“Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13, 1). Sono le parole che danno il significato profondo al mistero che stiamo celebrato in questi giorni. Soltanto l’amore spiega il perché della passione morte e resurrezione di Gesù. È l’amore di Dio, “che tanto ha amato il mondo da dare il suo figlio” (Gv 3, 16); è l’amore del Figlio che ama con l’amore più grande, quello che dà la vita per gli amici (cf. Gv 15, 13).
Un amore capace di
rimanere “fino alla fine”. L’amore non è tale se non conosce la durata, se non
rimane fino all’ultimo. Specialmente quando le cose non vanno nel verso che
vorremmo, la tentazione di rinunciare e di scappare è forte. Ricordo quando,
davanti a una situazione che mi sembrava incomprensibile e ingiusta e che
ritenevo un autentico tradimento, dissi ad un amico: “Se le cose stanno così, io
me ne vado”. E lui, con volto duro e fermo, mi rispose: “E io resto”. Fu una
grande lezione per me. Davanti al negativo non si fugge, si resta, lo si
assume, si continua ad amare, si rimanere fedeli alla parola data.
Davanti all’incomprensione e al rifiuto, Gesù avrebbe potuto smettere di amare: “Perché amare se non riconosci il mio amore e non lo accetti?”. Che senso aveva per Gesù continuare ad essere fedele al progetto di Dio quando tutti gli voltano le spalle e lo abbandonano? Eppure egli continua ad amare, nonostante venga lasciato solo; continua ad amare, anche quando attorno sente gridare “crocifiggilo”; continua ad amare, anche quando nessuno crede al suo amore. “Avendo amato i suoi continuò ad amarli fino all’ultimo momento”, senza venire meno alla parola data.
Gli Oblati si
rispecchiano in questo fedeltà del Signore quando pronunciano un voto
particolare, quello di “perseveranza”. Anche loro hanno capito che la verità
dell’amore si riconosce dalla sua durata, dalla capacità di rimanere fino in
fondo. “Ve ne volete andare?”, aveva chiesto Gesù ai suoi discepoli quando le
sue parole si era fatte difficili e dure. “No – gli rispose Pietro a nome di
tutti – noi non ce ne andiamo, rimaniamo con te, sempre, perché tu solo hai
parole di vita eterna” (cf. Gv 6, 68).
Col passare degli
anni l’amore iniziale, che aveva componenti belle di entusiasmo, di generosità,
di novità, conosce l’usura e rischia di raffreddarsi, di assuefarsi, di entrare
nella routine, può giungere perfino al disamore. La vita continua come prima,
ma lentamente si svuota, non c’è più la linfa che dà pienezza e gioia. Gesù lo sa,
per questo aveva messo in allerta: “Per il dilagare dell’iniquità, si
raffredderà l’amore di molti”. Da qui la sua esortazione: “Ma chi avrà
perseverato fino alla fine sarà salvato” (Mt 24, 12-13; 10, 22).
Egli stesso ce ne dà
l’esempio: più procede nel cammino verso la Pasqua, più il suo amore si
intensifica, fino a dare il massimo di sé nella prova estrema della passione e
morte: “Avendo amato i suoi li amò fino alla fine”.
A questo punto quel “fino alla fine”, acquista un’altra valenza, non più temporale, ma di qualità: amò in modo estremo, come mai aveva amato fino ad allora, donando tutto, come richiede l’amore vero, fino a dare la vita stessa. L’Eucaristia ne è il segno più alto: “prendete e mangiare; prendete e bevete”. È il corpo donato per noi, il sangue versato per noi, il tutto di sé offerto senza riserve: corpo, sangue, anima e divinità.
Anche in questo gli
Oblati vedono il modello della loro oblazione quando, attraverso i tre voti, Dio
li chiama a donarsi interamente, radicalmente, senza misura, senza risparmio.
Tornano attuali le
parole di sant’Eugenio che gli Oblati conoscono a memoria: «lavorare seriamente
a diventare santi, rinunciare interamente a se stesso, mirare unicamente alla
gloria di Dio, al bene della Chiesa, alla edificazione e alla salvezza delle
anime,…vivere in uno stato abituale di abnegazione e in una costante volontà di
giungere alla perfezione,…pieni di zelo, pronti a sacrificare tutti i beni, i
talenti, il riposo, la persona e la vita stessa per amore di Gesù Cristo, per
il servizio della Chiesa e per la santificazione del prossimo».
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