mercoledì 31 agosto 2016
martedì 30 agosto 2016
Gesù "Nazareno", proprio di Nazareth!
Dopo essere stati in Terra Santa il Vangelo non solo lo si ascolta: lo
si vede.
Così oggi, Gesù che parla nella sinagoga di Cafarnao. Anche se l’attuale sinagoga,
venuta alla luce pochi anni fa grazie agli scavi dei Francescani, è del V, VI secolo,
essa sorge sull’antico edificio nel quale Gesù andava il sabato.
Anche Gesù “Nazareno” ha un volto davvero umano, è Gesù di “Nazareth”, non
di un altro luogo.
Il diavolo lo interpella proprio a partire dalle sue origini storico-geografiche:
“Che abbiamo a che fare con te, Gesù Nazareno?”. Avrebbe potuto
chiamarlo Gesù il Cristo o il Figlio di Dio. Ciò che gli fa paura è invece
proprio la sua umanità concreta: un Dio che non si fa Uomo, umanità, ma proprio
questo singolo uomo, entrando, solo così, nell’umanità, rendendosi capace di
raggiungere ogni uomo.
Bello il commento di un autore greco del IV secolo:
“Gesù Nazareno: dico il suo nome e la sua patria… Non dico: Gesù che ha
spiegato la volta del cielo, che ha acceso i raggi del sole, che ha disegnato
le costellazioni nel cielo, che accende la lampada della luna, che ha fissato
il suo tempo al giorno, che ha attribuito il suo corso alla notte, che ha
stabilito la terra ferma sulle acque, che ha messo un freno al mare con la sua
parola... Gesù Nazareno: di lui Natanaele disse nel suo dubbio: “Da
Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46). Davanti a lui la truppa
dei demoni ha tremato dicendo: “Che abbiamo a che fare con te, Gesù Nazareno?”
“Gesù Nazareno, disse l'apostolo Pietro, uomo accreditato da Dio presso di voi
per mezzo di miracoli, prodigi e segni” (Ac 2,22).
lunedì 29 agosto 2016
Terra Santa "Quinto Vangelo"
Ogni luogo è luogo del Signore, ma quando egli si è incarnato, ha scelto
una terra specifica: la Galilea, con le sue città e villaggi: Nazareth, Cana,
Cafarnao, Magdala, con il lago di Tiberiade e le sue colline; la Decapoli, la
Samaria, i territori di Tiro e Sidone; la Giudea, con Gerusalemme, Betlemme,
Gerico. Nomi che abbiamo imparato a conoscere leggendo il Vangelo e che ci sono
diventati cari anche senza averli visti. È la Terra Santa, “il quinto
Evangelo”, come l’ha chiamata con espressione felice Ernest Renan.
Con l’ascensione al Cielo Gesù ha lasciato per sempre la sua terra. Non
occorre più andare in Terra Santa per incontrarlo. Eppure egli vi ha impresso
tracce indelebili, che invasioni, guerre e distruzioni non hanno potuto
cancellare. Là ogni pietra, ogni colle, ogni orizzonte parla di lui. Lo hanno
presto compreso i cristiani che, fin dai primi secoli, vi si sono recati in
pellegrinaggio. Di alcuni di loro abbiamo i diari di viaggio, come quello
famoso di Egeria, del IV secolo, o quello dell’anonimo pellegrino che vi giunse
nel 333 partendo da Bordeaux. Perché si mettevano in cammino affrontando viaggi
tanto perigliosi? Da cosa erano spinti? Dal desiderio di vedere i luoghi di
Gesù, camminare sui suoi passi, ammirare i panorami che i suoi occhi hanno
guardato, comprendere meglio, da vicino, dal di dentro, la sua vicenda umana,
nella speranza di rivivere il suo cammino.
Lo stesso desiderio che in questi giorni ha spinto noi a tornare in Terra Santa
Dio si è lasciato incontrare in quella terra prima da Abramo, da Mosè, dai
profeti e poi, nella pienezza dei tempi, in Gesù Dio fatto carne, da Maria di
Nazareth, da Giuseppe, dagli apostoli, da Maria di Magdala, dal centurione
romano… Anche oggi Dio si lascia incontrare proprio in quella terra. È
testimonianza di tanti. La Terra Santa continua ad essere sacramento di Dio.
«Come si sente, dappertutto la presenza
di Gesù… – ha scritto Pia Compagnoni, donna innamorata di quella terra che a
tanti ha insegnato ad amare – In ogni luogo lo troviamo ad attenderci, tanto
che sembra impossibile sfuggire a questa presenza. Non è soltanto la presenza
di un Dio dalla cui immensità ti senti abbracciato, nella cui immensità ti
senti perduto; è Gesù-uomo, cioè il fratello, l’amico… La sua presenza ti
stringe come in un abbraccio, ti penetra fin dal più intimo. Egli ti parla e tu
lo ascolti…».
