Il vescovo di Roma, perché così locale, appare più che mai globale, nel superamento della tensione tra globalizzazione e localizzazione di cui parla al n. 235, per evitare i due estremi: un universalismo astratto da una parte, un museo folkloristico dall’altra. Il rischio maggiore sembra quello di lasciarsi intrappolare nel particolare, fino ad essere «condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini». Ed ecco la felice conclusione: «Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia».
venerdì 31 gennaio 2014
Francesco, un papa “glocal” 3/3
Il vescovo di Roma, perché così locale, appare più che mai globale, nel superamento della tensione tra globalizzazione e localizzazione di cui parla al n. 235, per evitare i due estremi: un universalismo astratto da una parte, un museo folkloristico dall’altra. Il rischio maggiore sembra quello di lasciarsi intrappolare nel particolare, fino ad essere «condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini». Ed ecco la felice conclusione: «Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia».
giovedì 30 gennaio 2014
Francesco, un papa “glocal” 2/3
Ho
associato la parola “locale” a papa Francesco quando, dal primo istante della
sua elezione, ha voluto dare rilievo al fatto che gli veniva conferito un
compito d’ordine locale: era stato nominato vescovo di Roma.
Nello stessi tempo, quando
nella sua Esortazione apostolica riferisce il pensiero dei diversi episcopati,
il papa mostra di possedere uno sguardo e un interesse universali. L’affermazione
del suo essere vescovo di Roma e della volontà di decentralizzazione, che colloca
nuovamente al loro giusto posto gli episcopati locali, non contraddice la sua
vocazione universale. Perché vescovo di Roma è pastore della Chiesa universale.
Lo dice innanzitutto, anche se indirettamente, indirizzando la sua lettera a
tutti i vescovi, presbiteri e diaconi, persone consacrate e fedeli laici. Si
rivolge a tutta la Chiesa e a tutte le Chiese, mosso dalla sollecitudine
universale che gli è propria. Inoltre, se cita gli episcopati mondiali, molto
più cita i suoi predecessori, a cominciare da Paolo VI.
Proprio in questa Esortazione
c’è un passaggio nel quale afferma esplicitamente questa sua missione
“globale”, là dove invita a prestare attenzione e a essere vicini alle nuove
forme di povertà e di fragilità. In esse siamo chiamati a «riconoscere Cristo
sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e
immediati». Dopo aver enumerato varie povertà papa Francesco nomina i migranti
che, appunto in quanto tali, non sono più localizzabili in una Chiesa locale,
ma si ritrovano sbattuti da un Paese all’altro. Chi è il loro pastore? A questo
punto ne rivendica l’appartenenza e rivela il suo cuore paterno capace di
andare al di là delle frontiere: «I migranti mi pongono una particolare sfida
perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti»
(n. 210). Mentre scriveva queste righe avrà forse pensato alla sua visita a
Lampedusa, o all’esperienza della propria famiglia naturale? La sua paternità
qui si confonde con la maternità, che come tale abbraccia il mondo intero.
mercoledì 29 gennaio 2014
Francesco, un papa “glocal” 1/3
“Glocal”. Il neologismo
coniato dal sociologo Zygmunt Bauman mi è venuto alla mente leggendo l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. La glocalizzazione o il glocalismo, barbara traduzione italiana, tendono a comporre globalizzazione
e localizzazione come esigenze correlate della società contemporanea: tutelare
e valorizzare identità, tradizione e realtà locali nel più ampio orizzonte mondiale.
Ho
associato la parola “locale” a papa Francesco quando, dal primo istante della
sua elezione, ha voluto dare rilievo al fatto che gli veniva conferito un
compito d’ordine locale: era stato nominato vescovo di Roma. Tale si è subito dichiarato,
la sera stessa, dalla loggia vaticana, rivolgendosi alla folla radunata in
piazza san Pietro. Nel suo saluto ha volutamente omesso la parola “papa”, che
richiama la funzione universale del ministero petrino. Da allora, come vescovo
di Roma, nelle omelie e nei discorsi, ha continuato a usare esclusivamente la
lingua italiana, nonostante sappia parlare altre lingue, a cominciare da quella
materna, lo spagnolo. Tanti dei suoi
gesti concreti tendono a demitizzare una immagine troppo ieratica del papa.
Nell’Esortazione apostolica invita a non parlare «più del Papa che della Parola
di Dio» (n. 38), affermazione ovvia, ma non molto ricorrente.
Come tiene
a sottolineare che è vescovo di Roma, così papa Francesco mette sempre più in
luce la responsabilità e la corresponsabilità degli altri vescovi locali,
avvertendo, come afferma esplicitamente nell’Evangelii gaudium, «la
necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (n. 16). Si
tratta, a suo giudizio, di «una conversione del papato»: «A me spetta, come
Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del
mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese
dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione» (n. 32).
Nello stesso n. 32 ripete
la necessità di «una conversione pastorale» da parte del papato e delle strutture
centrali della Chiesa universale. Riferisce in proposito il pensiero del Concilio
Vaticano II che le Conferenze episcopali, in modo analogo alle antiche Chiese
patriarcali, «possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il
senso di collegialità si realizzi concretamente”». Ma questo auspicio «non si è
ancora pienamente realizzato, perché non si è esplicitato sufficientemente uno
statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di
attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale.
Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e
la sua dinamica missionaria».
Pochi numeri prima Francesco
aveva affermato: «Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali
nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro
territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare
“decentralizzazione”» (n. 16). Analogamente scrive che «Non è compito del Papa
offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea, ma esorto
tutte le comunità ad avere una “sempre vigile capacità di studiare i segni dei
tempi”» (n. 51).
