Una ventina di chilometri e sono sull’istmo artificiale che
collega la Sardegna all’isola di S. Antioco. La moderna strada affianca
l’antico ponte romano con le eleganti arcate in pietra. Pochi chilometri per un
salto di alcune centinaia di anni: dalla civiltà nuragica a quella
fenicia-punica.
Al moderno museo archeologico mi accoglie Daniela, appassionata
di storia e archeologia e guida appassionante. Curiosamente studia economia e
commercio. Da un particolare accende la fantasia dell’ascoltatore, riporta
indietro di 2700 anni, fa rivivere l’antico mondo dei Fenici e dei Punici che
qui hanno dato vita quella che allora era la più grande città del Mediterraneo:
Surky, la “città dei due porti”, diventata la Sulci dei romani e poi Sulcis dei
sardi che ha dato il nome a tutta la regione. Cartagine non era ancora stata
fondata e neppure Roma, allora un villaggio sannita di 800 abitanti. Sulky ne aveva 10.000.
Inizio la visita dal Tofet, la collina rocciosa sulla quale,
negli anfratti, venivano sepolti i bambini non nati o che morivano poco dopo il
parto: una necropoli tutta per loro, in un tempo in cui la mortalità infantile
raggiungeva il 70, 80 per cento delle nascite. Venivano bruciati in punto
preciso tra le rocce e i resti posti in piccole pignatte di terra cotta, adagiate
una accanto all’altra. Ogni tanto una stele votiva di pietra ringraziava la
divinità per aver confesso un altro figlio. Davanti alla collina si apre il
braccio di mare che divide l’isola di S. Antioco dalla Sardegna. Il declivio
scende verso est, nella sicura speranza che anche quei bambini avrebbero potuto
rinascere a vita nuove come il sorgere del sole.
In questo meriggio assolato i colori acquistano una nuova
intensità: i muschi rossastri delle pietre si accendono di ruggine, il blu del
mare diventa iridescente, il cielo si incupisce; l’orizzonte si distende verso
la pace della sera.
Più a nord, sotto l’odierna cittadina di S. Antioco, giace
la necropoli degli adulti che si estende per oltre un chilometro. Alcuni degli
ipogei punici sono stati abitati dalla popolazione più povera della regione
fino a 40 anni fa. Scavati nel morbido tufo, appaiono come vaste camere con
nicchie nelle quali si collocavano gli oggetti che sarebbero dovuto servire ai
morti per la loro vita d’oltretomba. Ne visito alcuni trasformati in dimore dei
vivi, imbiancati di calce, arredati in maniera essenziale; un caratteristico
quartiere che oggi acquista caratteri folcloristici, anche se non può
cancellare l’immagine di secoli di miseria.
Il museo Ferruccio Barreca, che raccoglie le testimonianze
dell’antichità di questa regione, dal tempo dei nuraghi fino all’epoca romana,
fa rivivere quelle civiltà e il loro culto per i morti: ceramiche, monili,
amuleti… Oggetti comuni e gioielli d’arte indicano gli stretti legami tra regno
dei vivi e dei morti. Inaugurato pochi anni, fa il museo si percorre con
crescente interesse e stupore; tutto vi è disposte con gusto, sobrietà ed
eleganza. Al centro i due leoni punici, un tempo a guardia delle porte della
città; datati intorno al VI sec. a.C., sono stati scoperti nel 1983.
Come per tante altre civiltà la testimonianza più eloquente è
quella legata al mondo dei morti; la città loro città, la necropoli, è più viva
di quella dei vivi.
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