Anche una di noi, Anouk, al termine del nostro pellegrinaggio ha scritto: «Si
sa che Gesù è uomo-Dio, ma forse col tempo finisce per diventare più spirituale
che reale. Qui mi è sembrato di incontrarlo ad ogni angolo di strada, nella
concretezza della sua vita, entrando in quella che sarà stata la sua vita di
uomo in questa terra. Ma non un Gesù di 2000 anni fa, era Gesù vivo oggi. E
quell’uomo ha riacceso la mia ammirazione, mi ha molto impressionata. Anche se
conoscevo la sua vita... prenderne la misura è un’altra cosa».
domenica 28 agosto 2016
In Terra Santa / 13 – Nazaret e il monte Tabor
La grotta dell’Annunciazione ci ha
letteralmente galvanizzati. Ieri sera e questa mattina più volte siamo stati lì
a pregare, insieme, da soli, a due a due, a gruppetti. Ma è avvenuto proprio
qui l’annuncio dell’angelo? Un’altra tradizione colloca l’evento alla fontana
del villaggio. Così dopo cena ci distinguiamo: un gruppo alla chiesa dell’Annunciazione
per la grande processione dei cattolici attorno alla basilica, un altro gruppo
alla fontana della Madonna per la festa dell’Assunzione che i greci ortodossi a
Nazaret celebrano proprio adesso. Davvero Maria ci ha accompagnato dall’inizio
alla fine di questo viaggio: con lei sui passi di Gesù.
Nella
chiesa della fontana (la fontana è in fondo ad una scala di pietra) un
baldacchino di fiori bianchi custodisce Maria che dorme il sonno della morte,
nell’attesa dell’Assunzione del suo corpo. Giungiamo al termine della
celebrazione presieduta dal patriarca. Ci avviciniamo anche noi per baciare
l’icona delle Dormiente.
Intanto fuori, sulla piazza, si sono
radunati i cristiani ortodossi per cantare le lodi di Maria e danzare in suo
onore. Al suono di tamburi e cornamuse e sulle note di una nenia gridata a
squarciagola, un uomo improvvisa le parole più dolci rivolte alla Madonna,
ripetute da tutti in una cantilena festosa. Tra l’altro le dice (così ci
traduce dall’arabo la nostra Mirvet): “Dall’Oriente e dall’Occidente, dal Nord
e dal Sud, tutti vengono a lodarti”… parla di noi!
Ad un dato momento gli uomini
prendono sulle braccia il patriarca e lo portano in trionfo in giro per la
piazza a passi di danza, per esprimere l’incontenibile gioia.
Siamo proprio a Nazaret, dove il
cielo ha toccato la terra e dove Gesù ha vissuto gli anni della sua giovinezza
assieme alla Madre. Non è questa l’attrattiva del tempo moderno, anzi, di tutti
i tempi?
«Gesù e Maria:
il Verbo di Dio, figlio d’un falegname;
la Sede della Sapienza, madre di casa».
Questa mattina, prima di partire, mi
reco nell’antico monastero delle Clarisse, dove per tre anni Charles de Foucauld ha vissuto nel
nascondimento come Gesù e dove è nata la sua spiritualità incentrata sul
nascondimento di Nazaret. Oggi, nel piccolo monastero, non ci sono più le
Clarisse, ma i figli di Fratel Charles, i Piccoli Fratelli, che ne custodiscono
la memoria.
«Abito in una casetta solitaria –
scriveva a suo cognato il 25 novembre 1897 – situata in un recinto appartenente
alle Suore di cui sono il fortunato servo; sto là, tutto solo, ai margini della
cittadina; da un fianco è la clausura delle Suore, dall’altro la campagna,
campi e pendii: è un eremo delizioso, perfettamente solitario. Mi alzo quando
il buon angelo mi risveglia e prego e medito fino all’Angeus… All’Angelus vado
al convento francescano, là scendo nella grotta che faceva parte della casa
della Santa Famiglia (questa casa era addossata alla roccia e formata in parte
da una piccola costruzione esterna; la costruzione esterna è a Loreto: la parte
scavata nel macigno è qui)… resto lì fino verso le sei del mattino dicendo il
mio rosario e ascoltando le Messe che vengono dette in questo luogo sì
adorabilmente Santo in cui Dio s’incarnò, in cui risuonò per trent’anni la voce
di Gesù, di Maria e di Giuseppe; è profondamente dolce guardare queste pareti
di pietra sulle quali si sono posati gli occhi di Gesù e ch’Egli toccava con le
sue mani».
Presto, il 1 dicembre, celebreremo
il primo centenario del suo martirio.
