Finalmente ho dato la mia conferenza sulla vecchiaia a un gruppo di
missionari anziani, bellissimi. Tra l’altro ho parlato di come vivere il
passato, il presente, il futuro.
La vecchiaia consente una presa di distanza dalla vita passata. Non un rifiuto del vissuto, ma una sua piena assunzione in una luce nuova. Quando avviene la perdita della memoria non sappiamo cosa accade dentro la mente e se il passato è ancora presente e come viene rielaborato, ma per chi ha ancora la memoria buona il passato può essere richiamato come oggetto di riconciliazione, di gratitudine, e può generare sapienza nel presente e speranza per il futuro.
È bello potersi voltare indietro, “fare memoria” del proprio
passato e vedere per intero il lungo percorso compiuto. Emergono gli sbagli, le
occasioni perdute, i peccati…, ed è il momento per chiedere perdono e per riconciliarsi
con se stessi. Si vedono le ingiustizie subite, ed è il momento per
riconciliarsi con tante persone, anche se già morte. Tornano alla mente le
tante persone incontrate dalle quale abbiamo ricevuto, ed è il momento di farne
memoria con gratitudine, di parlarne bene, di mantenerle vive dentro di noi…
Si tratta di dare continuità a una storia che ci precede, ci
attraversa, continua dopo di noi. Di fatto trasmettiamo alle nuove generazioni
anche e sempre ciò che abbiamo ricevuto da quelli che ci hanno preceduto e che
ci hanno generato, educato, fatto crescere e guidato in questo mondo. Ricordarsi
dei morti significa ricordarsi del debito che abbiamo con quelle persone, e
quindi dei nostri doveri verso il presente e il futuro.
La vecchiaia diventa il momento della narrazione, orale o scritta.
Quanti missionari, negli ultimi anni di vita, hanno scritto la loro biografia,
i ricordi della loro missione. È un modo per rendere grazie a Dio e per tramandare
la propria esperienza. Si può giungere a cogliere il filo d’oro dell’azione di
Dio, che ci ha accompagnato lungo la nostra vita e che ha saputo scrivere
diritto anche sulle nostre righe storte. La vita diventa un grazie perenne, pur
nelle eventuali prove o malattie.
Martini coniò in proposito una nuova beatitudine: «Beati coloro che
riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi
andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente a
confronto con quelli passati!».
Non abbiamo soltanto una memoria da tenere viva e verso la quale
mostrare perdono e gratitudine. Anche da vecchi abbiamo un presente da vivere.
Un presente come tempo dello Spirito.
Philip Roth in Everyman fa dire a un
anziano pittore queste parole: «Quando sei giovane, è l’esterno del corpo che
conta, l’aspetto che hai esternamente. Quando invecchi, ciò che conta è quello
che c’è dentro, e la gente smette di badare all’aspetto che hai».
È importante saper dare qualità al proprio tempo, anche quando il
tempo sembra non passare mai perché le attività e gli incontri si
assottigliano. Lo sguardo sapiente e pacificato sulla propria vita e sulle cose
del mondo, il ritorno a ciò che è più caro, alla parte davvero preziosa della proprio
persona e della propria storia, può offrire l’opportunità di reinventarsi o
almeno di dare un senso sempre più profondo al presente…
Paul Ricoeur offre una preziosa indicazione al riguardo: per
combattere la noia che può far parte della vecchiaia, bisogna «essere attenti e
aperti a tutto ciò che succede di nuovo. Restare capaci di quella che Cartesio
chiamava l’ammirazione. Questa è per me
la saggezza dell’età senile. Spero di esserne capace finché Dio me ne darà la
forza».
Conosco una persona di oltre 90 anni che ogni giorno legge con
interesse e attenzione il giornale per continuare ad amare il mondo e a pregare
per tutte le sue necessità.
