Ai primi dell’Ottocento Eugenio
de Mazenod, ventenne, ha tentato di tutto pur di farsi strada nella vita:
esercito, diplomazia, pubblica amministrazione, proprietà terriera,
matrimonio… Non gliene è andata bene una. E' storia nota.
Meno nota la velleità
letteraria, o meglio il segreto desiderio di cementarsi con la poesia per farsi
strada nella società bene dei salotti. Legge i Classici italiani e cita l’Ariosto. Scrive una dotta conferenza sullo studio e prova a comporre versi… Mi
pare ne siano rimasti solo un paio, che trovo in una lettera al padre:
«Mi sarà impossibile comporre versi in lingua francese.
Pazienza, non ci sarebbe comunque da lamentarsi, se mi cementassi in italiano.
Ma per riuscir in così bella impresa, come mai
dovrò far? A qual astro, a qual dio potrò porgere voti?
Ah, s'un mortal pietoso
Diriger ben volesse
Gl'inaudaci miei passi, etc.
Mi sembra che queste righe suonino come poesia, ma
dovrei conoscere le regole e, soprattutto, applicarle in modo appropriato.
Quindi vi rinuncio, almeno per il momento. No, non nacqui poeta».
Povero Eugenio, non ne indovina
una. Tutte le strade lo portano a un vicolo cieco. Quale sarà l’avvenire di
questo giovane avvenente e promettente?
Lo sa il Signore che lo attente
al varco e gli aprirà una strada impensata…
Non è diventato un poeta, ma un
santo sì!
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