Da Nazaret al monte Tabor, che si staglia sulla fertile assolata pianura. Da
lassù si stende uno sguardo pieno di luce, riflesso di quella che brillò sul
volto di Gesù in quella notte di grazia.
Era notte o era giorno quando, in
preghiera sul monte, Gesù si trasfigurò? I vangeli non lo dicono. Se era
giorno, il suo splendore offuscò la luce del sole. Se era notte, la sua luce
dissipò le tenebre.
Doveva essere notte, perché di notte
era solito ritirarsi a pregare, quando i discepoli, come più tardi nell’orto
degli olivi, venivano sopraffatti dal sonno.
Le tenebre ricoprivano la terra. Le
stesse tenebre che in pieno giorno, quando fu innalzato sulla croce, avvolsero
tutta la terra. Ed è proprio di quel giorno che diverrà notte, che Gesù
discorreva con Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti. L’intera Scrittura parlava
di lui e annunciava l’esodo doloroso che lo avrebbe condotto alla morte per
condurre noi dalla morte alla vita. Proprio mentre ne parlava con Mosè ed Elia,
e percepiva il buio, si accese di luce e fece splendere la notte: la sua notte
non ha più oscurità, annuncio di risurrezione, di esodo compiuto.
Vorremmo che quella stessa luce
taborica avvolgesse costantemente la Scuola Abbà. Questo si rivela proprio come
il luogo della Scuola Abbà, chiamata alla luce. Sarà forse per questo che, dopo
la visita, tutti, senza nessun accordo previo, ci ritroviamo nella parte bassa
della Chiesa, in silenzio, in una grande pace, in una gioia forse simile a
quella che aveva avvolto Pietro, Giacomo e Giovanni… Non ci saremmo più mossi
da lì.
E invece eccoci di ritorno. Il
nostro pellegrinaggio è terminato, dopo una settimana nella quale il tempo si è
annullato.
Riparto senza rimpianto né ostalgia,
tanto grande è la pienezza sperimentata. Compimento!
sabato 27 agosto 2016
In Terra Santa / 12 – Ritorno in Galilea
Lasciamo la casa dei cappuccini, che ci hanno riservato una ospitalità molto
cordiale, mentre il sole sorge dietro la chiesa della dormizione della Vergine,
come se Maria volesse continuare ad accompagnarci nella sua terra.
Siamo diretti in Galilea, dove tutto è cominciato: la chiamata dei Dodici,
le parabole, la convivenza con Gesù sul lago… Nella loro chiamata la nostra
chiamata.
Vi andiamo dopo essere stati a Gerusalemme, dopo aver vissuto l’evento
della passione, morte e risurrezione di Gesù. Vi torniamo su suo invito,
comunicatoci dalle donne: “Il Maestro vi aspetta in Galilea”.
Vi torniamo dopo anni dalla nostra prima chiamata. Da allora anche noi
l’abbiamo tradito, rinnegato, senza più presunzioni. Vi torniamo perché egli ci
offre una nuova opportunità: possiamo ricominciare. Sarà una sequela nuova. Con
la risurrezione Gesù non è più come prima, non lo si può più seguire lungo le
strade della Galilea e della Giudea. Ha superato le barriere del tempo e dello
spazio... Viva ormai in una dimensione diversa, quella dello Spirito, ed è ad
ognuno più intimo che mai: è in mezzo a noi e noi siamo lui.
Da Gerusalemme scendiamo lungo la via che attraversa il deserto di Giuda e
ci conduce fino a Gerico. Risaliamo costeggiando il Giordano, con alla nostra
sinistra i monti di Gelboe sui quali, dalla morte violenta morte di Saul e di
Gionata più non piove, come ha gridato David nella sua elegia: “O monti di
Gelboe, non più rugiada né pioggia su di voi / né campi di primizie”.
Il deserto e gli aridi monti hanno un fascino particolari; asciutti, nudi e
silenziosi, arsi dal sole richiamano il desiderio di Dio di apa Pafnunzio.
In Galilea cambio di scena. Il deserto lascia il posto a dolci colline, a
verdi orizzonti. Eccoci al lago. Sulle sue sponde la vicenda di Gesù e dei suoi
discepoli. La nostra visita è veloce, tocca appena Tiberiade, Magdala, il monte
delle beatitudini (dove teniamo la nostra ora di lezione...), Tabca della moltiplicazione dei pani, Cafarnao la città di
Gesù. Ma è soprattutto la roccia del primato di Pietro, dove Gesù apparve dopo
la sua resurrezione, che ci conquista. Come bambini scendiamo all’acqua del
lago, facciamo festa, ci sembra di rivedere gli apostoli che tornano stanchi
senza aver trovato pesce.
