sabato 29 febbraio 2020

La tentazione della forza


“Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo” (Mt 4, 1-11)

Le tentazioni di Gesù aprono il tempo della Quaresima.
Tre tentazioni diverse, ma un’unica proposta, quella di salvare il mondo imponendosi, con la forza, conquistando il potere.
È la strada che il diavolo vorrebbe far percorrere a Gesù.
La strada di Gesù è un’altra.
Gesù non cambia le pietre in pani: sulla croce ha sete, ma non compie il miracolo di far sgorgare acqua dalla roccia.
Gesù è re, ma la sua regalità è proclamata da una scritta appesa alla croce sulla quale è inchiodato.
Gesù è invitato a gettarsi dal pinnacolo del tempio compiendo il miracolo di non sfracellarsi così che tutti credano in lui: sulla croce potrebbe scendere dal patibolo, come gli chiedono, ma non fa il miracolo.
Per conquistare il mondo Gesù ha scelto la via della croce, della debolezza, dell’impotenza.

La tentazione si ripete. Ci ritroviamo piccoli, in pochi, fragili, mai all’altezza delle sfide che ci circondano. Allora anche noi siamo tentati di pensare una Chiesa forte, potente, organizzata; di pensare le nostre comunità efficienti. È il diavolo che ce lo suggerisce.

Anche a noi, come a Paolo, Dio suggerisce qualcosa di diverso: «la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza». Come Paolo anche noi dovremmo ripetere: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12, 9-10). 
La nostra via è quella percorsa da Gesù.




venerdì 28 febbraio 2020

Mondo antico





Ieri nel Mugello ho ritrovato un mondo antico
d’una bellezza commovente…

giovedì 27 febbraio 2020

I soliti raccomandati



“Madonna dei raccomandati”. Un titolo abbastanza insolito per una Madonna. Per questo, con un termine più comune, viene chiamata anche “Madonna della misericordia”.
È una tavola dipinta da Lippo Lemmi agli inizi del 1300. L’immagine è ricorrente nel medioevo: Maria che accoglie sotto il manto i fedeli. Anche se non ne ha ancora il titolo, è già rappresentata come Madre della Chiesa. In questa tavola è più evidente ancora, perché è rappresentata incinta, quasi a dire che è Madre della Chiesa proprio perché Madre di Cristo.
“Madonna dei raccomandati”. Il titolo le viene dal fatto che il quadro era stato commissionato dalla Confraternita di Nostra Signora delli Raccomandati, artigiani e nobili orvietani, sorta l’8 aprile 1300. Nelle pagine dello statuto di fondazione si legge che lo scopo primario della confraternita era insegnare al confrate a vivere da buon cristiano ed aiutarlo nelle difficoltà.
Chissà che senso aveva nell’italiano di quel tardo medievale la parola “raccomandati”.

Quando domenica scorsa nel duomo di Orvieto me la sono trovata davanti, nella affrescatissima cappella del miracolo, ho pensato che sono un “raccomandato” a lei e da lei e mi sono visto alla sua destra, mescolato tra gli uomini che le si assiepano attorno. Le ho anche “raccomandato” tante persone…
Al di là del suo significato originario, che non so, questo titolo mi piace: “Madonna dei raccomandati”.

Oggi, passando sotto Orvieto in andata e ritorno, ho ripensato a lei. Tornato a casa, mi ritrovo a messa con la mia numerosa comunità e mi viene da ridisegnare l’icona. In quella di Orvieto tutti i “raccomandati”, gli uomini da una parte le donne dall’altra, sono orvietani. I “raccomandati” di casa mia sono di tutti i colori, di una trentina di nazioni: una varietà straordinaria.
Vorrei proprio chiedere a Lippo Lemmi di riprendere i pennelli e mettere sotto il manto di Maria i volti così diversi dei miei fratelli. In ogni caso io li ho già “raccomandati”.

mercoledì 26 febbraio 2020

L’uomo della speranza



“Che cosa mi darai?”. Se lo domandava e se lo ripeteva, come un’ossessione: “Che cosa mi darai?”. Si sentiva deluso. Più ancora, tradito. Si girava e rigirava sulla stuoia, con un’agitazione crescente. La notte era fredda, ma aveva gettato via il mantello che lo copriva e continuava a domandare: “Che cosa mi darai?”. Sarai, che gli dormiva accanto, si svegliò, gli si avvicinò, l’abbracciò. “Cosa c’è?”. Gli toccò la fronte. “Stai bruciando, hai la febbre. Mettiti quieto, cerca di riposare”.
Lo ripeté come un grido: “Che cosa mi darai?”. 
Si alzò e uscì dalla tenda.