Un ulteriore segno
rivelatore della sua volontà di collegialità sono le frequenti citazioni e i
riferimenti ai documenti dei vari episcopati che appaiono nella sua Esortazione.
Prima di tutto alla V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei
Caraibi e al Documento di Aparecida
del 31 maggio 2007; egli stesso ne aveva curato la redazione; ma anche al Documento di Puebla (23 marzo 1979).
Riferisce inoltre il pensiero delle Conferenze episcopali e delle loro commissioni
di studio degli Stati Uniti (n. 64, 220), Francia (n. 66, 205), Brasile (n. 191),
Filippine (n. 215), Congo (n. 232), India (n. 250), Argentina (n. 263). Anche
quando cita le esortazioni apostoliche post-sinodali pontificie, ha sempre cura
di ricordare che sono stati i vescovi a suggerire quella o quell’altra
affermazione, così per Ecclesia in
Oceania, in Africa, in Asia, in Medio Oriente, in Europa.
martedì 28 gennaio 2014
La prova dell’esistenza del Paradiso
Sto
leggendo la storia degli inizi degli Oblati, scritta nel 1871. Un breve
capitolo traccia la biografia di uno dei primi giovani che si unì al gruppo
iniziale e che, a causa della saluta fragile, rimase ad Aix per più di 40 anni.
Divenne il padre spirituale della città, molti andavano a chiedere consiglio da
lui, predicava nelle varie chiese della città…
Sono
stato in archivio a cercare le sue carte e ho trovato un blocco di quaderni con
note scritte a partire dal 1833, con una calligrafia bellissima e ordinata, su
tanti temi che erano oggetto delle sue conversazioni e omelie. Leggerle è
un’impresa perché la scrittura è piccola e sbiadita. Chissà quante cose belle
ci sono. Nessuno leggerà mai quei fogli… Eppure rivelerebbero una persona di
grande statura.
Così
ho capito che deve esistere il Paradiso. Altrimenti tanta umanità andrebbe
perduta per sempre. Il desiderio di conoscere in profondità p.Ippolito Courtès non può
essere disatteso, deve realizzarsi, il Paradiso deve esserci! In Paradiso non
ci saranno i suoi scritti, ma lui stesso, così come Dio lo ha pensato e voluto,
nella pienezza del suo disegno realizzato. E come lui tanti altri… Sarà un
Paradiso!
Come
anticipo di Paradiso gusto una briciola dei suoi pensieri:
“Se
non prega, il cuore si secca… Lo Spirito Santo è luce; è lui che dona i sensi
per gustare il divino. Occorre dunque ritirarsi nel nostro cuore per amare e
per pregare; là, ascoltiamo la parola di Dio e, dietro sua ispirazione, le
azioni saranno più sante, l’ascendente sui fratelli più decisivo”.
“Mio
Gesù, mia vita, mia luce, Verbo incarnato, posso ascoltarti senza credere in
te? Tu la perfezione ideale, tu che hai vissuto e sei morto come Dio fatto
uomo, ti abbraccio con tutte le forze della mia intelligenza, ti amo e ti
benedico con tutte le forze del mio cuore”lunedì 27 gennaio 2014
Eravamo liceali…
Fabio a sinistra, Oliviero a destra |
3
luglio 1968. Erano appena iniziati gli esami di maturità classica. Il fotografo
del giornale “Il lavoro”, poi incorporato nel quotidiano “La Repubblica”,
scattò una istantanea a me e ad alcuni miei compagni. Da allora non li ho più rivisti.
Dopo
quasi 50 anni ricompare improvvisamente uno di loro. Mi ha rintracciato tramite
il mio blog e mi ha mandato una e-mail con alcune foto di allora. Quasi non mi
riconosco in quel ragazzo liceale.
Scopro
così che Oliviero Arzuffi è docente di letteratura italiana e consulente
editoriale presso importanti realtà istituzionali, autore di numerosi testi
riguardanti tematiche sociali. Tra i più conosciuti: Emarginazione A-Z; Alla
ricerca dell'utopia; Oltre le sbarre; Poesia della vita. Oltre ai saggi di
natura sociale è autore di Armaghedon (trilogia drammatica) e di Escaton,
premio speciale della giuria a Stresa nel 1998.
La
sua ultima opera, recentissima, si intitola “Caro Papa Francesco. Lettera di un
divorziato”, Oltre edizioni, Sestri Levante 2013. In essa Oliviero, divorziato
risposato, utilizzando la formula confidenziale della «lettera aperta» si
rivolge, con tono rispettoso ma fermo, al Papa, invitandolo a rivedere la
disciplina tuttora vigente nella chiesa cattolica. Ne fa una interessante sintesi
il teologo moralista Giannino Piana sulla rivista “Rocca” del 15 Ottobre 2013.
Oliviero,
in pagine suggestive e coinvolgenti, delinea gli stati d’animo che hanno il
sopravvento in chi è andato soggetto a tale esperienza: dalla perdita
dell’autostima all’affiorare di pesanti sensi di colpa (accentuati dalla presenza
dei figli), dalla solitudine e dal disadattamento alla paura e alla trepidazione
con le quali si va incontro alla nuova scelta.
Facendo
riferimento alla propria esperienza diretta e rivendicando, nello stesso tempo,
il diritto-dovere del laico di far sentire la propria voce nella chiesa –
diritto-dovere ribadito peraltro con forza dai testi del Vaticano II –, si fa poi
interprete del profondo disagio che affligge i divorziati risposati e propone
una sua lettura dei testi evangelici nei quali distingue tra norma-precetto e
norma escatologico-profetica. La prima ha il carattere di norma chiusa, alla
quale occorre aderire incondizionatamente, senza alcuna limitazione; la seconda
è, invece, una norma aperta, che va opportunamente mediata di fronte a
situazioni particolari e che spinge costantemente l’uomo in avanti e lo
sollecita ad un impegno di permanente conversione.
