Come scrive Kapuscinski, “a parte la
sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste… L’Africa è un
continente troppo grande per poterlo descrivere… È solo per semplificare e per
pura comodità che lo chiamiamo Africa”. È altrettanto vero che vi sono dei
tratti caratteristici comuni inconfondibili, che trovi in tanti paesi pur
diversi dell’Africa, come lo jubilo acuto che esplode dalle donne quando non
possono contenere la gioia o come la festa coinvolgente, l’ondeggiare al suo
dei tam tam, la sospensione del tempo, l’accoglienza incondizionata...
Ieri ho ritrovato tutte queste
componenti dell’anima africana nel quartiere “Congo”, e più particolarmente
nella parrocchia di Saint Justin.
Dopo aver lasciato la strada
principale il fuoristrada si arrampica a fatica su per una pista sassosa e
sabbiosa che si infossa tra crete rosse e vegetazione folta. Lungo la pista,
che serve anche da pubblica discarica, casupole, banchi per il solito
microscopico commercio, file di panni a stendere, ragazzini che si
riconcorrono. La miseria esplode, ma in una natura che esplode anch’essa e che
quasi l’avvolge materna e la rende vivibile. Dalla pista si diramano sentieri
che condurranno a tante altre casupole, baracche, costruzioni ingegnose con i
materiali più vari, e vi saranno altre donne che si pettinano tra loro i
cappelli in treccine dalle architetture fantasiose, e altri bambini che giocano
con un fuscello, e altri uomini seduti sotto un albero…
Arriviamo finalmente alla chiesa, al
sommo della collina. La pista si interrompe e i camminamenti continuano in
mille direzioni. Da lassù lo sguardo spazia lontano, tra il verde di manghi, banani, palme che nascondono centinaia di minuscole casette. “Siamo ancora a
Kinshasa?”, domando. Sì, siamo ancora a Kinshasa dai mille volti.
Ci attende padre Jean Bedel, con un
sorriso smagliante, ci introduce nella sua microscopica casa, ci mostra con
orgoglio la bella chiesa e fuori, nel piazzale antistante, la grotta di Lourdes
che sarà benedetta dal Vescovo. Non so trattenermi dal desiderio di fare subito
due passi tra le casupole, lasciandomi attorniare da nuvoli di ragazzini,
salutando gli anziani, chiedendo il prezzo della manioca e del mais alle mamme
che hanno le bacinelle piene di farina.
Vorrei rimanere lì, ma è presto
tempo di scendere a piedi fin sulla strada principale per attendere il Vescovo.
Scendono i chierichetti con croce e candele, le varie associazioni con le vesti
cucite della stessa stoffa con stampate immagini di madonne e di santi. Quando
il vescovo arriva, tra canti e preghiere parte la processione, che si ingrossa
sempre più a mano a man che sale verso la chiesa. Una volta giunti davanti alla
grotta di Lourdes è il delirio. Fischietti, grida, canti: una gioia
incontenibile.
Terminato il rito della benedizione
della grotta la chiesa si riempie, mentre tante persone devono rimanere fuori
sul piazzale. La messa, in lingala, è una festa nella festa. Le “gioiose”,
bambine attillate come delle principesse, con guanti e calzini bianchi, danzano
davanti all’altare. I canti sono coinvolgenti. Il dialogo tra il vescovo e il
popolo costante (si merita davvero la capra che gli viene portata come regalo
durante la messa). La partecipazione totale. Il tempo… si ferma. È un
continuum, che si prolunga nella cena comune, a casa di montone. Chissà che
impressione faranno loro le nostre liturgie quando emigrano nella nostra
Europa… Qualcuno insinua che queste partecipazioni massicce alla chiesa siano
espressione di una religiosità molto esteriore, rituale, senza interiorità. Può
essere. Tuttavia la preghiera mi sembra profondamente sincera.
Gli africani, anche i più poveri
come in questo quartiere poverissimo, hanno sempre un vestito bello per la
festa, e tutti sono vestiti a festa. La povertà è sparita in un baleno.
Si è fatta ormai notte fonda. Solo
allora, uscendo sulla pista, mi rendo conto che tutto il quartiere è senza
elettricità. Anche negli altri quartieri la corrente va e viene senza un
preciso programma, ma qui mancano proprio i fili. Per la chiesa c’è il
generatore elettrico. Prima di ripartire mi attende un gruppo di giovani e
ragazzotti. Hanno già smesso i vestiti di festa per i soliti cenci. Mi
raccontano di loro, dell’assoluta mancanza di lavoro. “Ma come vivete?”. La
risposta è sempre la stessa: “Ci arrangiamo”. Vuol dire, così mi raccontano,
che partono la mattina verso quartieri meno poveri, a zonzo, nella speranza che
qualcuno li chiami a pulire la casa, dia loro una camicia da lavare o da lavare,
un pacco da trasportare…
La festa se n’è già andata. È
tornata la dura ferialità.
Sulla strada del ritorno occhieggiano silenziosi rari lumini a petrolio sulle bancherelle addormentate.
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