«L’anno in cui ho compiuto otto anni, abbiamo preso in casa
un nuovo domestico. Si chiamava Fide. L’unica cosa che mia madre ci ha detto di
lui era che la sua famiglia era molto povera. Mia madre mandava loro igname,
riso e i nostri vestiti vecchi. E quando non finivo la cena, mia madre diceva: “Mangia
tutto! Non lo sai? Quelli come la famiglia di Fide non hanno nulla!” Provavo,
quindi, un’enorme pietà per la famiglia di Fide.
Poi, un sabato, siamo andati in visita al villaggio di Fide
e sua madre ci ha mostrato un cestino con bellissime decorazioni, in rafia
colorata, fatto da suo fratello. Ero stupefatta. Non avrei mai pensato che
qualcuno di quella famiglia fosse in grado di produrre qualcosa. Tutto ciò che
avevo sentito di loro era quanto fossero poveri, ed era diventato impossibile,
per me, vederli come qualcos’altro, oltre che poveri. La loro povertà era la
mia unica storia su di loro».
È uno dei tanti esempi che offre Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice
nigeriana, nel suo libro Il pericolo di
un’unica storia, un libretto piccolo che ho letto in un soffio e che mi ha
fatto pensare. Di tante cose, luoghi, persone, situazioni ci facciamo un’idea
in base a un unico racconto, fino a generare un luogo comune, uno stereotipo, che sempre mortifica la complessità e la
ricchezza.
Occorre guardare un oggetto da tutti i lati per coglierlo
nella sua interezza. Lo stesso per le persone. Quando guardo qualcuno in metro
o in treno cerco di collocarlo nel suo contesto e di indovinare le varie
storie che fanno la sua persona: cos’è per sua madre, cosa lui o lei sogna, com’è la sua stanza, com'è stata la sua infanzia...
Ogni persona è unica, irrepetibile, indispensabile. Ma occorre
coglierla a tutto tondo, lasciando che si esprima, che si riveli, aiutandola a scrivere
la sua storia in tutta la sua pienezza, perché diventi quella che è chiamata ad
essere.
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