Che silenzio là fuori, e che pace. Strideva col tumulto che lo agitava.
Era ancora turbato dalle voci udite poche ore prima, quando il sole era al tramonto e inondava di luce calda la steppa d’intorno. Aveva ancora nelle orecchie e, più abbarbicati nel cuore, i nomi dei bambini del clan che a sera le mamme, all’entrata della tenda, avevano chiamato per cena. Li conosceva tutti quei nomi, ad uno ad uno, e ognuno gli disegnava un volto. Erano la sua tribù, che amava, che gli era fedele, che guidava ormai da anni di pascolo in pascolo in quella terra straniera che lentamente gli diventava familiare. Erano i suoi figli, come lo erano i loro genitori. Era la sua tribù. Ne era il capo indiscusso, amato e temuto, venerato come un patriarca.
Ma non erano suoi.
Quella sera, come ogni altra sera, ormai da anni e anni, sua moglie non aveva chiamato nessun figlio per la cena. Non aveva figli, lui.
Ormai era anziano. Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene come quando era giovane, la forza di un bufalo. Ma era anziano. E senza figli.
Sarebbero passati pochi anni e presto la sera, nelle tende, quando si narrano le storie dei padri, nessuno l’avrebbe più ricordato, sparito come il sogno d’una notte.
Nel silenzio della notte, sotto un cielo d’un mare di stelle, gridò, senza voce, il suo lamento:
M’hai strappato dalla mia terra,
dalla mia gente,
dai miei dèi.
M’hai lanciato verso un orizzonte
che non ha meta
in un’avventura
che ha perso ogni sapore.
Perché?
Che cosa mi darai?
Me ne vado senza figli.
Mio erede sarà il mio servo,
fedele,
ma non carne della mia carne,
non sangue del mio sangue…

Penso al grido di Abramo ogni volta che vedo persone sole. Magari hanno tutto. Quando tornano a casa dal lavoro, trovano un bell’appartamento, possono rilassarsi, uscire di nuovo a divertirsi… e poi?
Penso a quanti hanno visto il fallimento della propria famiglia e con quello il loro personale fallimento; a chi è attraversato dal dolore, dalla perdita di persone amate; a chi non riesce nella vita; a chi si sente insicuro, conosce il dubbio, è fragile, nell’oscurità…
Abramo non è il solo a chiedere a Dio “Che cosa mi darai?”.
Tanti di noi l’accompagnano.
“Fino a quando, o Signore,
mi dimenticherai?
Sarà forse per sempre?
- gridava Davide in un suo salmo –
Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?
Fino a quando avrò l’ansia nell’anima
e l’affanno nel cuore tutto il giorno? (…)
Guarda, rispondimi, o Signore,
mio Dio!” (Salmo 13, 1-3).

“Abramo, Abramo”.
Finalmente udì la voce di Dio.
“Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”, disse Dio ad Abramo, e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza” (Genesi 15, 1-5).
Era una promessa!
Per accoglierla Abramo dovette guardare in alto.
Solo dall’alto viene la parola della promessa.

Abramo credette, “sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli” (Romani, 4, 18).
È l’uomo della speranza, nostro padre nella fede.
Siamo eredi della speranza.

È l’inizio del mio libro "Dio si compromette".

martedì 25 febbraio 2020

Quante storie per una storia?


«L’anno in cui ho compiuto otto anni, abbiamo preso in casa un nuovo domestico. Si chiamava Fide. L’unica cosa che mia madre ci ha detto di lui era che la sua famiglia era molto povera. Mia madre mandava loro igname, riso e i nostri vestiti vecchi. E quando non finivo la cena, mia madre diceva: “Mangia tutto! Non lo sai? Quelli come la famiglia di Fide non hanno nulla!” Provavo, quindi, un’enorme pietà per la famiglia di Fide.
Poi, un sabato, siamo andati in visita al villaggio di Fide e sua madre ci ha mostrato un cestino con bellissime decorazioni, in rafia colorata, fatto da suo fratello. Ero stupefatta. Non avrei mai pensato che qualcuno di quella famiglia fosse in grado di produrre qualcosa. Tutto ciò che avevo sentito di loro era quanto fossero poveri, ed era diventato impossibile, per me, vederli come qualcos’altro, oltre che poveri. La loro povertà era la mia unica storia su di loro».

