Delhi,
dicembre 2006. Era la prima volta che entravo in un tempio sikh, un mondo che m’era
completamente sconosciuto. Rimasi colpito dalla devozione, dall’accoglienza
sincera che mi fu riservata…
Vastissimo l’ambiente sul quale sorgeva il tempio. Tutto in marmo bianco. Una grande piscina attorniata da un porticato per i bagni di purificazione, con una zona riservata alle donne. All’interno del tempio il grande Granth, il libro sacro, circondato da venerazione e rispetto, con incenso e gesti rituali. Tre uomini, accompagnandosi con gli strumenti, cantano il testo sacro, un canto che prosegue ininterrotto giorno e notte. La gente si prostra, offre fiori, poi si siede per terra, sui tappeti per ascoltare le parole del libro e meditare.
All’uscita un pugno di cibo, come segno di partecipazione e di ringraziamento. Più lontano una grande tettoia dove si cucina il cibo ventiquattro ore su ventiquattro e dove tutti i pellegrini possono mangiare insieme alle stesse tavole, rompendo ogni distinzione di casta. Mi fermo a guardare le donne che impastano la farina, le donne e gli uomini che preparano le focacce che cuociono sulle piastre, altri rigirano le lenticchie che cuociono in grandi pentoloni di rame. Mi invitano a far saltare sulle piastre i chiapati – il pane tipico – e a rimestare le pentole con un enorme ramaiolo… Tante delle persone che lavorano sono volontari, e per un momento lo sono stato anch’io…Pochi giorni prima, a Mombai, ero stato nella villa del dottor Somaiya. Una decina di guardiani, altrettanti camerieri, opere d’arte a non finire, con tutte le divinità possibili e immaginabili…
Dopo il ricevimento mi porta ai piani superiori, nelle sale segrete che compongono il tempio familiare. Ancora opere d’arte, ma soprattutto il grande reliquiario con la Bhagavadgita, la scrittura sacra per eccellenza degli Indù.
Potrei
continuare con i ricordi, e rivedo il Tipitaka dei monaci Buddhisti della Thailandia, il Saddharma Pundarika (il Sutra del Loto) e il Sukhavati–vyuha dei Buddhisti del Giappone... oppure il rispetto
che ho visto per il Corano in Pakistan…
Mi basta chiudere gli occhi e rivedo amici delle più varie religioni con in mano i loro libri. Sento ancora la cantilena dolce di Uppadhyaya e della moglie che mi cantano la Bhagavadgita…
Il
professor Ashok Vohra, del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Delhi, mi
raccontava che, come ogni devoto, dedica mezz’ora, tre quarti d’ora al giorno
alla lettura della Bhagavadgita. Ne legge un capitolo, a volte appena una
frase, quanto basta per nutrire la sua giornata. «La lettura della Scrittura – mi
spiegava – è fondamentale per la mia vita. Mi ricorda costantemente il volere
di Dio e mi pone davanti ai grandi valori della vita. So perché vivo e perché
muoio. È come se ogni volta i testi acquistassero una nuova giovinezza. È il
contesto sempre diverso del mio vivere che dà significati sempre nuovi alla
Scrittura e nello stesso tempo la Scrittura dà luce agli avvenimenti di ogni
giorno».
III domenica dell’anno: Papa Francesco l’ha dichiarata “Giornata della Parola di Dio”. Potremmo fare a gara con i nostri amici delle altre religioni nella passione per il nostro testo sacro, il Vangelo. Per noi la Parola di Dio è una persona, Gesù, che nel racconto di questa domenica, ci invita a seguirlo, per stare con lui per sempre e condividere con tutti quello che egli ci rivela.
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