con tanta gente. Sono un prete straniero, capitato lì per caso, senza che nessuno se l’aspettasse, ma qualcosa succede… e alla fine della messa, appena dico di andare in pace, scoppia improvviso un applauso a scena aperta e in tanti si mettono in fila per salutarmi e ringraziarmi. Basta così poco per fare contente le persone…


Ed eccomi nell’antica chiesa di Gioacchino da Fiore, con i sottostanti ambienti monastici e tutto il complesso murario liberato da poco dalle sovrastrutture barocche e riportato all’austerità degli inizi.
Quanta storia, quanta bellezza, quanta santità abbiamo sparse per ogni angolo d’Italia!
Il direttore del Centro studi gioachimiti mi introduce nei locali del monastero ora adibiti a biblioteca e luogo di convegni e mi illustra le pubblicazioni e le attività e iniziative del Centro. 
Torno carico di libri e di gioia.