È uno dei tanti esempi che offre Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana, nel suo libro Il pericolo di un’unica storia, un libretto piccolo che ho letto in un soffio e che mi ha fatto pensare. Di tante cose, luoghi, persone, situazioni ci facciamo un’idea in base a un unico racconto, fino a generare un luogo comune, uno stereotipo, che sempre mortifica la complessità e la ricchezza.
Occorre guardare un oggetto da tutti i lati per coglierlo nella sua interezza. Lo stesso per le persone. Quando guardo qualcuno in metro o in treno cerco di collocarlo nel suo contesto e di indovinare le varie storie che fanno la sua persona: cos’è per sua madre, cosa lui o lei sogna, com’è la sua stanza, com'è stata la sua infanzia...
Ogni persona è unica, irrepetibile, indispensabile. Ma occorre coglierla a tutto tondo, lasciando che si esprima, che si riveli, aiutandola a scrivere la sua storia in tutta la sua pienezza, perché diventi quella che è chiamata ad essere.

lunedì 24 febbraio 2020

Le parole del discernimento



Dopo l’incontro di Firenze sulla trasmissione della fede ai figli, domenica un altro incontro, questa volta molto più numeroso, al Polo Lionello di Loppiano. Tema: “Il discernimento comunitario”.
Ho proiettato poche parole, che si prestavano al commento, al dialogo, allo scambio delle esperienze.
Cos’è il discernimento? 

- Un dono di Dio
- Lasciarsi interpellare dai segni dei tempi
- Obbedienza al Vangelo
- Entrare nel piano di Dio
Tutto questo domanda una lotta per essere fedeli.

Soprattutto richiede innestarsi in Gesù, che ha “imparato dalle cose che patì” a distinguere la voce del Padre dalla voce della natura, e ad ascoltare e lasciarsi guidare dallo Spirito.

Possiamo allora
- Ascoltare quella voce
- Considerare tutto con Lui in mezzo a noi
- Pronti a perdere la propria ispirazione donandola
- Accogliendo quella dell’altro,
- In una dinamica di reciprocità
- Così da entrare insieme nel seno del Padre (nel suo disegno)

È stato un incontro costruttivo, che si è poi arricchito di nuove “parole”, di esperienza, di interrogativi che abbiamo affrontato insieme.
Cosa sarà mai quella gioia che alla fine pervade tutti?


domenica 23 febbraio 2020

Gli Oblati e Chiara Lubich



In questo anno centenario della nascita di Chiara Lubich ho riletto qualcosa sul rapporto che abbiamo avuto con lei come Oblati. È un articolo che scrissi nel 1998 su “Missioni OMI” in occasione dei 30 anni della comunità di Marino. Mi sembra ancora attuaissimo.

Non si possono ricordare gli inizi di Marino e di Vermicino senza parlare del Movimento dei Focolari e, in particolare, della sua fondatrice, Chiara Lubich.
Ho ancora impresse nel cuore le parole che ci scrisse in occasione della festa dell’Immacolata del 1972: “Veramente la Madonna vi ama con un amore di predilezione e conta su di voi, su ciascuno di voi, per poter ridonare al mondo Gesù. E ci assicurava la sua unità e il suo ricordo particolare “perché possiate sempre di più essere Maria. L’anno dopo, in occasione dei voti perpetui di alcuni di noi, scriveva ancora: “State per mettere il piede sull’altra sponda per sempre. Che Dio vi faccia morire piuttosto che tornare indietro. Ed ognuno di voi sia fiamma accesa che mette fuoco dovunque passa coll’amore a Gesù Abbandonato”.
La passione e il profondo rispetto che ha sempre mostrato per i carismi, per i fondatori, per la vita consacrata, l’hanno portata, in tutti questi anni, a suggerirci di vivere con radicalità la nostra vita religiosa, nella sua dimensione mariana e missionaria. Il suo amore per Eugenio de Mazenod l’ha spinta ad orientarci costantemente verso di lui, a conoscerlo in profondità, a riviverne appieno il carisma.
“Sono spiritualmente tra voi - ci scriveva in occasione della beatificazione di Eugenio - sicura che Gesù in mezzo illumina le parole e la vita del vostro grande Santo Fondatore e vi farà sempre più simili a Lui, per lo splendore e la grandezza della Chiesa.
Come ho vissuto la beatificazione del vostro Fondatore? In piena unità con voi, condividendo la vostra gioia come di cosa riguardante la mia famiglia, perché la mia famiglia è la Chiesa: e nella Chiesa in particolare con chiunque è imparentato in qualche modo con l’Opera di Maria”.


