La guerra di questi giorni mi fa tornare alla mente i tanti incontri avuti in Ucraina tanti anni fa… Eccone uno:
Dioghena, quando era ancora una ragazzina, non conosceva
niente del cristianesimo, ma aveva una grande inespressa sete di Dio. Al pranzo
di una festa di matrimonio si trovò accanto una donna anziana che la conquistò
con la sua semplice fede: era una suora che viveva in clandestinità. Dioghena,
che non aveva mai immaginato l’esistenza delle suore, cominciò a frequentare
l’anziana signora, aprendosi su orizzonti completamente nuovi. La polizia
diffidò la ragazza dall’incontrare la vecchia, donna reazionaria, pericolo per
lo stato. Tanto più che Dioghena, capo di una associazione di studenti di
medicina, una leader, non poteva permettersi di uscire dall’ortodossia
marxista. Ma la vita di Dio che le si schiudeva davanti era troppo bella perché
lei si lasciasse intimidire. Nella sua apparente fragilità si stava rivelando
una persona di una forza straordinaria. Finché arrivarono le minacce e gli
interrogatori. Ne ricorda uno in particolare, con quattro uomini, in un
ambiente tetro e con una scenografia costruita ad arte per intimidirla. Uno dei
quattro martellava sulla religione, e lei: “Ho avuto il massimo dei voti
all’esame di etica marxista”. E lui: “Ma tu credi in Dio?”. “Non potevo
rispondere di no – mi racconta –, avrei tradito il mio Dio, che già cominciavo
a conoscere e ad amare. Non potevo rispondere di sì, mi avrebbero radiata dall’università.
Così cominciai a rispondere con immediatezza alle domande incrociate degli
altri, ribellandomi quando entravano nella mia vita privata con richieste del
tipo, perché non ti sposi? Con abilità insperata riuscii ad evadere tutte le
domande su Dio”. Alla fine furono loro a crollare invece di lei. Riuscì a
diventare suora, clandestina, senza che neppure i familiari lo sapessero.
Riuscì a lavorare in ospedale e ad insegnare. Fino al giorno in cui, grazie al
vento della perestrojka, si presentò all’università con il vestito da suora;
l’aveva messo in valigia al ritorno da un suo viaggio in Occidente. Nessuno
fece una piega, né colleghi né studenti. Prima che con l’abito il suo ideale
l’aveva già detto con la vita.
Mi ha fatto da traduttrice durante un corso che ho dato
nel 2000 a L’viv. Terminato il corso, ha voluto farmi conoscere il suo ambiente
di lavoro. O meglio, alcune delle molte istituzioni dove insegna bioetica. Cominciamo
dalla facoltà di medicina. Entra con disinvoltura, saluta con affabilità,
scavalca con un sorriso le segretarie e mi introduce direttamente negli uffici.
Mi fa parlare con il decano, con l’amministratore, con alcuni colleghi… Mi
porta nel suo ufficio, quindi nell’appartamento che l’università le ha messo a
disposizione, straboccante di libri e carte, infine nella residenza degli
studenti. Ovunque arriva è come se nei grigi ambienti accademici entrasse un
soffio d’aria fresca, un raggio di luce. Nello svolgere il suo umile lavoro di
traduttrice l’avevo vista sempre riservatissima, timida, quasi impacciata. Ora,
guardando come si muove nel suo mondo, mi sembra un’altra. Semplice, spigliata,
libera, determinata. Non mi dà tempo per il pranzo, fattore trascurabile ai
suoi occhi. Ed eccoci all’Accademia statale, centro di studi superiori che
serviva al Partito per formare i quadri. Oggi, dopo la caduta del comunismo, vi
si preparano i dirigenti della pubblica amministrazione e della diplomazia. Gli
uffici sono chiusi, ma i vigilantes non ce la possono contro l’inerme, ingenua
e disarmante professoressa. Il direttore dell’Accademia si presenta
immediatamente, rinunciando, presumo, alla siesta. Mi spiega il piano di studi
soffermandosi sul problema principale: “Prima c’era una ideologia che animava
un progetto di società. Ora, dopo la caduta del comunismo, siamo nel vuoto più
assoluto. Costruire uno stato, ma con quali valori? per quale società? Per
questo contiamo tantissimo sulla presenza e sull’insegnamento di suor Dioghena,
l’unica che comunica dei valori”. Suor Dioghena si schermisce appena, senza
scomporsi più di tanto.
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