Non
si tratta, certo, di rinunciare a ribadire con forza l’ideale verso il quale
ogni cristiano deve tendere mettendo in campo tutte le proprie energie; si tratta,
più semplicemente, di tenere in seria considerazione la complessità delle situazioni
umane, non sottovalutando il fatto che l’amore coniugale è una realtà fragile,
soggetta a molti condizionamenti, una realtà che va pertanto custodita con
grande cura; e che, a sua volta, la fedeltà non è un dato acquisito una volta per
tutte ma una conquista quotidiana.
Attendiamo
tutti con fiducia il prossimo sinodo sulla famiglia per vedere aprirsi nuove
prassi pastorali.
domenica 26 gennaio 2014
La comunità di Aix era veramente una famiglia
La stanza della prima comunità di Aix |
Oggi domenica, abbiamo avuto modo di festeggiare
il 198° anniversario dell’inizio della nostra comunità di Missionari Oblati di
Maria Immacolata, nata ad Aix-en-Provence il 25 gennaio 1826. Uno dei primi membri ci ha lasciato la sua testimonianza entusiasta:
“La
comunità di Aix era veramente una famiglia. Tutti vivevano della stessa vita, e
tutti i cuori si aprivano sotto i raggi di un medesimo sole. Essi erano come
riscaldati senza posa dall’affetto di un padre le cui attenzioni per tutti era
ciò che di più attraente si può immaginare… Il “Cor unum et anima una” che il
Fondatore raccomanda nelle Regole, come una delle caratteristiche della sua
Congregazione, era veramente il segno distintivo di questa piccola comunità che
cercava in mezzo a mille difficoltà esterne di gettare le sue prime radici per
elevarsi in seguito sino al punto in cui a Dio sarebbe piaciuto innalzarla…
Le firme dei primi cinque nel documento di fondazione, il 25 gennaio 1816 |
I
membri di questa piccola famiglia, stretti attorno al loro superiore, quasi
come i pulcini sotto le ali della chioccia, offrivano uno spettacolo commovente
per i legami di amore che unendoli al loro superiore li univa tra loro. Erano
proprio l’immagine dei primi cristiani così come ce li rappresentano gli Atti
degli Apostoli. Non c’era rivalità, né ricerca di se stesso, ne pregiudizi
verso gli altri, ma la gioia e quasi l’orgoglio dei successi di un fratello…
Era in piccolo la più perfetta comunione dei santi” (Jacques Jeancard, Mélanges historiques, p. 26‑29).
È
una visione idealizzata? Se lo fosse (al pare di quella della prima comunità
cristiana di Gerusalemme descritta da Luca negli Atti degli apostoli) vorrebbe
dire che questa non è la descrizione di come era veramente la comunità alle
origini, ma di come dovrebbe essere la comunità di sempre.
sabato 25 gennaio 2014
San Paolo che lega date diverse in misterioso legame
La "via dritta" di Damasco |
Nella casa di Anania dove Paolo fu battezzato |
25 gennaio 1947. La guerra
è terminata da un anno e mezzo. Diciottenne, Rosanna per la prima volta, accompagnata
dal fratello Olando, si reca in visita a quello che sarà il mio paese natale,
San Paolo. Vi si celebra la festa del santo patrono. L’occasione più adatta per
incontrare la famiglia del fidanzato e
pranzare nella sua casa.
È l’inizio di una vita
nuova.
Metà anni 30. Saulo di
Tarso è finalmente in vista di Damasco. La città dista da Gerusalemme 200
chilometri, meno che tra Roma e Firenze, ma ha impiegato ben otto giorni di
viaggio. Nonostante i dipinti del Caravaggio, si muoveva a piedi, non a
cavallo, prerogativa esclusiva della cavalleria militare. Una luce lo folgora e
una voce lo chiama: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”
La via regia vicino a Damasco |
È l’inizio di un cammino
nuovo per la Chiesa.
21 settembre 2008. A Damasco con 37 Vescovi appartenenti
alla Chiesa ortodossa, siro-ortodossa, Comunione anglicana, Chiesa metodista,
Chiese evangeliche luterane, Chiesa cattolica (rito latino, rito greco melkita, siro, rito
maronita). 13 Chiese, 16 nazioni, dall’Islanda all’Australia.
Il "patto" tra i vescovi |
Visitiamo la casa di Anania, le mura della città,
in particolare il luogo dal quale la tradizione vuole che Paolo sia stato
calato nella cesta. Infine, la chiesa della memoria di Paolo, alla periferia di
Damasco, dove, lungo un tratto dell’antica “via regia”, la tradizione indica il
luogo della conversione dell’Apostolo. Attorno alla “memoria” i vescovi
pronunciano un “patto d’unità”, con la promessa del costante amore reciproco
tra di loro. Una liturgia semplice e toccante: la lettura dell’inno alla carità
di Paolo in aramaico, greco, inglese, francese; la recita del credo Niceno-Costantinopolitano
nell’originale greco; la formula del “patto”, l’abbraccio fraterno. Attorno il
popolo che partecipa e applaude. È l’inizio di una nuova speranza, che oggi, al
termine della giornata di preghiera per l’unità dei cristiani non posso non
ricordare.
venerdì 24 gennaio 2014
Settimana dell'unità
Ieri sera sono stata alla preghiera ecumenica. Mi faceva una gran fatica
uscire dopo cena. Non ricordandomi dell'appuntamento avevo messo dentro al
cortile l'automobile e solo il pensiero di doverla ritirare fuori.... Cose
piccolissime che a volte ci bloccano. Apro il computer e leggo: “Se stasera
vieni passo a prenderti”. Rispondo subito di sì.
