Mentre si metteva in cammino verso di noi, Dio poneva nel
cuore umano la nostalgia del paradiso perduto, e più ancora la nostalgia di lui
stesso. Nella sua semantica la parola nostalgia richiama proprio il “paese”
perduto e le persone legate a quel luogo lontano, a cui vorremmo tornare e con
cui vorremmo di nuovo incontrarci (nòstos
= tornare a casa). È un rimpianto per una lontananza che fa male, che
addolora (àlgos) e che si vorrebbe
colmare per rivivere la gioia di prima. È il desiderio di tornare in patria, a
casa, nei luoghi cari dell’infanzia. È il paradiso, e Dio che vi inabita, il
luogo dell’infanzia felice dell’umanità, la patria, la casa dove vorremmo
tornare.
Desiderio di Dio acquista adesso una connotazione oggettiva: siamo noi a desiderarlo e a metterci in cammino per incontrarlo.
I salmi sono tra i poemi che più e meglio interpretano
questo profondo anelito umano: “Il mio cuore ripete il tuo invito: «Cercate il mio
volto!». / Il
tuo volto, Signore, io cerco. / Non nascondermi il tuo volto, / non
respingere con ira il tuo servo... / Mostrami, Signore, la tua via, / guidami
sul retto cammino…”
(27, 8-9.11).
Il
tema della ricerca prosegue con parole appassionate: “O Dio, tu sei il mio Dio,
/ dall'aurora io ti cerco, / di te ha sete l'anima mia, / desidera te la mia
carne, / in
terra arida, assetata, senz'acqua” (63, 2).
Non è un Dio anonimo quello che
vorremmo raggiungere, ma una persona viva, con la quale avviare un rapporto
intenso e diretto: è il “mio Dio”. Sembra di udire l’eco della sposa del Cantico dei Cantici: “Il mio amato è mio
e io sono sua” (2, 16). È una ricerca talmente
intensa e appassionata, che inizia fin di primo mattino: “dall’aurora io ti cerco” (Isaia si pone in cammino già
durante la notte: “Di notte anela a te l’anima mia, / al mattino dentro di me
il mio spirito ti cerca”, 26, 7). Non c’è tempo da perdere, è la prima e la più
urgente delle cose da fare, è questione di vita o di morte, come la ricerca dell’acqua da parte di un uomo sperduto
nel deserto: “ha sete l'anima mia”.
La
sete, bisogno primordiale ed elementare, diventa metafora eloquente e
ricorrente: “Come la cerva anela / ai corsi d’acqua, / così l’anima mia anela /
a te, o Dio. / L’anima mia ha sete di Dio, / del Dio vivente: / quando verrò e
vedrò / il volto di Dio?” (42, 2-3). Nella lingua originale ebraica “amag”, qui
tradotto con “anela”, esprime un sentimento ben più forte. È il grido, il lamento
lacerante che nasce da una arsura che brucia e consuma. La sete di Dio è ben
più ardente di quella di un uomo o di una cerva sperduti nel deserto: è
l’anelito all’incontro faccia a faccia: “quando verrò e vedrò / il volto di
Dio?”.
È
l’arsura provata da tutti i mistici. “Soffro, bricio di notte e di giorni; / di
te ho bisogno, solo di Dio”, mormora Yunus Emre, poeta musulmano vissuto tra il
1250 e il 1320; “e più si avvicina il giorno, / più aumenta la mia fiamma, il
desiderio di te”. Anche chi si professa non credente percepisce talvolta un
medesimo anelito, come confessa il poeta spagnolo José Luís Hidgo nella prima
metà del Novecento : “Io non so deve sei, però ti cerco, / nella notte ti cerco
e sogno l’anima” (I morti, 1947).
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