Che occhi grandi quelli delle divinità indù! Mi ero mescolato in mezzo a
una folla che avanzava ondeggiante, compatta, ognuno con un fiore in mano, un
pugno di riso da offrire al dio. La statua, nel fondo oscuro del tempio a
Mumbai, rimaneva distante, inaccessibile, non la si poteva toccare, ma la si
poteva guardare. E il dio ti guardava, con occhi grandissimi. Mi tornò alla
mente la preghiera di Salomone: «Siano attenti i tuoi occhi alla preghiera del
tuo servo e del tuo popolo Israele». Di solito si dice: “Ascolta quello che
dico”. Uno parla e vuole che l’altro lo ascolti, si suppone con le orecchie: “Presta
orecchi a quello che dico”. Salomone invece chiede a Dio di “guardare” la sua preghiera.
Non diciamo a volte anche noi: “Guardami quando ti parlo!”. Soltanto quando
l’altro mi guarda mi rendo conto se mi sta ascoltando veramente. Abbiamo
bisogno che Dio ci guardi.
“Dio ti guarda!”. Sembra una minaccia, quasi fosse un “guardiano” a difesa
di un territorio da indebite invasioni, una “guardia” pronta a punire chi
sbaglia. O non è piuttosto, quello di Dio, lo sguardo premuroso che somiglia a
quello di una mamma o di un papà attento al figlio, che non si faccia male?
Quante sfumature può avere lo sguardo: sfrontato e viola la persona, indagatore
e inquieta, altezzoso e umilia, sfuggente e ignora… Lo sguardo di Dio mette a
proprio agio, custodisce. È amorevole: “E Gesù, guardatolo, lo amo”. Amorevole anche
quando sembra duro. Quando, dopo essere stato rinnegato, Gesù incatenato si
voltò e guardò Pietro com’era il suo sguardo? Di rimprovero, di misericordia?
Pietro, vedendo su di sé quello sguardo, si ricordò della prima volta che Gesù lo
aveva guardato sulla riva del lago, e pianse. Fu liberato da quello sguardo.
Quando i bambini giocano spesso si rivolgono ai genitori o ai compagni:
“Guardami!”. Hanno bisogno di essere presi in considerazione. Se nessuno ti
vede che gioco è? non c’è soddisfazione.
Se non c’è su noi uno sguardo d’amore, la nostra che vita è?
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