Si potrebbero rileggere con calma il Vangelo, le vite dei santi, i
libri di spiritualità, ma anche i classici della letteratura, lasciando che
riaffiorino le cose più belle che abbiamo imparato, senza smettere mai di
imparare. Nella vecchiaia c’è tutto il tempo per coltivare la vita interiore,
intesa non come ripiegamento su se stessi, neppure come rifiuto del mondo
esterno e degli altri. Si tratta piuttosto di aprirsi all’esterno, al mondo e
agli altri, con la luce che viene da dentro, con lo sguardo stesso di Dio.
“Amare” può essere una parola superficiale o impegnativa, a seconda
di come la si pronuncia. Forse è l’opera più importante del vecchio. Suor
Emmanuelle, dopo aver speso la sua vita per aiutare i poveri delle baraccopoli
del Cairo, alla richiesta di inviare un messaggio agli anziani, risponde: “Dica
loro che la missione della persona anziana è amare. Perché, vede, io, dalla mia
poltrona, non posso fare più nulla di concreto, però, posso ancora, sorridere,
ascoltare, diffondere amore tramite la mia presenza. Gli slanci del mio cuore
sono intatti. Il cuore può non invecchiare, se lo vogliamo o meglio, se
continuiamo ad amare. Semmai bisogna togliere le foglie della tristezza e dell’amarezza,
che spesso si addensano nel tempo della vecchiaia. Bisogna assolutamente
rompere questa scorza di tristezza, immergersi nelle profondità del lago, nelle
profondità del cuore. Si deve attingere il coraggio di andare in fondo a se
stessi”.
Infine il futuro. Saggezza è quella di Giovanni Battista che
di fronte alla “novità” di Gesù, che lui stesso aveva preparato, ha il
coraggio, l’umiltà e la lungimiranza di dire: «Lui deve crescere; io, invece,
diminuire» (Gv 3, 30).
Saggezza è saper riconosce il valore dell’esistenza giovanile,
anzi, amare i giovani e aiutarli, non con volontà di dominio, ma con il
desiderio che la vita continui in maniera sempre nuova e creativa. È ciò che
Erik Erikson chiamava “generatività”: l’anziano si prende cura delle
generazioni successive.
La saggezza e la sapienza che maturano con la lettura del lungo
cammino percorso, assieme all’esercizio costante della preghiera, affinano
l’amore per le generazioni che ci seguono. A loro dobbiamo lasciare spazio,
senza gelosie o invidie. C’è chi vuole mantenere, a denti stretti, fino
all’ultimo, il comando e le redini di un’azione, di una comunità, di una
missione. Non accetta di passare il testimone, di “mettersi da parte”, di lasciare
il posto ad altri, al nuovo che deve nascere.
Certamente fa soffrire vedere che non sempre si segue il cammino
che abbiamo tracciato per tanti anni. Si lasciano tradizioni che ci sono
familiari, modi di fare e di pregare che ci danno sicurezza. A volte sembra che
crolli tutto un mondo che abbiamo costruito con tanti sacrifici. Viene la
tentazione del confronto con il passato: “Ai miei tempi…”. Saggezza è incoraggiare,
dare fiducia, infondere speranza, sostenere con la propria preghiera e, se
opportuno, con il proprio consiglio.
Il vecchio, con passare degli anni, si fa consapevole che una
generazione è legata all’altra, nella continuità della storia. Egli non vive
per se stesso, ma per le nuove generazioni. «Amo la stirpe dei secoli venturi –
scriveva F. Hölderlin –. Questa è la mia più beata speranza, la fede che mi
mantiene forte e attivo… Il più sacro scopo dei miei desideri e della mia
attività è quello di suscitare nella nostra epoca i germogli che matureranno
nel futuro». Per i giovani e gli adulti l’anziano può essere visto come un peso
che rallenta la corsa della vita. Per l’anziano le nuove generazioni possono
essere viste come competitive, antagoniste. Occorre una alleanza tra
generazioni, come invita costantemente papa Francesco.
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