Pietro ci racconta, ancora una volta quel momento da sogno:
Ero qui per l’appuntamento che ci aveva dato tramite le
donne: “Il Maestro vi aspetta in Galilea”. Saremmo partiti da dove eravamo
partiti all’inizio e Lui ci avrebbe guidato ancora come quando ci guidava per
le vie di Galilea.
Questa volta l’avrei seguito. Non sarebbe accaduto come
quando mi ero posto davanti a Lui per impedirgli di raggiungere Gerusalemme.
“Perché andare in Giudea a morire? No, questo mai”, gli gridai. Gli volevo
troppo bene per non sentirmi responsabile di Lui. “No, Maestro, gli dissi
risoluto, tu non percorrerai questa strada di morte”.
Ora sapevo che sarebbe apparso, nella luce splendente del
Tabor, nella gloria che lo avvolgeva Risorto, e ci avrebbe indicato la via e si
sarebbe posto nuovamente alla nostra testa e lo avremmo seguito ovunque.
Chi era quell’uomo, là sulla roccia, sul bordo del lago, che
dava consiglio a noi pescatori? Contro il sole nascente non ne distinguevo il
volto. Doveva essere uno dei vecchi pescatori di Cafarnao, usi al mestiere.
Calammo le reti, come ci aveva gridato. E il pesce, latitante tutta la notte,
accorse a frotte. Lo sentivo da come tirava la rete.
“È il Signore”, sussurrò il più giovane. Il Signore? Piegato
sull’orlo della barca, per un attimo rimasi paralizzato a guardare l’acqua che
guizzava d’argento. Il Signore?
Ma avevo già mollato la presa, m’ero già tolto la veste,
m’ero già buttato in acqua verso di Lui, il Signore.
Era proprio Lui. Stava controluce, ma era proprio Lui. Lo
riconoscevo e non lo riconoscevo nei suoi lineamenti, ma era proprio Lui.
Ansimante, caddi in ginocchio
e lo guardai. Era proprio Lui.
– Pietro, mi ami?
– Ti amo, gli dissi con la passione di sempre.
– Mi ami più di tutti?
– Sì, Maestro, gli gridai con convinzione, mentre mi sentivo
il cuore in gola, e non era più per la corsa nell’acqua.
– Pietro, mi ami veramente?
La terza volta! Mi sentii schiantare il cuore. Il mio
tradimento, il mio triplice tradimento…
Ora soltanto, dal baratro del mio tradimento, potevo dire la
verità:
Solo un tocco dell’inizio di Hubertus:
“Per secoli, quando si parlava di mistica, nel senso di un’esperienza profonda e forte di Dio che si fa “sentire” e in un certo senso si “rivela” all’anima, si pensava ai santi mistici, persone speciali, in genere religiose o religiosi, consacrate a Dio che vivono ritirate dal mondo. Un fenomeno raro, accompagnato da manifestazioni speciali, come visioni, rapimenti, ecc.
“Per secoli, quando si parlava di mistica, nel senso di un’esperienza profonda e forte di Dio che si fa “sentire” e in un certo senso si “rivela” all’anima, si pensava ai santi mistici, persone speciali, in genere religiose o religiosi, consacrate a Dio che vivono ritirate dal mondo. Un fenomeno raro, accompagnato da manifestazioni speciali, come visioni, rapimenti, ecc.
Ai nostri tempi, invece, vengono in rilievo sempre più una
santità e una mistica del popolo, una mistica per tutti… Ad invitarci a questo, con decisione, ai
nostri giorni è in particolare Papa Francesco: «Abbiamo bisogno di riconoscere
la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che
scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze» (Evangelii
gaudium 71). Una mistica, quindi,
non degli occhi chiusi ma degli occhi aperti, che sa scoprire la presenza di
Dio nella città.
Chiara Lubich era un precursore di questa mistica di vivere
insieme, in un tempo in cui erano ancora pochi a porre al centro del
cristianesimo l’amore, la comunione e l’unità… La mistica esce dai conventi e
diventa una realtà alla portata di tutti: anche di chi lavora duramente, di chi
tiene la casa; di chi deve guidare una città o il destino di una nazione. Chiara,
infatti, sognava che la Chiesa tutta potesse sempre più diventare “un popolo di
mistici”, persone che fanno esperienza di Dio e che per questo portano una nuova
luce e una nuova vita, capace di affrontare i problemi dell’umanità; un popolo composto
di persone di ogni tipo, dai bambini ai vescovi, dalle persone consacrate a Dio
ai politici e agli imprenditori…”.
Poi è la volta di Judy e di Therese… e quando chiedono come
vivere nei conventi ecco fra Alessandro, e quando domandano di politica c’è
Alberto e quando chiedono della famiglia c’è Teresa e Gennaro… abbiamo proprio uomini
e donne per ogni stagione! Che bella squadra questa Scuola Abbà.
