“Che
cosa mi darai?”. Se lo domandava e se lo ripeteva, come un’ossessione: “Che
cosa mi darai?”. Si sentiva deluso. Più ancora, tradito. Si girava e rigirava
sulla stuoia, con un’agitazione crescente. La notte era fredda, ma aveva
gettato via il mantello che lo copriva e continuava a domandare: “Che cosa mi
darai?”. Sarai, che gli dormiva accanto, si svegliò, gli si avvicinò,
l’abbracciò. “Cosa c’è?”. Gli toccò la fronte. “Stai bruciando, hai la febbre.
Mettiti quieto, cerca di riposare”.
Lo
ripeté come un grido: “Che cosa mi darai?”.
Si alzò e uscì dalla tenda.
Che
silenzio là fuori, e che pace. Strideva col tumulto che lo agitava.
Era
ancora turbato dalle voci udite poche ore prima, quando il sole era al tramonto
e inondava di luce calda la steppa d’intorno. Aveva ancora nelle orecchie e,
più abbarbicati nel cuore, i nomi dei bambini del clan che a sera le mamme,
all’entrata della tenda, avevano chiamato per cena. Li conosceva tutti quei
nomi, ad uno ad uno, e ognuno gli disegnava un volto. Erano la sua tribù, che
amava, che gli era fedele, che guidava ormai da anni di pascolo in pascolo in
quella terra straniera che lentamente gli diventava familiare. Erano i suoi
figli, come lo erano i loro genitori. Era la sua tribù. Ne era il capo
indiscusso, amato e temuto, venerato come un patriarca.
Ma
non erano suoi.
Quella
sera, come ogni altra sera, ormai da anni e anni, sua moglie non aveva chiamato
nessun figlio per la cena. Non aveva figli, lui.
Ormai
era anziano. Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene come quando era giovane,
la forza di un bufalo. Ma era anziano. E senza figli.
Sarebbero
passati pochi anni e presto la sera, nelle tende, quando si narrano le storie
dei padri, nessuno l’avrebbe più ricordato, sparito come il sogno d’una notte.
Nel
silenzio della notte, sotto un cielo d’un mare di stelle, gridò, senza voce, il
suo lamento:
M’hai
strappato dalla mia terra,
dalla
mia gente,
dai
miei dèi.
M’hai
lanciato verso un orizzonte
che
non ha meta
in
un’avventura
che
ha perso ogni sapore.
Perché?
Che
cosa mi darai?
Me
ne vado senza figli.
Mio
erede sarà il mio servo,
fedele,
ma
non carne della mia carne,
non
sangue del mio sangue…
Penso
al grido di Abramo ogni volta che vedo persone sole. Magari hanno tutto.
Quando tornano a casa dal lavoro, trovano un bell’appartamento, possono
rilassarsi, uscire di nuovo a divertirsi… e poi?
Penso
a quanti hanno visto il fallimento della propria famiglia e con quello il loro
personale fallimento; a chi è attraversato dal dolore, dalla perdita di persone
amate; a chi non riesce nella vita; a chi si sente insicuro, conosce il dubbio,
è fragile, nell’oscurità…
Abramo
non è il solo a chiedere a Dio “Che cosa mi darai?”.
Tanti
di noi l’accompagnano.
“Fino
a quando, o Signore,
mi
dimenticherai?
Sarà
forse per sempre?
-
gridava Davide in un suo salmo –
Fino
a quando mi nasconderai il tuo volto?
Fino
a quando avrò l’ansia nell’anima
e
l’affanno nel cuore tutto il giorno? (…)
Guarda,
rispondimi, o Signore,
mio
Dio!” (Salmo 13, 1-3).
“Abramo,
Abramo”.
Finalmente
udì la voce di Dio.
“Guarda
in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”, disse Dio ad Abramo, e
soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza” (Genesi 15, 1-5).
Era
una promessa!
Per
accoglierla Abramo dovette guardare in alto.
Solo
dall’alto viene la parola della promessa.
Abramo
credette, “sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli”
(Romani, 4, 18).
È
l’uomo della speranza, nostro padre nella fede.
Siamo
eredi della speranza.
È l’inizio del mio libro "Dio si compromette".
Grazie P. Fabio. È l'inizio del tuo libro.... È l'inizio del mio cammino quaresimale
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