Basta
uscire dai soliti circuiti per imbattersi in una Roma sempre nuova. Così ho
fatto, ho lasciato via Nazionale e mi sono inoltrato del rione Monti, l’antica
Suburra, il quartiere popolare dell’antica Roma. È proprio un’altra città, con
un fascino discreto, erede del destino popolare che gli è rimasto attaccato ai
vicoli e alle case. Via e piazza degli zingari ricordano ancora quei tempi
lontani. E dove altro se non qui poteva essere la tomba di un santo zingaresco
come Benedetto Giuseppe Labre? Non lo chiamavano lo “zingaro di Cristo”, il “vagabondo
di Dio”?
Inutilmente
tentò di farsi trappista, su rifiutato dai cistercensi di Montagne, dai certosini
di Neuville, dai cistercense di Sept-Fons. Decise così di farsi pellegrino: il
suo monastero sarebbe stato la strada, e più precisamente le strade di Roma.
Nel sacco di povero pellegrino portava tutti i suoi tesori: il Nuovo
Testamento, l’Imitazione di Cristo e il breviario; sul petto portava un
crocifisso, al collo una corona e tra le mani un rosario. Di notte riposava tra
le rovine del Colosseo e le sue giornate le passava nella preghiera
contemplativa e nei pellegrinaggi ai vari santuari.
Morì
proprio in questo quartiere, accanto alla chiesa di S. Maria dei Monti, dopo
essersi accasciato sui gradini dell’entrata ed essere ricoverato nel
retrobottega del macellaio.
Si
recava spessissimo in questa chiesa per la recita delle Litanie davanti
all’immagine miracolosa della Vergine. Iniziava al mattino presto,
inginocchiato presso l’altare maggiore, “con gli occhi fissamente a Maria
rivolti, parea che si liquefacesse in santo amore, né potea trattenere gli
affetti interni senza esprimere il suo amore. […] Chiunque miravalo perovava
compunzione, e tenerezza. Molti portavansi a bella posta in detta chiesa, e
fatta una breve adorazione al Divin Sacramento, si mettevan di proposito ad
osservarlo, destandosi ne’ loro cuori affetti di compunzione e devozione nel
mirarlo così innamorato e devoto di Maria Santissima”.
Quando
morì, quel mercoledì santo del 1783. I bambini di Monti iniziarono ad andare
per il quartiere gridando: “E’ morto il Santo! E’ morto il Santo”. E “Tosto un
immensa moltitudine di popolo di ogni età, di ogni ordine assediò la camera
dove giaceva il corpo di quell’uomo miserissimo, ed ognuno faceva a gara
d’avere un brandello delle lacere e luride vesti da lui usate”. La sua fama
durò così a lungo che un secolo dopo, nel 1881, Leone XIII dovette canonizzarlo.
Ora se
ne sta pulito e candito, disteso nella sua statua bianca, nella sua chiesa, accanto
alla Madonna, lui che era stato così sporco e malmesso da diventare il simbolo
del barbone, santo!
Chissà
che bella “stanza segreta” doveva avere in cuore. Di lui J.R. Maritani ha scritto: “Fu cercatore di Dio sulle strade della terra. La
solitudine fu la sua vocazione, foss’egli smarrito fra sentieri selvaggi o fra
il popolo di Roma. La contemplazione dovette essere tutta la sua vita nel tempo
che precedette la beatitudine eterna”.
Ne ha fatti di santi
Roma! e i santi hanno fatto Roma santa.
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