E Maria di Nazaret? A domani…
venerdì 26 agosto 2016
In Terra Santa / 11 - Un Dio incarnato
In nessun luogo come
qui in Terra Santa si comprende il realismo dell’Incarnazione. La salvezza ha
una storia e una geografia, che giungono a concentrarsi in una persona vera,
capace di piangere e di gioire, di stancarsi e di sedersi a tavola: Gesù, che va
su queste strade, che guarda questo cielo, che cammina sulle acque, che offre
le sue membra alla flagellazione e agli sputi, che muore e che risorge…
La visita al Museo d’Israele questa mattina ci ha
immersi in questa storia e in questa geografia che Dio ha preparato, come una
culla nella quale adagiare il Figlio suo e irradiare nel mondo la salvezza.
Il grande plastico
della città di Gerusalemme al tempo di Gesù ci galvanizza per un’ora intera, tanto
riesce a rievocare nei minimi particolari i luoghi dell’antichità che ormai ci
sono familiari.
La sezione dedicata ai
rotoli del Mar Morto è il fiore all’occhiello del museo. Si può scorrere
l’intero libro di Isaia, assieme ad altri manoscritti di Qumran. Un altro codice di straordinaria
importanza è il testo masoretico di Aleppo. Noto con stupore che tra i rotoli
di Qumran e il codice di Aleppo c’è un vuoto di 1000 anni: per un periodo di 1000
anni non è rimasto nessun manoscritto ebraico dell’Antico Testamento! Com’è
possibile che non si sia conservato niente? Il primo millennio, a cominciare
dal secondo secolo, è invece ricchissimo di papiri e codici del Nuovo
Testamento. Non posso non fare il confronto con la Chester Beatty
Library di Dublino o con la Vaticana, di
una ricchezza senza confronto. Mi piacerebbe approfondire il mistero di 1000
anni di silenzio delle fonti.
Nel pomeriggio vediamo
arrivare i membri dei cinque focolari della Terra Santa per vivere assieme a
noi una sessione di Scuola Abbà. Ripercorriamo le tappe di questi giorni per
riviverle assieme a loro, alla luce del ’49. È un momento di paradiso.
Domani lasceremo
Gerusalemme e saliremo in Galilea. Non possiamo partire dalla città santa senza
tornare un attimo sul Santo Sepolcro e senza uno sguardo a quell’antica scala romana che la tradizione vede percorrere da Gesù
mentre dal cenacolo scende al Cedron, per poi risalire all’orto degli ulivi. Sempre
secondo la tradizione scendendo quei gradini, “volgendo gli occhi al cielo”
carico di stelle, avrebbe pregato il Padre per l’unità.
È un luogo
particolarmente caro alla Scuola Abbà, perché Chiara vi ha visto come
materializzarsi il suo sogno d’unità. Ci rileggiamo quanto scrisse dopo essersi
seduta su quei gradini:
«Se hai l’avventura di portarti in Terra Santa, verso
primavera, fra le mille cose che Gerusalemme ti offre alla contemplazione e
alla meditazione, una ti colpisce nel modo singolare, per quanto ricorda nella
sua estrema semplicità.
Resistita al tempo e lavata dalle intemperie di duemila
anni, una lunga scala di pietra, puntualizzata qua e là di papaveri,
rosseggianti come il sangue della Passione, si spiega, quasi un nastro
increspato, discendente, limpida e solenne verso la valle del Cedron.
È rimasta nuda all’aperto, costeggiata da una cornice di
prato, quasi che nessuna volta di tempo potesse sostituire il cielo che
l’incorona.
Di là – la tradizione racconta – Gesù discese quell’ultima
sera, dopo la cena, quando, “alzati gli occhi al cielo” gonfio di stelle, ebbe a
pregare: “Padre, l’ora è venuta...”.
Fa impressione metter i propri piedi dove i piedi di un Dio
hanno toccato e tutta l’anima t’esce dagli occhi guardando la volta celeste che
occhi di un Dio hanno guardato. E tale può essere lì l’impressione che la meditazione
ti fissa in adorazione.
Fu una preghiera unica la Sua prima di morire. E quanto più
splende Dio questo “Figlio dell’uomo”, che tu adori, tanto più’ lo senti uomo e
t’innamora.
Il Suo è un discorso che solo il Padre comprese appieno,
eppure lo fece a voce dispiegata, forse perché anche a noi arrivasse l’eco di
tanta melodia”».
Poco tempo più tardi scriverà ancora: «Ricordo che lì,
presso quella scaletta, nel nostro cuore è nato un ardente desiderio; c’era un
praticello verde: edificarvi un focolare, mettervi delle anime che perennemente
per quanto vivono consacrino la loro vita a tenere Gesù vivo in mezzo a loro,
perché lui fosse ancora lì, spiritualmente presente come allora era fisicamente
presente».
