Mi
immerso nel verde della valletta che divide il colle di san Pietro Avellana dalla
montagna di fronte. La strada sterrata obbliga a un lungo percorso. Per secoli
la gente è andata per sentieri dal paese al luogo dove l’eremita sant’Amico ha
vissuto per anni in preghiera e aiutando i poveri dei dintorni.
Ho letto
la sua vita, scritta nel 1100, che racconta una storia comune a tante storie di
monaci solitari, che si legano a un monastero e che poi riprendono la vita
eremitica, che attirano compagni, praticano penitenze rigorose, compiono
miracoli spiccioli per gente semplice, che si accontenta di poco.
Non
mancano i fioretti coloriti, come quando un lupo gli uccide l’asino, Amico,
senza scomporsi, lo chiama e lo carica di legna come avrebbe fatto con l’asino
e lo conduce con sé fino al monastero: “Il lupo – narra la cronaca – abbandonò l’istintiva
ferocia come se lui fosse un asinello”.
Gli
abitanti di san Pietro Avellana se lo sono presi come patrono e hanno costruito
una bella cappella accanto alla chiesa per custodirvi le reliquie. Continuano
ad andare in devota processione fino alla sua antica cella, attraversando il
valloncello. Hanno con lui un rapporto semplice e profondo, come una volta, lo
trattano come un amico, e lui, come un amico, continua a fare i piccoli
mitracoli.
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