25 aprile 1960. P. Mario Borzaga parte, assieme al catechista Paolo Thoj Xyooj, per la sua ultima missione… Così, ventidue anni più tardi, lo ricordava Mons. Alessandro Staccioli.
Conservo
per P. Mario, pur a distanza di tanti anni, una stima ed un affetto immutati.
Nel mio breviario ho la sua foto insieme a di Mons. Berti, di P. Zanoni e di P.
Natalino Sartor. È la foto che più di qualsiasi altra me lo ricorda come era da
vivo: fu scattata dal P. Zanoni sulla veranda della vecchia casa della Missione
a Luang-Prabang forse appena un anno prima della sua scomparsa. P. Mario è in
piedi con un sorriso composto, forse un po’ scettico sull’abilità del
fotografo, dato che P. Zanoni era famoso, almeno nei primi tempi, per sbagliare
le pose quando addirittura non si dimenticava di mettere il rullino nella
macchina...
È
la foto di un uomo sereno e tale ho conosciuto P. Mario in tutto il tempo della sua vita missionaria. In tutte
le cose s’impegnava a fondo preparandosi con una cura ed una tenacia notevole.
Del resto anche chi lo conobbe allo scolasticato sapeva che egli non perdeva
tempo e quello che doveva fare, dall’articolo per il S. Giorgio alla pulizia
delle camerate, era sempre fatto con il massimo impegno costasse quello che
costasse.
Nel
viaggio che facemmo in nave per arrivare al Laos l’esperienza del caldo fu
una delle più dure. Mano a mano che ci avvicinavamo a Singapore, nostro porto
di sbarco, ci si sentiva soffocare.
Sbarcati,
nei 4 giorni che rimanemmo a Singapore, si faceva la doccia anche 5 o 6 volte
al giorno e ci si domandava cosa sarebbe stato nel Laos. P. Mario soffriva il
caldo forse più di altri, abituato com'era al clima delle sue montagne, ma non
lo faceva apparire, anzi ci spingeva a uscire per visitare e vedere quello che
era possibile; e sentendo parlare la gente diceva: speriamo che la lingua
laotiana sia più facile!
Nello
studio della lingua dimostrò fin dall’inizio un grande desiderio d’impararla.
Dopo un mese sapeva già a memoria non meno di un migliaio di vocaboli e non
perdeva occasione per controllare quello che sapeva con i ragazzi del Seminario
di Palesane, dove, allora, ci trovavamo.
La
facilità di ritenere suoni e vocaboli indurrà il Vescovo a fargli studiare
anche la lingua Hmong appena un anno dopo il suo arrivo al Laos. Sarà proprio
il villaggio Hmong di Kiukatian, con una vasta area intorno, che sarà affidato
al suo ministero. Lì poté mostrare le sue qualità più belle: pazienza, tenacia,
comprensione, carità e tanta Fede.
Soffriva,
come del resto ogni missionario, della miseria e delle privazioni personali, ma
non pretendeva niente per sé; tutto era per la gente. Le pecore affidategli
non sempre erano docili e l’anima pagana rispuntava spesso, con un sacrificio
agli spiriti o con varie superstizioni, a deludere le sue speranze. Se ne
mostrava preoccupato, ma mai che dicesse, come a volte succedeva a noi: «questa
gente non è seria, non ci si combina niente di buono». Egli scusava oppure
taceva; e sembrava sentirsi responsabile lui, se gli altri non erano ancora
buoni cristiani. Il Catechista Shiong, che l’accompagnò nel viaggio da cui non
avrebbe fatto ritorno, era uno di quelli che l’avevano fatto tribolare di più
per il suo comportamento. Tuttavia lo prendeva più spesso con sé e lo aiutava
di più.
All’inizio
trovava qualche difficoltà a curare i malati: la vista del sangue specialmente
lo impressionava tanto da farlo star male. Ma era sempre pronto- quando lo
chiamavano e faceva anche giornate di cammino per curare un ammalato.
Specialmente i Hmong avevano come una psicosi della malattia e chiamavano
anche quando non ce n'era bisogno: più di una volta aveva fatto una giornata di
cammino per curare un ammalato che poi... trovava vivo e vegeto, in ottima
salute. La lezione non serviva e alla prossima occasione P. Mario ripartiva
ugualmente dicendo: «se poi fosse una malattia seria?».
Dopo
qualche tempo un po’ per la fame, un po’ per il caldo, un po’ per la stanchezza
si finiva tutti per dimagrire e diventare irritabili. P. Mario perse i suoi
bravi chili, ma non il sorriso e la gentilezza; nelle riunioni che facevamo
ogni tanto, non mancavano discussioni anche accese; quando, ad esempio, c’era
da dividersi i medicinali ognuno cercava di scegliere i migliori. Egli non
pretendeva mai niente e tuttavia curava i malati come tutti.
Era
ottimista anche sul futuro del Laos e forse proprio perché non dette peso alle
prime avvisaglie di tempesta, adesso non è qui con noi. Partì come al solito
per un’opera di carità; lo aspettammo per il ritiro mensile, ma aspettammo
invano. Non riuscivamo a rassegnarci di averlo perduto e per anni pensammo
che fosse ancora vivo, prigioniero da qualche parte, nelle mani dei Pathet Lao
o dei viet. Poi il tempo ci fece consci della realtà. Una realtà dolorosa dato
che dopo Mario altri otto missionari avrebbero continuato a piantare la Chiesa
del Laos con il proprio sangue.
La
gente che P. Mario ha battezzato c'è ancora e questo basta per poter apprezzare
il suo sacrificio e mantenere viva la speranza. Il suo corpo non sappiamo dove
sia sepolto, ma che
importa? Egli vive ancora nel cuore della sua gente e di tutti noi.
(“Missioni
OMI”, Aprile 1982, p. 29-30)
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