Guardando i focolarini e le focolarine oggi presenti a
Gerusalemme e in Terra Santa, mi pare di poter dire che quel desiderio di è già
realizzato.
giovedì 25 agosto 2016
In Terra Santa / 10 - Al Santo Sepolcro, nel cuore del mistero
Sulla spianata delle moschee, dove una volta
sorgeva il tempio, il contrasto e le contese di questa terra appaiono più
stridenti che mai. È bastato un piccolo equivoco perché fossimo immediatamente
accompagnati all’uscita, con gentilezza e altrettanta determinazione. Gli
equilibri sono precari, le suscettibilità tese su un filo sottile.
Un’esperienza che ci
aiuta a percorrere meglio la Via
Dolorosa, con maggiore consapevolezza di quanto le nostre lacerazioni
lacerassero il cuore di Cristo nel suo cammino verso il Golgota con la croce
sulle spalle.
Prima di intraprendere
la via Crucis, la visita alla casa di sant’Anna e alla piscina probatica.
Giunti al Santo Sepolcro ci troviamo finalmente
nel cuore del mistero che ci accompagna lungo tutti questi giorni. Per entrare
nella piazza antistante passiamo attraverso le dimore poverissime degli
Abissini che, nella spartizione del luogo sacro tra le varie Chiesa, sono
rimasti esclusi, contentandosi, assieme agli Etiopi, di poveri cappelline che
si addossano alla grande basilica: è forse la più sincera testimonianza evangelica.
In paziente fila ci
incolonniamo per entrare nell’edicola
che sorge sul luogo della tomba di Gesù. È finalmente in restauro, dopo
trattative che durano da 70 anni! Si sarebbe potuto provvedere prima a quest’opera,
ma in disaccordo, suscitando così contese e rancori. È il miracolo di una convivenza
che testimonia comunque una certa vicinanza, di un paziente dialogo, di una
volontà d’unità.
Del tempo di Gesù,
dopo distruzioni su distruzioni, non rimane assolutamente niente. Rimane il luogo:
qui Gesù è stato sepolto, qui è risorto con il corpo, nella pienezza della sua
umanità e divinità, qui si è lasciato toccare da Maria di Magdala. Cos’altro
dire se non quel grido di fede di Tommaso: “Signore mio, Dio mio”? La fede in
una Persona viva, presente, che siamo chiamati ad accogliere in mezzo a noi, di
cui dobbiamo rendere testimonianza.
Saliamo poi sul Calvario. Quella roccia nuda parla
ancora. Come non ricordare, con la Scuola Abbà, quell’esperienza nota e
sempre commovente di Chiara quando venne come noi in Terra Santa?
«Entrammo; girammo qualche angolo della chiesa che non ricordo,
infilammo una scaletta stretta, stretta, lisa nel marmo dai milioni di pellegrini
che la salirono, e ci trovammo di fronte ad un altare. Un cicerone ci mostrò attraverso
un vetro, che custodiva una roccia, un buco, e disse : “In questo foro fu piantata
la croce”.
Inavvertitamente, senza dircelo,
ci trovammo tutti in ginocchio. Io, per conto mio, ebbi un momento di raccoglimento.
In quel foro fu piantata la croce… la
prima croce. Se non ci fosse stata questa prima croce la mia vita, la
vita di milioni di cristiani che seguono Gesù
portando la loro croce, i miei dolori, i dolori di milioni di cristiani, non avrebbero
avuto un nome, non avrebbe avuto un significato. Egli, che lì fu innalzato come
un malfattore, diede valore e ragione al mare di angoscia da cui è toccata e alle
volte sommersa l’umanità e, non di rado, ogni uomo.
Non dissi nulla a Gesù in quel momento. Aveva parlato quella
pietra forata. Solo aggiunsi, come un bambino estatico: “Qui, Gesù, voglio piantare
ancor una volta la mia croce, le nostre croci, le croci di quanti ti conoscono e
di quanti non ti conoscono”».
Tutta la Terra Santa
converge in questo luogo, come tutta la vita Gesù, secondo i Sinottici, non fu
che un cammino verso Gerusalemme; tutta la sua vita, secondo Giovanni, era
protesa a quell’“ora”. Un’unica basilica racchiude il luogo della morte e della
risurrezione, unico grande mistero che solo dà senso anche alla nostra vita.
Nel pomeriggio le
nostre strade si distinguono verso differenti mete, tra cui un incontro con gli
ebrei e la visita Yad Vashem. Assieme ad Alessandro e a Giovanna, andiamo
dalle Clarisse, per scoprire un
altro volto di Gerusalemme e della nostra Chiesa, quello orante e contemplativo.