Quell'ora è stata molto bella come ogni anno. Questa volta i canti erano
eseguiti da ragazzi molto giovani di un coro misto cattolico evangelico, con
tanti strumenti; hanno unito tutta l'assemblea in una preghiera gioiosa. I
Pastori, il Vescovo e il Sacerdote ortodosso non potevano fare a meno di
muoversi al ritmo battendo le mani.
Purtroppo ci troviamo soltanto una volta all'anno ma almeno per questa
occasione non potevo mancare io che dico di voler dare la vita per l'Unità.
Una bella testimonianza,
giuntami a seguito del blog di ieri
giovedì 23 gennaio 2014
Madre dell’unità
La hall dell’hotel
Claret è gremita per la conferenza semestrale del Claretianum, tenuta questa
volta da Giacomo Perego, direttore editoriale della San Paolo. A seguito dell’Esortazione
apostolica di Papa Francesco, il tema è quello della gioia dell’evangelizzazione
nell’esperienza di Paolo.
Qquello che mi sono portato via da questa serata
di studio è soprattutto il casuale riferimento alla presenza di Maria nel
cenacolo dopo la risurrezione. Gli Atti degli apostoli descrivono i tre gruppi
che compongono quanti sono radunati nel cenacolo: i Dodici, le donne, i
fratelli di Gesù. Tre gruppi molto diversi tra loro, ognuno dei quali rivendicava
un particolare rapporto con Gesù: i Dodici d’essere stati tre anni con lui, le
donne di essere le più fedeli, i familiari l’appartenenza alla stessa famiglia.
Chi ha la capacità di tenere uniti fa unità questi tre gruppi? “Maria, la madre di Gesù”: è la
discepola per eccellenza, più dei Dodici, la più fedele tra le donne, che lo ha
seguito fin sotto la croce, colei che come nessun altro fa parte della sua
famiglia naturale. Da quel momento è Madre dell’unità.
Tocca a lei, anche oggi, fare unità tra le Chiese divise.
Tocca a lei, anche oggi, fare unità tra le Chiese divise.
mercoledì 22 gennaio 2014
L’infinito tutto di Vincenzo Pallotti
San Salvatore in onda. La denominazione
della chiesa, ricordata già nel 1127, richiama le continue inondazioni del
Tevere sulle cui rive è stata costruita. Basta scendere sotto il presbiterio,
attraverso la scala medievale, per ritrovarsi in un piccolo
ambiente con colonne, trabeazioni e capitelli incassati all’interno delle
murature: siamo nel luogo dell’antica chiesa del XII secolo. Ma sul pavimento
si apre una botola, si scende ancora più in basso, e ci si ritrova all’inizio
del primo millennio, ne periodo di Traiano (98-117), quando lungo le rive del
Tevere si allineavano negozi e piccoli magazzini per lo stoccaggio delle
derrate alimentari che giungevano in città grazie alle imbarcazioni che
risalivano il fiume. Anche oggi, scendendo per scale e botole, mi sono tuffato
nel passato.
Ma sono stato a san
Salvatore in onda perché volevo tuffarmi in un passato più recente, di appena duecento
anni (cosa sono duecento anni con due millenni sotto i piedi?). Oggi è la festa
di san Vincenzo Pallotti e non potevo non fare un salto a salutare lui e gli
amici Pallottini. Sono sì sceso nei sottosuoli, ma soprattutto sono salito
nelle stanze del santo, conservate come quando lui vi dimorava.
San Vincenzo
Pallotti, il “santo romano” per eccellenza.
Le parole del suo
dizionario che più mi colpiscono sono tutto e infinito.
Il tutto
di san Vincenzo è innanzitutto il tutto di Dio. «Dio mio, tutto tutto
tutto...», lo sentiamo ripetere sovente. È capace di continuare a scrivere e a
ripetere indefinitamente - lui vorrebbe che fosse infinitamente - la parola tutto, quasi a scandagliare la vastità
insondabile del mistero divino. Per sottolineare il tutto di Dio congiunge a tutto la parola solo: «Dio tutto, tutto, tutto...», ma anche «solo, solo, solo...»,
quasi ad eliminare ogni possibile concorrenza al tutto di Dio.
La santità di Vincenzo Pallotti è il
riconoscimento, nel vissuto, dell'unicità e della totalità di Dio.
Il tutto di Dio diventa
allora il tutto della creatura, in quanto essa viene resa partecipe di quel
tutto. La convinzione di questa osmosi è affermata da queste parole lapidarie:
«La vita del Padre è mia, la vita del Figlio è mia, la vita dello Spirito Santo
è mia, la vita della Santissima Trinità è mia». Pallotti appare costantemente
pervaso e quasi ossessionato da questa totalità.
La seconda parola, infinito, correlata a tutto, fa intravedere la dimensione
forse più originale della spiritualità di san Vincenzo. Parla di «infinita
perfezione», di «infinita fede, infinita speranza, infinita carità», «infinite
eternità»; vuol dare a Dio una «gloria infinitamente grande»; è disposto a
«patire infinitamente»; vuole vedere dilatati all'infinito i suoi desideri.
Somma passato e futuro
nell'illusione di dilatare il tempo all'infinito. Suddivide il tempo in attimi
infinitesimali per fare di ogni attimo infinitesimale un infinito, così che
dalla loro somma scaturisca un infinito degno dell'infinito di Dio. Vorrebbe
moltiplicare le creature all'infinito perché salga a Dio una lode infinita.
