Quand’è che si comincia ad
avere “una certa età”? (Come se le altre età non fossero tutte una certa età…).
Personalmente credo che sia cominciata quando mi sentii dire: “Ma come sei
giovane!”. Quand’ero giovane non me lo dicevano.
Sulla vecchiaia c’è tutta
una retorica stucchevole: l’età della saggezza, della pace interiore, della
riconciliazione con la vita… E avanti con: “Che bell’età, proprio non la dimostri! Come
sembri giovane!”
Norberto Bobbio scriveva: «Non
condivido una sempre più diffusa e invadente, non so se più patetica o
ingannevole, retorica della vecchiaia, che si risolve spesso in una forma
larvata, ma non meno reale, di captatio benevolentiae, come quando l’accrescimento del numero dei vecchi
viene preso in considerazione o sfruttato sotto l’aspetto dell’aumento del
numero di eventuali consumatori, per cui vengono inventati sempre nuovi spot
pubblicitari dove il vecchio, naturalmente sorridente, benportante, lieto di
vivere, è un uomo corteggiatissimo protagonista della società dei consumi, come
portatore di bisogni diversi da quelli dell’infante, dell’adolescente, dell’adulto,
e in quanto tale portatore di nuove domande di merci, benvenuto collaboratore
dell’argomento del mercato. In una società dove tutto è mercato, anche la
vecchiaia può diventare una merce come tutte le altre. Mi riferisco, come avete
capito, alla retorica del “vecchio è bello”. No, il vecchio non è sempre bello,
anzi è quasi sempre più brutto che bello. Il tempo della vecchiaia si prolunga.
Ma lasciate dire a me, che vivo in mezzo ai vecchi, cioè ai miei coetanei, che
la malattia non è sempre felice».
Si vuole una vita lunga ma
si ha paura di invecchiare e qualche volta quando si è diventati vecchi non si
sa che farsene della vecchiaia. Il mito rimane quello dell’età giovanile, la
più bella, piena di vita, di speranze...
La paura di invecchiare è
antica quanto l’umanità. Nella sua Storia della vecchiaia Georges Minois riporta le parole del primo vecchio che
parla di sé come tale. È uno scriba egizio vissuto 4.500 anni fa, le cui parole
sono un grido di sconforto. Si chiamava Ptah-Hotep, visir del faraone Tzezi,
della V dinastia: «Com’è penosa la fine del vecchio! S’indebolisce un po’ per
giorno; gli si abbassa la vista, gli orecchi diventano sordi; la forza declina;
il cuore non ha più riposo; la bocca diventa silenziosa; non parla più. Le sue
facoltà intellettuali diminuiscono e gli diventa impossibile ricordare oggi ciò
che è accaduto ieri. Tutte le ossa dolgono. Tutte le occupazioni a cui ci si dedicava
prima con piacere diventano faticose, e quel che avevano di piacevole sparisce.
La vecchiaia è il peggiore malanno che possa affliggere un uomo». Come non ricordare Qoèlet (12,
1-8)?
Peter Laslett enumera
quattordici forme di paura legate all’invecchiamento, dalla paura della morte a
quella dell’Alzheimer, dalla paura della solitudine a quella della dipendenza. Atul
Gawande, medico chirurgo statunitense di origine indiana che ha passato anni
accanto ai malati gravi, nota, proprio a seguito di una lunga esperienza: «Non
è la morte che le persone anziane mi dicono di temere. È quel che precede:
perdere l’udito, la memoria, gli amici più cari, le abitudini di vita […]. La
vecchiaia è una serie ininterrotta di perdite».
Ci si scopre dipendenti
mentre prima si era in forze, ci si scopre soli mentre prima si stava in mezzo
agli altri, ci si scopre deboli, malati e senza più ruolo sociale… Progressivamente
ci si rende conto che la propria vita non ha più valore, utilità sociale,
rilevanza affettiva. I vecchi non solo non producono, ma sono di peso, costano
e dunque suscitano istintivamente una reazione di ostilità che giunge fino alla
tentazione di scartarli.
Solitudine, isolamento, inutilità, debilitazione. Sono caratteristiche che dobbiamo guardare in faccia, senza nasconderle, e che dobbiamo saper affrontare. Spesso non se ne ha il coraggio e per esorcizzare questi timori si mettono in atto mille tattiche, che Romano Guardini sintetizza innanzitutto in un “materialismo senile”, «che porta a privilegiare soltanto ciò che è tangibile: il mangiare e il bere, la poltrona comoda, il conto in banca». Descrive poi la “psicologia senile”, «fatta di testardaggine, di smania di mettersi in luce, di volontà tirannica; e questo per convincere se stessi di valere ancora e di essere ancora qualcuno. A questa psicologia appartiene l’atteggiamento di quei vecchi e anziani che, per partito preso, invidiano i giovani, non accettano senza risentimento le novità che la storia produce e impone, manifestano uno spirito acremente critico, quando non una gioia maligna, nei confronti dei difetti e degli insuccessi dei giovani e del tempo presente».
Forse la prima cosa a cui è
chiamato il vecchio è accettare la propria vecchiaia, con tutto ciò che essa
comporta. La non accettazione provoca rabbia, acredine, malcontento, critica
spietata. Oppure porta ad atteggiarsi a giovani, rendendosi ridicoli.
«All’opposto – scrive ancora Guardini –, quanto è cara la figura del vecchio da cui traspare la sua coscienza dell’eterno! Non è l’eternità di chi, diventato vecchio, pensa di sopravvivere nei figli o nella patria o nel partito politico o nella cultura che ha servito in vita. Chi intende così l’eternità mostra, in realtà, di scambiarla con una sorta di continuità in senso biologico o culturale o cosmico, con qualcosa che infine è pur sempre contingente e non eterno. Possiede invece veramente l’eterno soltanto chi, accettando e non nascondendo la sua caducità, riesce a vedere che la vita ha un significato che trascende la vita e coglie l’assoluto nella caducità che sempre assedia la vita umana».
Nessun commento:
Posta un commento