Scopro che la nuova
abadessa mi conosce da quando era ancora ragazza in ricerca della sua strada. Tra
l’altro è anche lei una fan di padre Mario Borzaga! Le ore scorrono veloci
nella condivisione e nella gioia di riconoscerci fratelli e sorelle. Qui si conservano
anche importanti ricordi della prolungata presenza di Charles de Foucauld, di cui celebriamo il centenario della morte.
Proprio in questo monastero decise per una vita di clausura. Occorrerà fare
in modo che gli inediti custoditi in archivio vengano valorizzati, a cominciare
dai suoi disegni.
mercoledì 24 agosto 2016
In Terra Santa / 9 - Sul Monte degli Ulivi
Di
prima mattina scendiamo nella valle del Cedron e risaliamo dall’altra parte,
sul Monte degli Ulivi.
Alla sommità il luogo dell’Ascensione. Siamo i primi pellegrini (ce ne sono proprio pochi in questi giorni…). Il vasto spazio delimitato dalle mura ottagonali dell’antica chiesa crociata è tutto per noi. Entriamo nell’edicola al centro, proprio dove la tradizione indica il punto da dove Gesù è salito al cielo. Siamo in cerchio, come dovettero esserlo gli apostoli (oggi è la festa di uno di loro, Bartolomeo) e anche a noi verrebbe da rimanere lì. Non ci sono angeli attorno a noi a invitarci a scendere dal monte… o meglio, ce n’è uno, la nostra splendida guida, Alessandra, che svolge lo stesso compito degli angeli di allora.
Alla sommità il luogo dell’Ascensione. Siamo i primi pellegrini (ce ne sono proprio pochi in questi giorni…). Il vasto spazio delimitato dalle mura ottagonali dell’antica chiesa crociata è tutto per noi. Entriamo nell’edicola al centro, proprio dove la tradizione indica il punto da dove Gesù è salito al cielo. Siamo in cerchio, come dovettero esserlo gli apostoli (oggi è la festa di uno di loro, Bartolomeo) e anche a noi verrebbe da rimanere lì. Non ci sono angeli attorno a noi a invitarci a scendere dal monte… o meglio, ce n’è uno, la nostra splendida guida, Alessandra, che svolge lo stesso compito degli angeli di allora.
Iniziamo
la discesa, per giungere alla Chiesa
del Pater Noster, dove Gesù, rispondendo alla richiesta dei discepoli,
insegnò loro: “Quando pregate dite: Padre….”. Entriamo nella grotta dove Gesù e
gli apostoli erano soliti dimorare quando erano a Gerusalemme. Chissà quante
cose si sono detti in questa solitudine fresca e silenziosa. Per noi è uno dei
momenti più belli del nostro pellegrinaggio. Cantiamo il Padre nostro e ho
l’impressione di vedere Gesù che prende la mia mano destra e dall’altra parte
Maria che prende la mia sinistra, e insieme mi orientano verso il Padre. Posso
dire “Padre” con loro, e con gli altri miei fratelli e sorelle della Scuola
Abbà che sono accanto a me. Non a caso
ci chiamiamo Scuola “Abbà”: è la parola di Gesù, che fiorisce sulle labbra di
ogni cristiano. Gesù si pone accanto a noi e ci fa rivolgere dove lui è
rivolto, verso il Padre.
Il “Padre nostro”: preghiera trinitaria per eccellenza: possiamo
dire Padre soltanto se e perché siamo nel Figlio: figli nel Figlio. È Gesù che
in noi ripete Abbà, Padre: è lui che prega in noi. Possiamo dire Padre
soltanto se e perché lo Spirito mette il suo nome sulle nostre labbra, così
come lo mette sulle labbra stesse di Gesù. La preghiera del «Padre nostro» ci
rivela il circolo d’amore della Trinità e ci introduce in esso, rendendoci
partecipe della relazione d’amore tra i Tre.
Quando in silenzio preghiamo nella chiesa del Pater Noster è come se sperimentassimo l'unità che la preghiera rivolta all'unico Padre rinsaldasse tra noi i legami di fraternità.
Quando in silenzio preghiamo nella chiesa del Pater Noster è come se sperimentassimo l'unità che la preghiera rivolta all'unico Padre rinsaldasse tra noi i legami di fraternità.
Usciti dalla grotta giochiamo a trovare, tra le cento e
cento iscrizioni del Padre nostro che circondano le pareti del cortile, del
chiostro, della chiesa, quella nella nostra lingua, compreso il calabrese e il
sardo. Anch’io trovo la mia lingua “paterna”, il provenzale.