E noi ci sentivamo e ci sentiamo, in qualche modo, imparentati con l’Opera di Maria (è questo il nome ufficiale del Movimento dei Focolari). E come noi tanti altri religiosi e religiose di molti istituti, in ogni parte del mondo.
Già dalla nascita del Movimento dei Focolari, religiosi e religiose avevano aderito a questo nuovo carisma che lo Spirito Santo aveva suscitato nella Chiesa. Ciò da cui erano attratti era soprattutto la freschezza di vita evangelica che in esso si viveva. Erano impressionati dalla totalità dell’impegno, dalla semplicità e dal carattere evangelico dei primi membri del Movimento. La scelta di Dio, credere incondizionatamente al suo amore, fare con gioia la sua volontà, la certezza di realizzare il disegno di Dio col vivere l’attimo presente, vedere Gesù in ogni prossimo e lo sforzo di amarlo come Lui, fino alla croce e all’abbandono, confrontarsi costantemente con il Vangelo e lasciarsi “evangelizzare” vivendo la Parola, erano aspetti di una spiritualità che dava una particolare luminosità e concretezza alla loro stessa consacrazione religiosa.
Sentivamo una affinità e una consonanza con l’ideale evangelico così come lo si vedeva vissuto dalle persone del Movimento - testimoniano i primi Oblati che, insieme ad altri religiosi erano entrati in contatto con i focolarini -. Nella loro semplicità essi ci apparivano interi, trasparenti, luminosi. Il contatto con loro metteva fortemente in luce gli elementi fondamentali della nostra stessa consacrazione religiosa ed operava una radicale trasformazione della nostra vita: un nuovo rapporto con Dio, unico tutto, al quale consacrare mente, cuore, attività; un nuovo rapporto con il nostro fondatore e la nostra famiglia religiosa. Ma soprattutto a contatto con il Movimento veniva in rilievo l’amore scambievole, l’essere un cuore solo e un’anima sola, Gesù in mezzo alle persone unite nel suo nome, l’unità. Da qui nasceva non solo un impegno maggiore a vivere e promuovere la comunione all’interno delle nostre comunità, ma - ed era una cosa nuova - anche tra religiosi di differenti Ordini e Istituti”.


Allora come adesso tanti Oblati, nella spiritualità del Movimento e nei rapporti fraterni con i suoi membri, appartenenti ad ogni vocazione, trovano non certo qualcosa che può disturbare la loro spiritualità, ma viceversa una luce che la ravviva e aiuta a comprenderla meglio. Sentono perfettamente armonizzabili le due realtà. Il Movimento dei Focolari invita infatti religiosi e religiose ad una comunione reciproca che va al di là dell’ambito dei seguaci di un fondatore o di una fondatrice e sa farsi luogo d’incontro tra persone portatrici dei diversi carismi per una più ampia e profonda dilatazione della carità. Quello che il cristianesimo insegna nel campo del rapporto fra singoli - amare, conoscersi, farsi uno con gli altri, fino al punto di potersi comunicare i doni eventuali che Dio ci ha fatto - vogliamo venga trasferito nel piano sociale, sì da conoscere, stimare ed amare gli altri Istituti, Movimenti ed Opere della Chiesa e suscitare o accrescere fra tutti la reciproca comunione di beni spirituali.
L’esperienza e la dottrina sul rapporto tra il Movimento e i religiosi si è venuta codificando in questi anni, ed ha conosciuto una sempre più esplicita approvazione da parte della Chiesa. Parlando di questa esperienza e della novità del fatto che religiosi di tanti istituti diversi si incontrano tra di loro nell’ambito del Movimento dei Focolari, Paolo VI diceva: “Non è cresciuta la fraternità? È tolta qualcosa all’originalità dei vostri Istituti? No! Il confronto fraterno - ecco il Focolare! - aumenta la carità rispettiva e collettiva” (14.7.1979). E più recentemente Giovanni Paolo II: “La spiritualità di comunione che l’Opera di Maria promuove e coltiva, costituisce una dimensione essenziale della vita cristiana. Vi incoraggio - continuava rivolgendosi alle 400 religiose presenti - a crescere in essa, a viverla nelle vostre comunità e negli ambienti dove operate” (17.4.1996).
“Nessuno - ha scritto Jesus Castellano, preside dell’Istituto di spiritualità Teresianum - abbia timore o sospetto di un’Opera che porta il sigillo dell’amore e della discrezione della Madre. Anche il carisma dell’Opera di Maria, del Movimento dei Focolari, è un servizio per il bene comune della Chiesa e di tutte le famiglie religiose. Un carisma ed un servizio affinché insieme possiamo riscoprire ed attuare nella vita religiosa e fra le famiglie religiose il testamento di Gesù, al servizio del quale sono convogliati tutti i carismi della Chiesa: “Che tutti siano uno, affinché il mondo creda” (Gv 17, 21). Oggi, questo pressante invito e preghiera di Gesù ci richiamano insieme alla comunione nell’unità per una più feconda testimonianza e missione”.