Vorrebbe appropriarsi di tutto il bene delle creature passate presenti e futuri
e moltiplicate all'infinito... «Vorrei amare Dio e averlo amato con perfezione
infinita, da tutta l'eternità e per tutta l'eternità. E intendo che ciascuna
creatura, infinitamente moltiplicata, con perfezione infinita, ami Dio. Vorrei
possedere infinite ricchezze, per donarle tutte, per amor di Dio».
martedì 21 gennaio 2014
Papa Francesco come Gesù
“Francesco
è il Papa dei poveri, degli ammalati, di coloro che hanno bisogno”.
Queste
parole di Michael Novak sul “Corriere della Sera” dicono, tra le righe, la
delusione di un intellettuale che vede il papa muoversi su una dimensione più pastorale
che magisteriale.
A
me invece, leggendole, mi è venuto da dire “Proprio come Gesù, venuto per i poveri,
egli ammalati, coloro che hanno bisogno”.
Come
se la pastorale di papa Francesco non fosse un grande magistero.
lunedì 20 gennaio 2014
Etty Hillesum parla ancora
"Ti
prometto una cosa, mio Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non
appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani… L’unica
cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti
è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio… Continuerò a lavorare per te e
a esserti fedele e non ti caccerò via dal io territorio”.
Quando una trentina d’anno fa uscì in italiano il diario di Etty Hillesum lo lessi d’un fiato. Oggi mi capitano sotto gli occhi queste sue note scritte il 12 luglio 1942. Parlano ancora.
Quando una trentina d’anno fa uscì in italiano il diario di Etty Hillesum lo lessi d’un fiato. Oggi mi capitano sotto gli occhi queste sue note scritte il 12 luglio 1942. Parlano ancora.
domenica 19 gennaio 2014
La gioia di san Gabriele dell’Addolorata
“La
mia vita è una continua gioia; la contentezza che provo dentro queste sacre
mura è quasi indicibile; le 24 ore della giornata mi sembrano 24 brevi istanti;
davvero la mia vita è piena di gioia”
Queste
parole scritte dal giovane Francesco alla famiglia sembrano contrastare
fortemente con il nome assunto entrando tra i passionisti: Gabriele dell’Addolorata.
Per
la prima volta ieri, tornando da Teramo, sono passato velocemente dal santuario
che custodisce le sue spoglie, ai piedi del Gran Sasso. Ho visto la cella nella
quale ha vissuto, il coro dell’antico convento, il santuario primitivo, con l’urna
del santo, il santuario nuovo, il salone con gli ex voto ricchi di ingenua e
intensa fede di migliaia di pellegrini.
I
picchi innevati scintillanti sotto i raggi del sole, il silenzio e la gran pace
che irradia l’ambiente, il cielo terso, mi hanno reso, per pochi attimi il
mondo bello e aspro nel quale Gabrielle a vissuto e si è fatto santo a 24 anni.
Lasciando
il santuario andiamo incontro al Gran Sasso che, come disse Giovanni Paolo II
visitando il santuario, “con la sua ardita impennata invita non solo a compiere
escursioni turistiche, ma anche ascensioni spirituali”.
sabato 18 gennaio 2014
Tommaso Sorgi: del popolo, non a nome del popolo
Aveva
31 anni quando, nel 1953, fu eletto Deputato della Repubblica. “Distanziai di
molto gli altri candidati perché durante i comizi – allora non c’era la
televisione – la gente aveva capito che non mi presentavo in nome del popolo,
ma era uno del popolo”.
Così
mi ha raccontato questa mattina Tommaso Sorgi (allora lo chiamavano Tommasino),
che sono andato a trovare nella sua casa a Teramo. Ha ormai la sua bella età, ma
è ancora piacevole conversare con lui, rimasto sempre semplice, di grande
dirittura morale, schivo, senza pretese. Il suo conversare sereno e profondo,
assieme all’imperturbabile sorriso, infondono pace nell’anima.
Dopo essere
stato rieletto per la quarta Legislatura, decise di non presentarsi alle
elezioni del 1973 perché la corruzione era ormai dilagante e non si riconosceva
più in quel mondo.
Da
quando nel 1980 fu istituito il Centro Igino Giordani ne è stato il direttore,
e ha lavorato con passione per far conoscere questo altro grande testimone del XX
secolo. “Sorgi conosce Giordani meglio di quanto Giordani conoscesse se stesso”,
mi ha spesso ripetuto Basilio Petrà. Fra pochi giorni uscirà il suo ultimo lavoro,
la grande biografia: “Igino Giordano, l’uomo che divenne Foco”.
Sul
comodino, accanto al letto, la cartella con i fogli su cui Tommaso sta lavorando: “La
maternità di Dio”. “Mi colpirono le parole di Giovanni Paolo I – racconta – quando
disse che Dio, oltre ad essere Padre, è anche Madre. Da allora ci ho pensato spesso
ed ora scrivo su questa realtà di Dio”. Lasciandolo mi è sembrato di scorgere anche in lui un tocco della maternità divina.
venerdì 17 gennaio 2014
Prisca, la prima santa romana
Giunto
a Corinto, nel settembre dell’anno 50, per prima cosa Paolo cercò un lavoro e
lo trovò nell’impresa di Aquila e Priscilla, una coppia di ebrei cristiani che
avevano dovuto lasciare la loro casa sull’Aventino a Roma. L’imperatore Claudio
nel 49 aveva emesso un editto di espulsione nei
confronti degli ebrei “insorgevano in continuazione istigati da un certo
Chrestos”, come scrive Svetonio. I due commercianti romani erano appena
arrivati a Corinto e già avevano attivato la loro azienda nella quale Paolo
poté esercitare il suo mestiere di tessitore di tende. Avevano portato con sé anche
la figlioletta Prisca? Stesso nome della madre, che Paolo amata chiamare col
diminutivo di Priscilla. Da Corinto accompagnarono l’Apostolo ad Efeso per
aiutarlo nella sua missione di evangelizzazione.
