giovedì 20 aprile 2023

Ma come sei giovane! - dicono al vecchio

Quand’è che si comincia ad avere “una certa età”? (Come se le altre età non fossero tutte una certa età…). Personalmente credo che sia cominciata quando mi sentii dire: “Ma come sei giovane!”. Quand’ero giovane non me lo dicevano.

Sulla vecchiaia c’è tutta una retorica stucchevole: l’età della saggezza, della pace interiore, della riconciliazione con la vita… E avanti con: “Che bell’età, proprio non la dimostri! Come sembri giovane!”

Norberto Bobbio scriveva: «Non condivido una sempre più diffusa e invadente, non so se più patetica o ingannevole, retorica della vecchiaia, che si risolve spesso in una forma larvata, ma non meno reale, di captatio benevolentiae, come quando l’accrescimento del numero dei vecchi viene preso in considerazione o sfruttato sotto l’aspetto dell’aumento del numero di eventuali consumatori, per cui vengono inventati sempre nuovi spot pubblicitari dove il vecchio, naturalmente sorridente, benportante, lieto di vivere, è un uomo corteggiatissimo protagonista della società dei consumi, come portatore di bisogni diversi da quelli dell’infante, dell’adolescente, dell’adulto, e in quanto tale portatore di nuove domande di merci, benvenuto collaboratore dell’argomento del mercato. In una società dove tutto è mercato, anche la vecchiaia può diventare una merce come tutte le altre. Mi riferisco, come avete capito, alla retorica del “vecchio è bello”. No, il vecchio non è sempre bello, anzi è quasi sempre più brutto che bello. Il tempo della vecchiaia si prolunga. Ma lasciate dire a me, che vivo in mezzo ai vecchi, cioè ai miei coetanei, che la malattia non è sempre felice».

Si vuole una vita lunga ma si ha paura di invecchiare e qualche volta quando si è diventati vecchi non si sa che farsene della vecchiaia. Il mito rimane quello dell’età giovanile, la più bella, piena di vita, di speranze...

La paura di invecchiare è antica quanto l’umanità. Nella sua Storia della vecchiaia Georges Minois riporta le parole del primo vecchio che parla di sé come tale. È uno scriba egizio vissuto 4.500 anni fa, le cui parole sono un grido di sconforto. Si chiamava Ptah-Hotep, visir del faraone Tzezi, della V dinastia: «Com’è penosa la fine del vecchio! S’indebolisce un po’ per giorno; gli si abbassa la vista, gli orecchi diventano sordi; la forza declina; il cuore non ha più riposo; la bocca diventa silenziosa; non parla più. Le sue facoltà intellettuali diminuiscono e gli diventa impossibile ricordare oggi ciò che è accaduto ieri. Tutte le ossa dolgono. Tutte le occupazioni a cui ci si dedicava prima con piacere diventano faticose, e quel che avevano di piacevole sparisce. La vecchiaia è il peggiore malanno che possa affliggere un uomo». Come non ricordare Qoèlet (12, 1-8)?

Peter Laslett enumera quattordici forme di paura legate all’invecchiamento, dalla paura della morte a quella dell’Alzheimer, dalla paura della solitudine a quella della dipendenza. Atul Gawande, medico chirurgo statunitense di origine indiana che ha passato anni accanto ai malati gravi, nota, proprio a seguito di una lunga esperienza: «Non è la morte che le persone anziane mi dicono di temere. È quel che precede: perdere l’udito, la memoria, gli amici più cari, le abitudini di vita […]. La vecchiaia è una serie ininterrotta di perdite». 

Ci si scopre dipendenti mentre prima si era in forze, ci si scopre soli mentre prima si stava in mezzo agli altri, ci si scopre deboli, malati e senza più ruolo sociale… Progressivamente ci si rende conto che la propria vita non ha più valore, utilità sociale, rilevanza affettiva. I vecchi non solo non producono, ma sono di peso, costano e dunque suscitano istintivamente una reazione di ostilità che giunge fino alla tentazione di scartarli.

Solitudine, isolamento, inutilità, debilitazione. Sono caratteristiche che dobbiamo guardare in faccia, senza nasconderle, e che dobbiamo saper affrontare. Spesso non se ne ha il coraggio e per esorcizzare questi timori si mettono in atto mille tattiche, che Romano Guardini sintetizza innanzitutto in un “materialismo senile”, «che porta a privilegiare soltanto ciò che è tangibile: il mangiare e il bere, la poltrona comoda, il conto in banca». Descrive poi la “psicologia senile”, «fatta di testardaggine, di smania di mettersi in luce, di volontà tirannica; e questo per convincere se stessi di valere ancora e di essere ancora qualcuno. A questa psicologia appartiene l’atteggiamento di quei vecchi e anziani che, per partito preso, invidiano i giovani, non accettano senza risentimento le novità che la storia produce e impone, manifestano uno spirito acremente critico, quando non una gioia maligna, nei confronti dei difetti e degli insuccessi dei giovani e del tempo presente».

Forse la prima cosa a cui è chiamato il vecchio è accettare la propria vecchiaia, con tutto ciò che essa comporta. La non accettazione provoca rabbia, acredine, malcontento, critica spietata. Oppure porta ad atteggiarsi a giovani, rendendosi ridicoli.

«All’opposto – scrive ancora Guardini –, quanto è cara la figura del vecchio da cui traspare la sua coscienza dell’eterno! Non è l’eternità di chi, diventato vecchio, pensa di sopravvivere nei figli o nella patria o nel partito politico o nella cultura che ha servito in vita. Chi intende così l’eternità mostra, in realtà, di scambiarla con una sorta di continuità in senso biologico o culturale o cosmico, con qualcosa che infine è pur sempre contingente e non eterno. Possiede invece veramente l’eterno soltanto chi, accettando e non nascondendo la sua caducità, riesce a vedere che la vita ha un significato che trascende la vita e coglie l’assoluto nella caducità che sempre assedia la vita umana».

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