lunedì 24 aprile 2023

Un uomo sereno. P. Mario Borzaga nel ricordo di Mons. Staccioli

25 aprile 1960. P. Mario Borzaga parte, assieme al catechista Paolo Thoj Xyooj, per la sua ultima missione… Così, ventidue anni più tardi, lo ricordava Mons. Alessandro Staccioli. 

Conservo per P. Mario, pur a distanza di tanti anni, una stima ed un affetto immutati. Nel mio breviario ho la sua foto insieme a di Mons. Berti, di P. Zanoni e di P. Natalino Sartor. È la foto che più di qualsiasi altra me lo ricorda come era da vivo: fu scattata dal P. Zanoni sulla veranda della vecchia casa della Missione a Luang-Prabang forse appena un anno prima della sua scomparsa. P. Mario è in piedi con un sorriso composto, forse un po’ scettico sull’abilità del fotografo, dato che P. Zanoni era famoso, almeno nei primi tempi, per sbagliare le pose quando addirittura non si dimenticava di mettere il rullino nella macchina...

È la foto di un uomo sereno e tale ho conosciuto P. Mario in tutto il tempo della sua vita missionaria. In tutte le cose s’impegnava a fondo preparandosi con una cura ed una tenacia notevole. Del resto anche chi lo conobbe allo scolasticato sapeva che egli non perdeva tempo e quello che doveva fare, dall’articolo per il S. Giorgio alla pulizia delle camera­te, era sempre fatto con il massimo impegno costasse quello che costasse.

Nel viaggio che facemmo in na­ve per arrivare al Laos l’esperien­za del caldo fu una delle più dure. Mano a mano che ci avvicinava­mo a Singapore, nostro porto di sbarco, ci si sentiva soffocare.

Sbarcati, nei 4 giorni che ri­manemmo a Singapore, si faceva la doccia anche 5 o 6 volte al giorno e ci si domandava cosa sareb­be stato nel Laos. P. Mario sof­friva il caldo forse più di altri, abituato com'era al clima delle sue montagne, ma non lo faceva apparire, anzi ci spingeva a usci­re per visitare e vedere quello che era possibile; e sentendo parlare la gente diceva: speriamo che la lingua laotiana sia più facile!

Nello studio della lingua dimostrò fin dall’inizio un grande desi­derio d’impararla. Dopo un mese sapeva già a memoria non meno di un migliaio di vocaboli e non perdeva occasione per controllare quello che sapeva con i ragazzi del Seminario di Palesane, dove, al­lora, ci trovavamo.

La facilità di ritenere suoni e vocaboli indurrà il Vescovo a fargli studiare anche la lingua Hmong appena un anno dopo il suo arri­vo al Laos. Sarà proprio il villag­gio Hmong di Kiukatian, con una vasta area intorno, che sarà affidato al suo ministero. Lì poté mostrare le sue qualità più belle: pazienza, tenacia, comprensione, carità e tanta Fede.

Soffriva, come del resto ogni missionario, della miseria e delle privazioni personali, ma non pre­tendeva niente per sé; tutto era per la gente. Le pecore affidategli non sempre erano docili e l’anima pagana rispuntava spesso, con un sacrificio agli spiriti o con varie superstizioni, a deludere le sue speranze. Se ne mostrava preoccupato, ma mai che dicesse, come a volte succedeva a noi: «questa gente non è seria, non ci si combina niente di buono». Egli scusa­va oppure taceva; e sembrava sen­tirsi responsabile lui, se gli altri non erano ancora buoni cristiani. Il Catechista Shiong, che l’accom­pagnò nel viaggio da cui non avrebbe fatto ritorno, era uno di quelli che l’avevano fatto tribola­re di più per il suo comportamen­to. Tuttavia lo prendeva più spes­so con sé e lo aiutava di più.

All’inizio trovava qualche difficoltà a curare i malati: la vista del sangue specialmente lo impressio­nava tanto da farlo star male. Ma era sempre pronto- quando lo chia­mavano e faceva anche giornate di cammino per curare un ammala­to. Specialmente i Hmong aveva­no come una psicosi della malat­tia e chiamavano anche quando non ce n'era bisogno: più di una volta aveva fatto una giornata di cammino per curare un ammala­to che poi... trovava vivo e vegeto, in ottima salute. La lezione non serviva e alla prossima occasione P. Mario ripartiva ugualmente di­cendo: «se poi fosse una malattia seria?».

Dopo qualche tempo un po’ per la fame, un po’ per il caldo, un po’ per la stanchezza si finiva tutti per dimagrire e diventare irritabili. P. Mario perse i suoi bravi chili, ma non il sorriso e la gentilezza; nelle riunioni che faceva­mo ogni tanto, non mancavano discussioni anche accese; quando, ad esempio, c’era da dividersi i medicinali ognuno cercava di sce­gliere i migliori. Egli non pretendeva mai niente e tuttavia cura­va i malati come tutti.

Era ottimista anche sul futuro del Laos e forse proprio perché non dette peso alle prime avvisaglie di tempesta, adesso non è qui con noi. Partì come al soli­to per un’opera di carità; lo aspet­tammo per il ritiro mensile, ma aspettammo invano. Non riusciva­mo a rassegnarci di averlo perdu­to e per anni pensammo che fosse ancora vivo, prigioniero da qualche parte, nelle mani dei Pathet Lao o dei viet. Poi il tempo ci fece consci della realtà. Una realtà dolorosa dato che dopo Mario altri otto missionari avrebbero continuato a piantare la Chiesa del Laos con il proprio sangue.

La gente che P. Mario ha battezzato c'è ancora e questo basta per poter apprezzare il suo sacrificio e mantenere viva la speranza. Il suo corpo non sappiamo dove sia sepolto, ma che importa? Egli vive ancora nel cuore della sua gente e di tutti noi.

(“Missioni OMI”, Aprile 1982, p. 29-30)

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