Venerdì 3 marzo. Ho appena parlato a 800 uomini, i “Volontari
di Dio”, riuniti nella grande sala di Castelgandolfo. Finalmente possiamo
incontrarci di nuovo! Altri 250 si sono collegati via internet, ormai abbiamo questo
vantaggio…
Ho appena finito di parlare e mi giunge un messaggio… dalla moglie di uno presente in sala ma che non riesce ad avvicinarmi: “Ti esprime tutta la sua gratitudine, entusiasta per quanto hai appena saputo donare! Ha detto, sono le sue parole, “È stato geniale” - soprattutto per aver collocato Chiara per le vie della città di Roma!!!”.
In affetti ho parlato della preghiera in Chiara Lubich
(ormai, dopo aver pubblicato due libri sul tema, passo per un
esperto…). L’ho fatto con quattro foto. Una (è quella a cui si riferisce il messaggio che ho ricevuto) la ritrae a Roma, in via Condotti,
proprio in centro città. Chiara infatti non viveva in un convento, ma nella
vita comune di una città, Roma. Come pregava - mi sono chiesto - nella vita
della città?
Ho iniziato col leggere due brevi brani di un suo famoso
scritto del 1950, poi pubblicato su “Città Nuova”, nel primo anno della rivista - 1956 (Fra l’altro ho mostrato il numero originale, ciclostilato, con in prima
pagina proprio l’articolo: Ritorno a Roma, che successivamente è sempre stato
pubblicato come Risurrezione di Roma).
Passo per Roma e non la voglio guardare. Guardo il
mondo che è dentro di me e m’attacco a ciò che ha essere e valore. Mi faccio un
tutt’uno con la Trinità che riposa nell’anima mia, illuminandola d’eterna Luce
e riempiendola di tutto il Cielo popolato di santi e d’angeli, che, non
asserviti a spazio e a tempo, possono trovarsi raccolti tutti con i Tre in
unità d’amore nel mio piccolo essere.
Chiara rinuncia allora alla città, alla sua laicità?
No. Quel “non guardare” è solo il primo momento, quasi un prendere la rincorsa
per lanciarsi di nuovo nel mondo ma con uno sguardo nuovo, quello che nasce dal
rapporto intimo e personale con Gesù:
guardo al mondo e alle cose; però non più io guardo, è
Cristo che guarda in me e rivede ciechi da illuminare e muti da far parlare e
storpi da far camminare. (…) Cosicché riaprendo gli occhi sul di fuori vedo
l’umanità con l’occhio di Dio che tutto crede perché è Amore.
Chiara può dunque trovare Dio ovunque perché la sua
preghiera la porta in un costante rapporto con Dio, non è confinata nei momenti
dedicati esplicitamente alle preghiere: tutta la sua vita lentamente diventa preghiera.
Anche 15 anni più tardi, il 4 aprile 1965, proprio mentre
si trova ancora per le strade di Roma (abitava in via Valnerina), scrive nel
diario:
Qualcuno mi chiama con veemenza in fondo all’anima ad
unirmi a Sé.
Sei Tu, mio
Dio, al cui pensiero anche in mezzo a Via Veneto, a Corso d’Italia, dovunque,
mi si commuove l’anima fino nel profondo.
E c’è un’oasi in essa, che m’attira come l’unico regno
di pace, d’amore... ma così diversa, così diversa dal resto! Mi chiami, mi
richiami, mi attiri, mi vuoi! Come sei il Solo per l’anima, quando l’anima è in
questa disposizione! E come, con Te, si vedono grandi i peccati, le
imperfezioni, le parole in più. Perdono, mio Dio!
Quest’unione attendevo, ché altro fine non ha l’unità
nostra con chicchessia, sia pure col Santo tuo Vicario, che quello d’aumentare
l’unione con Te.
E a Te chiedo per lui la massima gloria, la santità.
Chiara non cerca un raccoglimento esteriore, non teme
«il chiasso esterno della radio aperta a tutto spiano, dell’inquilino accanto,
e lo strepito delle macchine, o l’urlo degli strilloni», non è neppure attratta
dalla forma claustrale di vita, che pure stima moltissimo e ammira, convinta che
«anche la mia casa può avere il profumo del chiostro; anche le pareti del mio
abitato possono divenire regno di pace». La sua preghiera, il raccoglimento
interiore, li avvertiva come frutto dell’azione di Dio, che vuole prendere
possesso della sua persona intera, «muovere i miei atti, permeare della sua
luce il mio pensiero, accendere la mia volontà, darmi la legge insomma del mio
stare e del mio andare». Dio, afferma,
saprà dare anche a queste mura l’importanza di un’abbazia
e a questa stanza la sacralità di una chiesa, al mio seder a mensa la dolcezza
di un rito, alle mie vesti il profumo di un abito benedetto, al suono della
porta o del telefono la nota gioiosa di un incontro con i fratelli, che rompe,
eppur continua il colloquio con Dio.
In definitiva, «Cristo sarà il mio chiostro, il Cristo
del mio cuore, Cristo in mezzo ai cuori» (Meditazioni, p. 82).
Grazie di questa "polla di aria fresca": trovare Dio in mezzo alle occupazioni quotidiane.
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