lunedì 18 gennaio 2021

Tra gli zulu del Sudafrica


Anche col Covid, chi ci impedisce di viaggiare?... almeno con i ricordi! Ed ecco quanto ho pubblicato su Città Nuova

Lungo la strada mi lascio attrarre dai tetti di paglia compatta che spuntano tra l’erba alta, un piccolo villaggio zulu perduto nella savana. Lasciamo la macchina e ci inoltriamo a piedi. Davanti alla prima casa una bella signora intenta a stendere i panni. Sylvester, che mi accompagna, le spiega che vengo da Roma. Mi accoglie sorridente e mi introduce nel villaggio. Case di fango costruite e rifinite alla perfezione, con graffiti di linee geometriche sulle pareti. Donne e bambini si fanno attorno. Non scorgo nessun uomo, forse sono a lavorare nei campi. Vedono la piccola croce che porto al collo mi chiedono una benedizione. Il villaggio segue la Chiesa africana indipendente, una delle più potenti in Sud Africa, un cristianesimo che convive con le credenze tradizionali. Hanno profondo rispetto per i cattolici e mi sorprende il senso dell’accoglienza.

«Si catturano più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto – mi ricorda il vecchio missionario col quale ho intrapreso il viaggio –. Bisogna anzitutto conquistarsi il cuore di questa gente. Non si può ottenere nulla se non si conquista il loro cuore. Se riesci a farti amare, hai conquistato la persona che avvicini». Mentre ripartiamo, rivolgendosi a lui, che le donne del villaggio gli gridano: «Portaci sempre nel tuo tarì», la sciarpa di lana o la pelliccia di antilope con cui le mamme assicurano il bambino dietro le spalle. Vedono il mio vecchio missionario più come una madre che come un padre! Additandolo, dicono ancora, sottovoce: «Parla con Dio, vede Dio; ma certo non vuol dirlo. Quando prega è come se mangiasse miele. Se la preghiera fosse pane, ce la farebbe mangiare tutti i giorni».

Partiti da Durban, presto avevamo lasciato l’autostrada per costeggiare il Royal Natal Park. Proseguiamo inoltrandoci in mezzo al grande anfiteatro di montane che si fanno sempre più vicine. Saliamo al passo, 1700 metri, e ci fermiamo per guardare in dietro, da lassù, il Kwazulu, la terra degli zulu.

Il vecchio missionario che mi accompagna si confida con semplicità: «Gli Zulu sono duri e fieri, ma non mi sono mai scoraggiato. Sono contento di stare con loro. Ho sempre continuato a visitare i malati nelle capanne, a salutare tutti, a parlare con tutti, a interessarmi di tutto: il linguaggio della carità è molto più convincente del linguaggio delle labbra: va dritto al cuore».

Lasciamo la provincia del Kwazulu-Natal per entrare nel Free State. Il paesaggio cambia rapidamente. Viaggiamo su un altipiano di 2000 metri, con laghi vicini e picchi lontani. Il luogo ideale – una volta – per gazzelle, antilopi, zebre, leoni. Adesso scorgo soltanto un branco i babbuini che, immobili lungo il ciglio della strada, guardano indifferenti le rare auto che passano. In alto volteggiano le aquile.

Incontriamo piccoli rari villaggi di qualche centinaio di minuscole case costruite recentemente dal governo in sostituzione delle baracche che si ammassavano in maniera caotica senza infrastrutture. Seguiamo lungo la strada che si inoltra verso Sterkfontein Dam Nature Riserve. Lo scenario inizia a cambiare nuovamente: sempre meno boschi sempre più savana, pascoli, alberi spinosi. All’orizzonte si delinea un altro vasto anfiteatro di montagne. Sulla sinistra i picchi oltre i 3000 metri che proteggono il piccolo stato del Lesotho.

Siamo ormai nel Golden Gate Highlands National Park. Sempre nuove montagne, nuovi picchi, nuovi scenari che lasciano senza fiato. È ormai notte quando giungiamo a Bloemfontein.

Ripartiamo per Kimberly. La savana si fa sempre più selvaggia, sempre più bella, più solitaria, animata da animali di cui non conosco i nomi, difficili da avvicinare o anche solo da fotografare perché fuggono velocissimi. Soltanto un branco di antilopi si ferma un attimo, per poi sparire tra gli alberi. Una famiglia di roditori attraversa la strada. Branchi di struzzi pascolano tra l’erba alta.

Kimberley. Sono giunto nel centro geografico del Sud Africa attraversando scenari paesaggistici diversissime. A Durban ho ascoltato la lingua zulu, a Bloemfontein l’afrikaans, il sesutho e naturalmente l’inglese, qui a Kimberley il setswana… Una ricchezza di natura e di lingue che rispecchia la ricchezza umana e culturale di un grande Paese come il Sud Africa.

Il mio vecchio missionario non guarda i paesaggi, ma le rare persone che incontriamo per strada, e continua il suo mantra: «Al di là di tutti i metodi il segreto per toccare e trasformare i cuori è l’amore. Il cuore aiuta la parola. Occorre amare, amare nonostante tutto e sempre. Mi chiamano in un villaggio, in un altro… Non devo domandare chi mi chiama, perché tutti hanno diritto di chiamarmi. Dobbiamo accogliere tutti, sempre, bene».

Il mio vecchio missionario… È stato una guida speciale e un compagno dell’anima in questo viaggio. Aveva 23 anni quando nel 1853 arrivò in Sud Africa. Vi rimase 63 anni, senza mai tornare in Francia. Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato il 15 settembre 1988: p. Giuseppe Gérard, Oblato di Maria Immacolata, padre di questa nazione.

 


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