Pochi anni dopo, nel 54, dopo la morte di Claudio, li
ritroveremo di nuovo a Roma dove possono accogliere nuovamente l’Apostolo che
vi fa il suo ingresso da prigioniero.
Le fondamenta della loro casa romana ci sono ancora, sotto la chiesa che
porta il nome di santa Prisca e tradizione vuole che, prima della cacciata
dalla città nel 46, la famiglia fosse stata battezzata attorno all’anno 42 da
san Pietro (lo racconta anche il quadro sull'altare maggiore). La figlioletta, Prisca, aveva allora 13 anni. Gesù era morto da appena
9 anni.
La casa della coppia cristiana era diventata nel frattempo “chiesa
domestica”, uno dei primi luoghi dove si ritrovava la comunità cristiana. Già
ad Efeso avevano fatto della loro casa un centro di incontro, come scriveva
sempre Paolo agli amici lasciati a Corinto: “Le comunità dell’Asia vi
salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca con la comunità che si raduna nella loro
casa” (1 Cor
16,19).
Prima di arrivare a Roma, l’Apostolo scriveva ai cristiani della città
imperiale: “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Gesù Cristo, i
quali hanno esposto la loro testa per salvarmi la vita. Ad essi devo rendere
grazie non solo io, ma anche tutte le chiese dei gentili” (Rm 16, 3).
Prisca, la figlia di Priscilla e Aquila, sarebbe stata la prima martire
romana; la prima, come dice il suo stesso nome, Prisca; oppure il suo nome si
riferisce al “primo” frutto del lavoro missionario di Pietro a Roma. Sepolta
sulla via Ostiense, nelle catacombe di Priscilla, le più antiche di
Roma, quando il suo corpo fu
ritrovato venne trasportato nella sua vecchia casa, poi diventata chiesa a
tutti gli effetti.
Leggende, storie vere poi romanzate? In ogni caso questa coppia di laici
cristiani ha lasciato una testimonianza straordinaria di dedizione al Vangelo,
e la loro figlia, la giovane Prisca, si è conquistata il primato della
testimonianza del sangue.
Com’era
l’Aventino duemila anni fa? Uno dei più bei colli romani, immerso nel verde, un
po’ appartato dall’agitata vita cittadina. Lo divide dal Palatino la valle
nella quale si stende il Circo Massimo e più avanti le Terme di Caracalla. Da
una parte il colle dei palazzi imperiali – il Palatino, dall’altro quello dei
mercanti forestieri, arricchitisi con il commercio, primi fra tutti gli ebrei –
l’Aventino. Fu questa massiccia presenza di mercanti ebrei, favoriti nei loro mercati
dal porto sottostante sul Tevere e dal suo emporio, a fare di questo luogo il
centro del primo cristianesimo romano.
Se
vuoi correre devi andare in valle, tra il Circo Massimo e le Terme di
Caracalla. Ma se vuoi una passeggiata tranquilla, devi salire sul colle e anche
oggi, come duemila anni fa, ti ritrovi in un altro mondo: il giardino degli
aranci, le grandi basiliche silenziose di santa Sabina, di sant’Alessio, dei
Benedettini, il parco dei Cavalieri di Malta… e la chiesa di santa Prisca.
La
chiesa di oggi non ha più nulla dei primi secoli, completamente ristrutturata
in stile barocco. Basta tuttavia scendere negli scavi e pochi tocchi ricreano
il fascino misterioso degli inizi: il capitello usato da Pietro come fonte
battesimale (veramente è di molto più tardi, dell’epoca degli Antonini, ma va
bene lo stesso…), il bronzo con decreti onorifici (questo sembra sia davvero
della casa di Aquila e Priscilla!), qualche antica colonna… Ma vi scenderemo un’altra
volta e scopriremo anche il Mitreo di Roma meglio conservato. Eh sì, perché
queste piccole facciate di chiesette, alle quali non daresti due soldi, nascondono
tesori impensati.
Per
oggi, 18 gennaio, festa di santa Prisca, basta goderci la storia di questa
famiglia cristiana… e anche la passeggiata all’Aventino!giovedì 16 gennaio 2014
Il ricordo che mantiene vivi i morti
La
penultima volta che sono stato a Santa Maria a Vico, ho notato, nei lunghi
corridoi luminosi, un ritratto di padre Antonio Gentile. Mi è piaciuto
particolarmente e l’ho fotografato. Poi sono andato a cercare tra le mie vecchie foto e ne ho trovata una che gli avevo scattato tanti anni fa, proprio in uno
di quei corridoi dove ora è appeso il ritratto.
Ora
che anch’io mi sto facendo vecchio, mi ritrovo spesso a ricordare persone che
ho conosciuto. Mi fanno compagnia e ho come l’impressione che il loro ricordo le
renda ancora vive e presenti. Capisco come nei popoli antiche la memoria dei morti
fosse essenziale per consentire loro di continuare a vivere.
Questa sera ricordo padre Antonio Gentile ed egli, in ringraziamento del ricordo che ho di lui - perché tra cielo e terra c'è l'amore scambievole -, da fine letterato mi dona una sua poesia:
Questa sera ricordo padre Antonio Gentile ed egli, in ringraziamento del ricordo che ho di lui - perché tra cielo e terra c'è l'amore scambievole -, da fine letterato mi dona una sua poesia:
le
perle
dei
miei giorni
uguali
come
grani
d’un
rosario
luminosi
di
fede
segnati
da
speranza
ravvivati
dall’amore
in
attesa
del
fulgore
eterno.