Proprio questo contatto con il Movimento ci ha spinti, non solo ad aprirci alla comunione con tutte le varie componenti ecclesiali, ma anche ad approfondire la nostra vocazione specifica. Le due cose sono andate di pari passo. Più cresce la comunione ecclesiale, più c’è la luce per capire il proprio particolare.
Così abbiamo seguito quanto Chiara ci aveva detto nel 1974: “Se io potessi darvi un consiglio, vi direi: Cercate di studiare bene il vostro Fondatore agli inizi, nei primi anni della sua vita”.
Fu così che Vermicino si è caratterizzato per uno studio sempre più intenso del fondatore e del carisma oblato. Ero ancora studente di teologia, quando con i miei compagni donammo a Chiara uno dei primi frutti di quel lavoro: un libretto ciclostilato con alcuni pensieri sulla vita fraterna, tratti dagli scritti di sant'Eugenio.
Pochi giorni dopo ci chiese se poteva mandare copia di quel libretto a tutti i focolari, sparsi nel mondo. Lo aveva letto d’un fiato, “come si beve un sorbetto” - aggiungeva. Era rimasta incantata da Eugenio de Mazenod: “La sua fede nella Chiesa è come una roccia. Pur essendo un grande fondatore, ha molto più del padre. E si sente in lui un’indubbia influenza mariana: ha un cuore di Madre. È grande perché ha come idea fondamentale la legge della nuova alleanza, quella di Gesù. Lo si vede tutto intento a cementare i mattoni della sua opera, suscitando l’amore reciproco e riversando quel particolarissimo amore che lui sente per i suoi e che viene da un cuore di carne”. Chiara aveva capito sant’Eugenio nel profondo della sua personalità spirituale.
Ma ciò che più mi colpì allora furono queste parole di Chiara rivolte a noi Oblati, sempre in quella circostanza: “Se loro, per ria del carisma dell’unità, si sentono dell’Opera di Maria, io per via del loro fondatore mi sento Oblata di Maria Immacolata”. E subito aggiungeva: “Ma io mi sento di tutti gli Ordini: di san Francesco, di san Benedetto...”. Queste parole mi fecero intravedere un cuore cattolico, aperto, capace di spaziare sulla Chiesa intera, pronto ad accogliere e condividere il bene ovunque e comunque si presenti.


Mi sento di tutti gli Ordini...”. Queste stesse parole, espresse in modo diverso, le ho poi ritrovate spesso negli scritti di Chiara. “Se da una parte siamo coscienti che il carisma del nostro Movimento è utile a tutta la Chiesa - scriveva ad esempio leggendo gli scritti di san Giovanni della Croce - dall’altra siamo pure convinti che tutti i carismi della Chiesa sono utili a noi, figli della Chiesa. E allora dobbiamo imparare da tutti i santi”. Per questo sa mettersi con umiltà alla scuola dei santi, anche di sant’Eugenio. La loro esperienza le appartiene, come tutto ciò che è Chiesa. “È proprio della nostra spiritualità - scrive in proposito - imparare dai santi, farci figli di essi, per partecipare del loro carisma”.
In questa stessa logica di comunione ecclesiale e di respiro universale, anche tanti di noi Oblati vogliamo imparare da questo carisma che Dio ha dato per il mondo di oggi. Allora, sempre più, anche la parola del Vangelo fatta propria da sant’Eugenio, “Mi ha mandato ad evangelizzare i poveri”, sarà tutta orientata ad attuare il testamento di Gesù: “Che tutti siano uno”.


sabato 22 febbraio 2020

Perfetti come il Padre?



