Nella mia
conferenza di ieri, in occasione della festa di sant’Eugenio, ho messo in luce
il contrasto tra quanti ne hanno condannato la memoria e quanti ne hanno
conservato il ricordo come di un santo.
La fama
di santità era viva soprattutto tra il popolo, come ho già avuto modo di
scrivere, grazie ai mille piccoli gesti di carità. Tra questi sono ricordate
anche le visite nelle case dei malati, nei quartieri più poveri, per dare la
cresima.
Oltre
alle tante testimonianza ci sono parecchie pagine del suo diario nel quale lui
stesso annota:
“Per la
terza volta in questa settimana sono andato a cresimare nei nostri quartieri
peggiori. Ma esco sempre edificato da questi tuguri, sede della miseria”
(Diario, 23 novembre 1838).
“Cresima
di un fanciullo morente. Son dovuto salire al quinto piano. Ma quale compenso
per un vescovo che sente la sua paternità spirituale vedersi attorniato da una
folla di gente povera, ma buona! A ogni piano tutti davanti alla porta con
lumi, ricevono la benedizione in ginocchio, la camera del malato parata come il
Sepolcro, piena di vicini...” (Diario, 16 ottobre 1838).
“Otto
gennaio 1859. Torno da cresimare un’ammalata in via l’Echelle (la via più miserabile del più miserabile quartiere)...
Era una gara di attenzioni perché non scivolassi, sorpresi che il vescovo non
avesse a schifo tanta miseria. N’era rapita massimamente l’inferma: non sapeva
la brava donna che io mi sentivo più felice di lei, in mezzo ai più poveri dei
miei figli, e che la classe dei più miserabili è agli occhi miei più degna
d’affetto che non i più ricchi e potenti del mondo” (Diario, 8 gennaio 1859).
Al
termine della mia conferenza qualcuno mi ha avvicinato e mi ha detto: “Ma alla
fine che cosa rimane? Sant’Eugenio ha costruito chiese, istituito associazioni,
fondato opere… ma nel cuore delle gente non sono rimaste questi grandi cose, sono
rimasti i piccoli gesti d’amore”.
Davvero,
alla fine che cosa rimane?
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