Al
termine della poesia ha annotato un pensiero di sant’Agostino: “La tristezza è
il ricordo di me; la gioia è il ricordo di te, o Signore”.
mercoledì 15 gennaio 2014
martedì 14 gennaio 2014
Un viaggio tra Roma, Thailandia, Guatemala, Laos, Sri Lanka
Perché non sfogliare l’ultimo numero della rivista
Missioni OMI?
Tra l’altro si potrà trovare:
- Studiare la missione. Intervista alla professoressa Morali della
Pontificia Università Gregoriana di Roma
- Thailandia. Intervista a p. Claudio Bertuccio OMI
- Guatemala. Un giro al mercato con p. Pippo Mammana OMI
- Un racconto sul martirio di p. Mario Borzaga in Laos
- La mia solita “cartolina missionaria” dallo Sri Lanka
lunedì 13 gennaio 2014
Raddoppiato il numero dei cardinali oblati
Il Vescovo Quevedo è il secondo da sinistra |
Sì, perché ne avevamo uno, Francis George di Chicago, ed
ora eccone nominato un altro, Orlando B. Quevedo, Arcivescovo di Cotabato nelle
Filippine. Ci sono stati altri tre cardinali
oblati nella nostra storia: Guibert (Parigi), Villeneuve (Québec), Cooray (Colombo).
Ho incontrato mons. Quevedo nel sud delle
Filippine, dove ha avviato un dialogo a tutto campo con i musulmani, ha
lavorato molto per la pace, ha creato le comunità ecclesiali di base
sull’esempio dell’America Latina. Quando è a Roma passa da casa nostra e sta
con noi con la sua consueta semplicità. Insomma, un po’ alla papa Francesco.
domenica 12 gennaio 2014
Il raccoglimento di apa Pafnunzio
Ad
apa Pafnunzio piaceva la parola raccoglimento. Non aveva niente di intimista,
di ripiegamento su se stesso, anche se nella sua etimologia significava portare
di nuovo a sé in unità. Portare a sé, ma non per essere lui al centro, quando
piuttosto per permettere a pensieri, affetti, cose di trovare l’unità tra di
loro. Gli piaceva soprattutto questo richiamo all’unità insito nel termine. Tutto
il contrario della dispersione, dove le cose vanno ognuna per conto proprio,
perdendo il legame tra di loro.
A
volte, durante la preghiera o il lavoro, si accorgeva di essere distratto.
At-tratto da pensieri, ricordi, preoccupazioni si lasciava attirare di qua e di
là e si smarriva. Andava dietro le cose diventandone schiavo. Non era più
padrone di se stesso e si sentiva diviso, perdendo l’unità interiore. Il
contrario del raccoglimento era infatti la dissipazione, parola che significa
gettare via. Se il raccoglimento “raccoglie” le realtà con le quali si è in
contatto e le porta all’unità, la dissipazione le “disperde” ponendole in contrasto
tra di loro, alla disunità.
Aveva
allora escogitato una tecnica particolare. Quando durante la preghiera gli
tornava alla mente una persona conosciuta, non si lasciava attrarre da lei, e
quindi distrarre, ma la attirava a sé e la introduceva nella sua preghiera, la
raccoglieva nell'unità. Così quando sentiva l’ululato della volpe del deserto non
si turava le orecchie per non sentire, ma raccoglieva anche lei nella sua
preghiera, la introduceva nell’unità.
La
sua interiorità si arricchiva di giorno in giorno e si dilatava, introducendovi sempre nuovi volti, nuove espressioni della natura, il mondo intero con i suoi
problemi. Tutti voleva riportare all’unità, nell’Uno, dal quale
anche lui si lasciava attrarre.
sabato 11 gennaio 2014
Il suo il nostro battesimo
Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed
ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere
come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva:
«Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».
Il Vangelo di
Matteo, a differenza di Marco e Luca, riporta le parole del Padre in terza
persona.
Non
si rivolge a Gesù, ma a noi.
Ci invita a
riconoscere Gesù come Figlio di Dio,
ad accoglierlo, a lasciarlo penetrare nella
nostra vita,
così che egli possa annegare nelle acque del battesimo il nostro
“uomo vecchio”
e farci rinascere a vita nuova, creazione nuova.
Grazie al suo
battesimo anche nel nostro battesimo si aprono i cieli,
scende lo Spirito,
il Padre ci rende
figli suoi,
figli di
Dio con Gesù. venerdì 10 gennaio 2014
Fratel Vito col Passaporto in mano
“La
disciplina! Il silenzio! Ai tempi di padre Labouré…”. Era il ritornello di
fratel Vito, che si lamentava perché in casa c’era troppo chiasso (qualche
bisbiglio nei lunghi silenziosi corridoi!), che non c’era più il rigore dei bei
tempi di quanto padre Labouré era superiore generale (negli anni Trenta!).
“Erano
migliori quei tempi, vero?”, gli dicevo quando passava dal mio ufficio e si
fermava a conversare. E lui subito: “No no, sono meglio questi, anche senza il
silenzio e la disciplina. Adesso ci si vuole più bene”.
I
suoi tempi erano stati sofferti anche perché sussisteva la mentalità antica (non
proprio cristiana ma piuttosto retaggio di usanze feudali) della rigida
divisione tra i Padri e i Fratelli.
Ormai
anziano e ammalato passava la giornata recitando rosari e annaffiando i fiori
sui davanzali. Del passato conservava le buone tradizioni della puntualità,
della fedeltà regolare alla preghiera comunitaria, del senso del sacrificio.