“… siate figli del Padre vostro che è nei cieli”. “… siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. (Mt 5, 38-48)

Perfetti come il Padre? Impossibile. Cosa mai ci chiede Gesù? O non sa chi è il Padre, la cui perfezione non ha fine (sembra invece che lo sappia bene: è suo Figlio!), o non sa chi siamo noi, infinitamente imperfetti (lo sa bene, è uomo come noi!).
La risposta sta nell’altra richiesta: “… siate figli del Padre vostro che è nei cieli”.
È proprio questo il dono che Gesù è venuto a portarci, la figliolanza divina.
Siamo figli di Dio, esclama l’apostolo Giovanni meravigliato di tanta grandezza: “e lo siamo realmente!” (1 Gv 3, 1)

Queste due parole, che troviamo nel discorso della montagna, si rispecchiano l’una nell’altra.
Possiamo essere “perfetti” come il Padre perché ci ha fatti figli suoi, e i figli somigliano il padre…

Ma in cosa consiste la “perfezione” del Padre?
Ce lo spiega subito Matteo: consiste in un amore premuroso, che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.
Luca nel suo Vangelo, al posto di “perfetti” come il Padre dice di essere “misericordiosi” come il Padre.
Per Gesù la grandezza del Padre sta nell’amare tutti, senza misura.
Anche l’invito rivolto a noi ad essere perfetti come il Padre, in concreto è un invito ad essere misericordiosi, ad amare, a “salutare”, ad avere rapporti positivi con tutti.

Quella parola “siate perfetti” riecheggia anche un’altra parola della Scrittura: “Siate santi, come io sono santo” (Lc 19, 2; 1 Pt 1, 15-16).
Santità e amore di misericordia e perfezione sono sinonimi.

Senza fare dell’erudizione conviene anche ricordare che in greco la parola perfezione, ha in sé il temine telos, che significa “fine”. La perfezione è raggiungere la meta.
In questo Vangelo Gesù ci indica proprio la meta, che è la santità, ossia vivere l’amore fino in fondo, come Gesù, che ha amato perfino i nemici (“se amate quelli che vi amano… se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?”), come il Padre, che dona indistintamente a tutti.
Qual è dunque la meta del nostro cammino? Somigliare sempre più al Padre, come gli somiglia in tutto Gesù. Fino a quando saremo tutti in Lui, la meta ultima.


venerdì 21 febbraio 2020

A Firenze per dare "Dio alle future generazioni"


Io che non ho figli dovrei spiegare ai genitori come si trasmette la fede ai figli.
Ho accettato l’invito ad andare al seminario che dovrei tenere a Firenze non perché io ho qualcosa da dire, ma per facilitare i genitori a dire qualcosa in merito.
Mi ha sempre affascinato Paolo che da vecchio scrive al discepolo Teotimo di custodire il “patrimonio”, il “depositum fidei” (1 Tm 6, 20). Mi sono sempre immaginato la fede come un tesoro prezioso che passa di mano in mano attraverso i secoli.
Quando era nel pieno delle sue forze Paolo non ha mai spesso di trasmettere quello che a sua volta aveva ricevuto, come scrive nella prima lettera ai Corinti: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (1 Cor 11, 23); “Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi” (1 Cor 15, 1).
Ora che è vecchio affida a Timoteo, che è giovane, di continuare la missione.
Trasmettere la fede: che mistero grande! È un dono di Dio!

Cosa dirò ai genitori e ai catechisti che verranno all’incontro a Firenze?
Forse inizierò con tre pagine della Sacra Scrittura:
- Il rapporto di Gesù con i bambini: diretto: se li prende in braccio, se li mette accanto mentre parla: i bambini sono pienamente coinvolti (Mt 19, 13-15; Lc 9, 46-49); lo stesso nell’entrata di Gesù a Gerusalemme (Mt 21, 14-16);
- Il carceriere di Filippi: tutta la famiglia, bambini compresa, viene battezzata: la fede è un fatto familiare! (Atti 16, 25-34);
- Eutico, il ragazzo seduto sulla finestra che cade dal terzo piano perché si è addormentato mentre Paolo sta parlando: i ragazzi possono anche addormentarsi, l’importante è che ci siano (e che non cadano di sotto!) (Atti 20, 7-12)

