Sabato, domenica, lunedì, 8-10 ottobre, appuntamento a Palermo per celebrare i 200 anni degli Oblati.
Non ero
mai stato sui tetti della cattedrale di Palermo: uno spettacolo indimenticabile.
Le torri possenti e finemente lavorate le puoi toccare, mentre attorno l’arco
delle montagne avvolge la città, la conca d’oro, con disegno irregolare e
colori contrastanti.
Non sono
giorni di visita questi, ma non posso chiudere gli occhi e la bellezza continua
ad attirarmi, senza distrarmi dai compiti che mi hanno portato qui. Così ho
potuto ammirare la chiesa di san Francesco del 1200 e l’ancora più antica
chiesa normanna di Santa Cristina La Vetere, dove la Compagnia della Santissima
Trinità dei rossi accoglieva i pellegrini diretti a Roma. I locali attigui a questa
chiesa medievale oggi non accolgono più i pellegrini, ma i lavori immigrati
dalle Filippine, Isole Mauritius, Gana…, che si ritrovano la domenica per stare
insieme. Ho pranzato con loro, assaggiando i piatti più vari che ognuno porta
con sé, dopo che con loro avevo celebrato nella chiesa della Madonna delle
Grazie, un altro gioiello architettonico, questa volta rinascimentale (non a
caso era la chiesa dei Fiorentini!).
Tutta all’insegna
degli immigrati queste due prime giornate, che mi hanno visto anche nella chiesa di
san Giuseppe da Copertino, stracolma di srilankesi, che pregano e cantano nella
loro lingua, isola etnica all’interno di una Palermo multietnica. L’Oblato
Vimal è il loro parroco: una parrocchia di 3.000 cattolici. Questa è la caratteristica
della comunità oblata di Palermo: il lavoro tra gli immigrati. Tra l'altro Padre Sergio è il responsabile della Migrantes della diocesi di Palermo.
Ma ho parlato
anche nella parrocchia dove risiede la comunità, nella periferia, proprio alle
falde delle montagne, in mezzo agli aranceti. E questa volta erano tutti
persone del luogo: gli immigranti si concentrano tutti nel centro storico.
Ho raccontato soprattutto la storia di santità costruita in questi anni anni degli Oblati, a cominciare dai più di 80 martiri. L'interesse e l'attenzione sono stati al di sopra delle aspettative.
Come ha scritto Maurizio Giorgianni nel suo bel libro, Il martirio “carisma” della missione, Frascati 1994, «il martirio della carità è lo spirito portante dell’oblazione. Esso confluisce nelle Regole e nella spiritualità oblata come stile del vivere la missione. Diversi Oblati hanno vissuto il martirio di sangue, o hanno avuto una coscienza martiriale nel loro modo di svolgere la missione.
La croce ed il mistero del martirio di Cristo sono
al centro della nostra missione così da vedere attraverso lo sguardo di Cristo
crocifisso sia il mondo destinatario dell’annuncio sia la nostra missione, che
è portare in noi la morte di Gesù perché la vita di Gesù si manifesti per
essere veramente corredentori.
Il martirio è quella “bella testimonianza” (cfr. 1Tm 6, 13) che rende immediatamente intelligibile il messaggio che porta. Lì dove il dialogo e l’annuncio non sono possibili verbalmente, l’unica forma di annuncio diviene la vita. L’annuncio sarà tanto più forte e coinvolgente quanto più verrà messa in gioco la vita di colui che annuncia, fino al dono supremo attraverso il martirio.
Il martirio del missionario che condivide, patisce
ogni difficoltà, compresa quella della delusione quando non vede fiorire nulla,
è quel seme che marcisce per portare la vita, che lo rende attento in maniera
particolare alla voce dello Spirito e che rende presente il messaggio: Cristo.
Cristo parla ad ogni uomo di qualsiasi cultura e razza in maniera efficace
attraverso i “nuovi martiri” che lo rendono mistericamente presente».
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