lunedì 22 maggio 2017

Ma alla fine cos’è che rimane?

  
Nella mia conferenza di ieri, in occasione della festa di sant’Eugenio, ho messo in luce il contrasto tra quanti ne hanno condannato la memoria e quanti ne hanno conservato il ricordo come di un santo.
La fama di santità era viva soprattutto tra il popolo, come ho già avuto modo di scrivere, grazie ai mille piccoli gesti di carità. Tra questi sono ricordate anche le visite nelle case dei malati, nei quartieri più poveri, per dare la cresima.

Oltre alle tante testimonianza ci sono parecchie pagine del suo diario nel quale lui stesso annota:
“Per la terza volta in questa settimana sono andato a cresimare nei nostri quartieri peggiori. Ma esco sempre edificato da questi tuguri, sede della miseria” (Diario, 23 novembre 1838).
“Cresima di un fanciullo morente. Son dovuto salire al quinto piano. Ma quale compenso per un vescovo che sente la sua paternità spirituale vedersi attorniato da una folla di gente povera, ma buona! A ogni piano tutti davanti alla porta con lumi, ricevono la benedizione in ginocchio, la camera del malato parata come il Sepolcro, piena di vicini...” (Diario, 16 ottobre 1838).
“Otto gennaio 1859. Torno da cresimare un’ammalata in via l’Echelle (la via più miserabile del più miserabile quartiere)... Era una gara di attenzioni perché non scivolassi, sorpresi che il vescovo non avesse a schifo tanta miseria. N’era rapita massimamente l’inferma: non sapeva la brava donna che io mi sentivo più felice di lei, in mezzo ai più poveri dei miei figli, e che la classe dei più miserabili è agli occhi miei più degna d’affetto che non i più ricchi e potenti del mondo” (Diario, 8 gennaio 1859).

Al termine della mia conferenza qualcuno mi ha avvicinato e mi ha detto: “Ma alla fine che cosa rimane? Sant’Eugenio ha costruito chiese, istituito associazioni, fondato opere… ma nel cuore delle gente non sono rimaste questi grandi cose, sono rimasti i piccoli gesti d’amore”.
Davvero, alla fine che cosa rimane?


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