sabato 10 aprile 2021

Tendi la tua mano e mettila nel mio fianco


 

Quando Gesù si era incamminato verso Gerusalemme, con tanta generosità e con un po’ presunzione aveva dichiarato: «Andiamo anche noi a morire con lui!» (11, 16). Ma quando Gesù fu arrestato era fuggito come tutti e non l’aveva visto morire. Ora pretende di mettere il dito nel segno dei chiodi e la mano nel suo fianco. E Gesù lo esaudisce, gli va incontro personalmente, come personalmente era andato incontro a Maria di Magdala. Anche Tommaso, come Maria, sintetizza tutti noi che vorremo vedere, toccare, avere un rapporto diretto con il Signore, senza accontentarci della testimonianza degli altri che ci dicono “Abbiamo visto il Signore”.

Gesù viene. Dopo l’abituale saluto a tutti – “Pace a voi!” – si rivolge direttamente a Tommaso.

Come già il giorno di Pasqua, mostra le sue piaghe e dice, senza indugi: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco» (20, 27). «Non abbiate timore – sembra dire. Questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me lamore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno». Così Pietro Crisologo traduce le parole di Gesù.

Per tutta l’eternità Gesù sarà il Crocifisso Risorto e noi, contemplando le sue piaghe, rubini preziosi d’una bellezza ineffabile e d’una luce splendente, ripeteremo con l’apostolo Pietro: “Dalle sue piaghe siamo stati guariti” (1 Pt 2, 24).

La vista dei segni dell’infinito amore e le parole d’invito a credere provocano la più alta professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!». Non una professione di fede intellettuale, ma l’adesione di tutta la persona espressa in quel “mio” ripetuto due volte, quasi ripresa del “mio” della Maddalena: “Maestro mio”.

«Li hai dati a me», aveva detto Gesù al Padre (17, 6): i discepoli, tutti i discepoli, sono suoi e ad ognuno può dire: “fratello mio” («Va’ dai miei fratelli»). E ogni discepolo può dire: “Mio Signore e mio Dio!”. Perfetta reciprocità di appartenenza, unità pienamente compiuta: «Voi in me e io in voi» (15, 4).

«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (20, 29).

Chi non vorrebbe vedere Gesù? Siamo tutti come quei greci che andarono dall’apostolo Filippo e gli chiesero: “Signore, vogliamo vedere Gesù” (12, 21). Eppure non basta vedere. Lo hanno visto anche quelli che l’hanno crocifisso. Lo sguardo della fede è un altro. Credere è riconoscere d’essere amati da Gesù e abbandonarsi totalmente al suo infinito amore.

Il Risorto ha parlato per quanti sarebbero venuti dopo, per noi. Lo avevano compreso già i primi cristiani, come constatava l’apostolo Pietro: «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime» (1 Pt 1, 8-9).

Così anche noi possiamo proclamare la nostra fede e il nostro amore: “Mio Signore e mio Dio!”.

È stata la prima preghiera che anch’io ho imparato. Avrò avuto forse quattro cinque anni. Quando andavo alla messa mio papà mi portava con sé nei banchi attorno all’altare, oltre la balaustra, riservati agli uomini, mentre le donne rimanevano in quelli lungo la navata. Al momento della consacrazione, all’elevazione, piegato verso di me che gli ero accanto piccolino, mi insegnava a ripetere: “Signore mio e Dio mio”. Di quell’istante rammento il suono del campanellino, il grande silenzio, il mormorare devoto dell’invocazione: “Signore mio e mio Dio”. Mi infondeva il senso del mistero, assieme a pace e gioia.

 

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