Nel
computo delle “sette” parole di Gesù in croce non viene calcolata l’ottava, l’ultimo
suo grido. In effetti non è una parola, ma un grido inarticolato. Lo riportano sia
Matteo che Marco.
Un
grido improvviso, terribile, inatteso, forte: «Gesù di nuovo gridò a gran voce ed
emise lo spirito» (Mt 27, 50); «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc
15, 37).
Marco
usa la parola anaboaō, Matteo krazō: un gridare vuoto,
incomprensibile, senza articolare parola, un semplice grido di dolore.
Gesù muore in maniera drammatica. Non una parola di
sapienza, ma un grido, con tutto il fiato che gli rimane, l’ultimo.
Poi
il grande silenzio, senza risposta.
Quest’urlo, più di tutte le altre parole, lascia intuire quanto Gesù può aver vissuto. Ha fatto suo ogni angoscia, ogni disperazione, ogni grido.
È l’eco de Il grido di Edvard Munch che, nel dipinto del 1893, sembra anticipare il sentimento tragico del Novecento: «Passeggiavo con due amici quando il sole tramontò. Il cielo divenne all’improvviso di un rosso sangue. Io mi fermai, mi appoggiai stremato a un parapetto. Il fiordo di un nero cupo, bluastro, e la città erano inondati di sangue e devastati dalle fiamme. I miei amici proseguirono il cammino, mentre io, tremando ancora per l’angoscia, sentii che un grido senza fine attraversava la natura».
È l’eco del grido di Useppe, il bambino di Ida, effetto di epilessia, ne La Storia di Elsa Morante: «addossato al muro del corridoio… con la faccetta chiusa come un pugno, contratta e raggrinzata in tante rughe… disse in una voce disperata: “A ’mà… pecché?”. In realtà, questa sua domanda non pareva rivolgersi proprio a Ida là presente: piuttosto a una qualche volontà assente, immane, e inspiegabile… Quella domanda: pecché? Era diventata in Useppe una sorta di ritornello… Lo si sentiva a volte ripeterla fra sé in una sequela monotona: “pecché? pecché pecché pecché pecché??” . Ma per quanto sapesse d’automatismo, questa piccola domanda aveva un suono testardo e lacerante, piuttosto animalesco che umano. Ricordava difatti le voci dei gattini buttati via, degli asini bendati alla macina, dei caprettini caricati sul carro per la festa di Pasqua. Non si è mai saputo se tutti questi perché innominati e senza risposta arrivino a una qualche destinazione, forse a un orecchio invulnerabile di là dai luoghi».
È l’eco del grido del figlio del giudice Othon, ne La peste di Albert Camus: «il bambino contrasse le gambe ossute e le braccia da cui la carne in quarantotto ore si era dissolta e nel letto devastato prese la posa grottesca di una creatura crocifissa. (…) Nel volto ormai rappreso in un’argilla grigia la bocca si aprì e ne uscì quasi subito un lungo grido ininterrotto, appena alterato a tratti dal respiro, che subito riempì la corsia di una protesta monotona, discordante, e così poco umana che sembrava venire da tutti gli uomini insieme».
Certamente Camus si è ispirato a Gesù. Ma forse è più vero il contrario: è Gesù che si è ispirato al bambino e ha assunto in sé il suo grido, il grido di tutto l’ospedale di Orano che fa da coro al grido del bambino, il grido di tutta l’umanità.
Ognuna
delle “sette” parole di Gesù in croce dice qualcosa di grande, sono un insegnamento,
meritano di essere ascoltate, accolte, meditate, commentate, come ha fatto la grande
tradizione cristiana. Questa ottava “non
parola” è quasi scandalosa, la si sorvola facilmente, tanto è enigmatica.
Forse
è la più bella, quella che, senza
verbo articolato, dice il mistero che si sta compiendo su quella croce, talmente
grande che è indicibile.
Eravamo
maledetti e per portarci la benedizione si è fatto egli stesso maledetto: «Cristo
ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione
per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno» (Gal 3, 13).
Eravamo
piagati e ci ha guariti con le sue piaghe: «Dalle sue piaghe siete stati guariti!»
(1 Pt 2, 24).
Eravamo
nemici di Dio e ci ha resi suoi amici, a prezzo della vita: «quand’eravamo nemici,
siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo» (Rm 5,
10).
Eravamo
peccatori perché disobbedienti e per costituirci giusti: «Dio lo fece peccato
in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2
Cor 5, 21).
Ha
dovuto obbedire in maniera radicale come noi mai saremmo stati capaci: «Infatti,
come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori,
così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm
5, 19).
Gli
siamo costati cari, come ricorda per due volte Paolo: «siete stati comprati a caro
prezzo» (1 Cor 6, 20. 23). Lo ripete Pietro: «Voi sapete che non a prezzo
di cose effimere siete stati riscattati…, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello
senza difetti e senza macchia» (1 Pt 1, 18-19).
Gesù
ha portato a compimento la sua missione
non nella forza,
ma nella debolezza e nella fragilità;
non arruolando una legione di angeli o un esercito di seguaci,
ma nell’estrema solitudine;
non
nell’imposizione di un potere,
ma
nel servizio silenzioso e operoso.
Il
Verbo, la Parola di Dio, non ha più parola. È il Non Verbo.
Ora
il Verbo è tutto e solo Amore, le sue parole non sono più proclamate, sono
attuate.
Niente più bello di quel grido, parola non detta: la parola dell’amore più grande, la parola della nostra salvezza.
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