Scendiamo ancora, passando accanto all’antico cimitero ebraico dove sulle tombe, al posto dei fiori, sono depositati i sassi. Giungiamo al Dominus Flevit: Gesù, vedendo Gerusalemme, pianse perché sapeva che non lo avrebbe accolto. Avrebbe potuto tornare indietro, eppure scese verso di essa: doveva dare la vita proprio per quanti non lo avrebbero accolto!
Scendiamo ancora ed eccoci alla Tomba di Maria, nella grotta dove, secondo la tradizione, fu trasportato il corpo della Vergine dopo che si fu “addormentata”. Dall’Ascensione di Gesù all’Assunzione di Maria: sui passi di Gesù e di Maria!
È il momento più adatto per scendere fino alla tomba di
Maria: oggi a Gerusalemme la Chiesa ortodossa festeggia la sua Assunzione. Entriamo mentre la
sacra liturgia volge al termine, in tempo per baciare l’icona che il sacerdote
mostra al popolo. Poi un passaggio veloce davanti alla tomba, una pietra bucherellata
dai pellegrini che, lungo i secoli, hanno voluto asportare il loro piccolo
pezzettino di sasso…
La nostra discesa termina con un’altra grotta ancora, lì accanto, quella del Getsemani, dove Gesù si ritirava di notte con i suoi discepoli e dove ricevette il bacio traditore di Giuda. Infine la Basilica dell’Agonia, dove si ode ancora risuonare la stessa parola che Gesù ha insegnato a noi per la preghiera: “Padre”. Adesso è lui a pronunciarla in un momento tragico, nel quale rimane comunque l’affetto e la tenerezze di quella preghiera: “Padre”.
Tragedia e tenerezza: due dimensioni che sembrano contrastanti tra di loro; gli stessi sentimenti nostri davanti alla tragedia del terremoto in Italia di oggi, che seguiamo da lontano; gli stessi sentimenti davanti alle contraddizioni di questa terra di cui siamo testimoni in questi giorni.
Nel pomeriggio Betania.
Benché appena dietro il monto degli Ulivi, per raggiungerla dobbiamo fare un
grande giro. Il muro la divide infatti in due parti. La zona palestinese, che
custodisce i ricordi di Lazzaro e della sua famiglia, rimane tagliata fuori e la
città appare in un profonde degrado, che ci dà subito l’assaggio di un mondo in
profonda sofferenza.
Il primo evento evangelico che Betania ricorda è la
risurrezione di Lazzaro e la proclamazione di Gesù come Resurrezione e Vita. Vediamo
Gesù piangere sull’amico, come in mattinata lo abbiamo visto piangere su
Gerusalemme. Ci fa impressione questo Gesù così umano, così vicino a noi,
capace di piangere come noi e con noi…
Visitiamo la presunta tomba di Lazzaro attorniata dalle
imponenti rovine delle grandi costruzioni crociate, comprendenti chiesa e
monastero.
Il secondo evento di Betania è l’unzione che Maria fa di
Gesù, uno “spreco” di soldi a testimonianza d’un amore puro e gratuito.
Il terzo è quello su cui ci fermiamo a riflettere: l’accoglienza
riservata a Gesù dalle due sorelle. Abbiamo letto le parole così appropriate che
papa Francesco ha pronunciato in mese fa. Tra l’altro diceva:
«Nel suo affaccendarsi
e darsi da fare, Marta rischia di dimenticare la cosa più importante, cioè la
presenza dell’ospite, che era Gesù in questo caso. Si dimentica della presenza
dell’ospite. E l’ospite non va semplicemente servito, nutrito, accudito in ogni
maniera… Perché l’ospite va accolto come persona, con la sua storia, il suo
cuore ricco di sentimenti e di pensieri, così che possa sentirsi veramente in
famiglia. Ma se tu accogli un ospite a casa tua e continui a fare le cose, lo
fai sedere lì, muto lui e muto tu, è come se fosse di pietra: l’ospite di
pietra. No. L’ospite va ascoltato.
L’ospitalità… una
virtù che nel mondo di oggi rischia di essere trascurata. Infatti, si
moltiplicano le case di ricovero e gli ospizi, ma non sempre in questi ambienti
si pratica una reale ospitalità… Oggi siamo talmente presi, con frenesia, da
tanti problemi che manchiamo della capacità di ascolto… Tu, marito, hai tempo
per ascoltare tua moglie? E tu, donna, hai tempo per ascoltare tuo marito? Voi
genitori, avete tempo, tempo da “perdere”, per ascoltare i vostri figli? o i
vostri nonni, gli anziani? – “Ma i nonni dicono sempre le stesse cose, sono
noiosi…” – Ma hanno bisogno di essere ascoltati! Ascoltare. Vi chiedo di
imparare ad ascoltare e di dedicarvi più tempo. Nella capacità di ascolto c’è
la radice della pace».
Anche questa sera
terminiamo la giornata con un grande senso di pienezza.
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