Quando
ieri sono stato a trovarlo a Santa Maria a Vico, nel Casertano, dove da un anno
si era ritirato in infermeria, mi ha accolto con il solito sorriso degli occhi.
Ci ha lasciato per il Cielo 24 ore dopo. Come ogni Oblato si è presentato alle
porte del Paradiso con il Passaporto: “Sono un Oblato di Maria Immacolata”.
Sant’Eugenio diceva che bastava quello per entrare.
giovedì 9 gennaio 2014
Scripta manent
Nel
salone del Capitolo del Convento degli Oblati a Santa Maria a Vico è stata
allestita una mostra dal titolo: Verba
volant, che vuol far venire alla mente la realtà opposta: Scripta manent. Gli scritti rimasti e
che continuano ad essere raccolti nella biblioteca della comunità costituiscono
un patrimonio inestimabile: manoscritti, stampe del 1500, libri con disegni
preziosissimi, dalla letteratura alle scienze, dalla teologia al diritto. Secoli
di storia, di persone, di fatti, di idee rimangono fissati per sempre e
raccontano di vite vissute, di studi, di scoperte, di eventi memorabili e
comuni. Tutto un mondo è racchiuso sugli scaffali, desideroso di darsi a
conoscere.
Che
vite povere quelle che si appiattiscono sul presente e non hanno il gusto, la
curiosità, il desiderio di conoscere il vissuto delle generazioni passate.
Quanto c’è da imparare e da arricchirsi anche solo a prendere in mano quei
libri, a sfogliarli… parlano con la loro stessa presenza, con le rilegature, le
illustrazioni, i titoli, i nomi degli autori, aprendo a mondi ignoti o
riaccendendo la memoria di cose già note, ma che sprizzano di sempre nuova luce.
Vi
sono anche libri appartenuti a sant’Eugenio de Mazenod. Oggi, aprendoli, mi
hanno mostrato quello che lui ha visto, quello che lui ha letto, e mi sono sentito
trasportato nel suo universo interiore.
Tenere
di conto del passato: rende più bello e sicuro il presente.
mercoledì 8 gennaio 2014
La mano di san Giuseppe Moscati
Nella
chiesa del Gesù Nuovo a Napoli, mi sono soffermato davanti alla tomba di san Giuseppe
Moscati. Mi ha colpito vedere le persone andare a toccare la mano della sua statua,
diventata lucida e consunta, in segno di devozione e per impetrare una grazia.
Originario
di Benevento ha trascorso tutta la sua vita a Napoli, dove è morto il 12 aprile 1927.
È diventato il santo di Napoli.
Paolo VI lo ha definito:
-
Un Laico, che ha fatto della vita una missione...
-
Un Medico, che ha fatto della professione una palestra di apostolato, una
missione di carità…
-
Un Professore d’Università, che ha lasciato tra i suoi alunni una scia di
profonda ammirazione non solo per l’altissima dottrina, ma anche e specialmente
per l’esempio di dirittura morale, di limpidezza interiore, di dedizione
assoluta data dalla Cattedra!
-
Un Scienziato d’alta scuola, noto per i suoi contributi scientifici di livello
internazionale
Due
tra i suoi aforismi:
- Bellezza,
ogni incanto della vita passa... Resta solo eterno l'amore, causa di ogni opera
buona, che sopravvive a noi, che è speranza e religione, perché l'amore è Dio.
- Esercitiamoci
quotidianamente nella carità. Dio è carità. Chi sta nella carità sta in Dio e
Dio sta in lui. Non dimentichiamoci di fare ogni giorno, anzi in ogni momento,
offerta delle nostre azioni a Dio compiendo tutto per amore.martedì 7 gennaio 2014
Con Papa Francesco ancora novità
La rivista Time riconosce Francesco “Personaggio dell’anno” 2013. La banca
vaticana è regolata da nuove norme per una maggiore trasparenza e pubblica, per la
prima volta in 125 anni di storia, i numeri della sua attività, incassando
l’apprezzamento della Banca centrale europea. Due segnali positivi, tra i
molti, che mostrano la crescente fiducia verso i “vertici” della Chiesa.
Indubbiamente il “fenomeno Bergoglio” continuerà anche quest’anno a raccogliere
consensi.
La prospettiva per il futuro della Chiesa, aperta da papa Francesco, non va
tuttavia nella direzione di ricerca di attenzione o di convergenza verso il
centro, ma in direzione della periferia; non un’azione centripeta,
autoreferenziale, ma centrifuga, di “missione”. L’Evangelii gaudium appare programmatica al riguardo: «Avverto la
necessità – scrive il papa – di
procedere in una salutare “decentralizzazione”» (16), nella convinzione che
«un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa
e la sua dinamica missionaria» (32). Concretamente chiede una maggiore
assunzione da parte delle Conferenze episcopali delle dovute autonomie e della piena
responsabilità. La plenaria della CEI in gennaio è chiamata a scelte precise in
questa direzione.
La decentralizzazione auspicata da papa Francesco va ben al di là del mondo
ecclesiastico: investe l’intero popolo di Dio, a cominciare dalla «carne
sofferente di Cristo nel popolo» (24). La Chiesa è ormai irreversibilmente in
cammino verso un cambiamento di paradigma che la porta sempre più «in uscita»
tra la gente comune, a «mescolarsi» con essa, a «partecipare» alla «marea un
po’ caotica», fino a trasformarla «in una vera esperienza di fraternità, in una
carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (87). Riportare la gente ad
essere «autore principale, soggetto storico» di un processo di cambiamento della società e
non più «una classe, una frazione, un gruppo, un’élite. Non abbiamo
bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza
illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo» (239).
Non è populismo, è la riscoperta e la piena valorizzazione del popolo di Dio.
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