Porterò con me il libro incantevole che Papa Francesco ha scritto ai bambini: I bambini sono speranza.
Farò conoscere i libri pieni di saggezza di Ezio Aceti.
Farò raccontare l’esperienza di una mamma, una catechista e una maestra.
Ascolteremo quello che Chiara Lubich disse al Congresso Internazionale Teologico-Pastorale del Giubileo del 20 su “L’evangelizzazione dei figli”...
E poi… e poi chissà che non veniamo tutti coinvolti!

giovedì 20 febbraio 2020

I giovani e le ragazze di padre Ivo


Mi chiamano all’ingresso: C’è una signora che vorrebbe parlare con te.
Scendo: Ci conosciamo?
Lei: Lei non mi conosce, ma io la conosco…
È una delle “ragazze” del gruppo scout che p. Ivo Beaudoin ha accompagnato per tanti anni. Da quando, 11 anni fa, p. Ivo ha lasciato Roma per tornare in Canada, si sono sentiti via skype ogni settimana e lui parlava anche di me, contento che fossi io a continuare il suo lavoro…
Nell’archivio trovo l’album con le foto delle uscite in montagna, i campeggi a San Liberato nelle Marche, a Leonessa in Abruzzo, a Roviano, Carsoli, nel Lazio, o a Sassovivo in Umbria, i momenti del giuramento, le messe all’aria aperta, le catechesi settimanali a Roma…
Ha iniziato negli anni Settanta.
“Ho molto amato questo apostolato – scriveva nel 2003 – ed è stato compreso e apprezzato dai giovani. Senza questo apostolato con i giovani, chiuso negli archivi e lavorando su documenti del XVIII e XIX secolo, avrei vissuto completamente fuori del mondo di oggi. Adesso che ho 77 anni mi costa un po’, ma i capi scout e i genitori non vogliono che lasci, dicendo che sono il simbolo del gruppo, il solo che rimane da tanti anni…”


Sabato scorso i suoi “giovani” sono venuti per celebrare una messa in suo ricordo.
Mi hanno inviato anche alcuni messaggi:

Era scuro e nodoso Padre Ivo, proprio come il legno prezioso dell’ulivo, albero che cresce con poco e su terreni anche impervi, uno dei pochi che dona frutti preziosi. Gli occhi erano piccoli, perché nascosti da grandi lenti. Ma lo sguardo era immenso, intenso e capace di arrivare dritto al cuore. Piccola anche la statura, ma enorme la forza, instancabile l’azione. Fragorosa e profonda la risata, sempre pronta ad arrivare nelle serate passate attorno al fuoco, mentre cantavamo e facevamo le cenette. Ma soprattutto costante la presenza e l’amore che in silenzio e senza chiedere nulla in cambio ci ha sempre donato, anche nelle molte preghiere che, ne sono sicuro, ha rivolto per ciascuno di noi.

Ritengo una fortuna, meglio una grazia, averti incontrato. Sei stato per me un amico, una guida, un esempio…

È stato un onore e un piacere aver fatto un pezzo di strada insieme a te…

Padre Ivo ci ha insegnato tanto, con discrezione, umiltà, dedizione, siamo tutti almeno per qualcosa suoi figlie e figlie. Ringrazio il Signore per averlo messo sulle nostre, sulla mia strada.

Ciao Ivo, abbiamo camminato insieme, la tua strada è stata per me un meraviglioso periodo anche la mia, i nostri zaini sulle spalle, sui monti erano leggeri, i tuoi ragazzi e ragazze sono oggi uomini e donne che hai seguito da quando cantavano in cerchio “fratelli alla candida luca…”, a quando gli hai aiutati a montare la tenda o ad accendere un fuoco mentre pioveva, a giocare e a pregare in quel grande tempio che era, che è il bosco. Hai parlato al loro cuore con le parole più belle, quelle dell’esempio, del servizio, della disponibilità ad ascoltarli, sempre e tutti, senza dire mai “scusa sono stanco ne parliamo domani”. Hai insegnato loro, il più genuino spirito dello Scautismo, quello di saper guidare da soli la loro barca, ad essere uomini che considerano loro onore meritare fiducia. Grazie Ivo.

Un’anima gentile e ricca di vita.

Una delle più belle persone conosciute nella mia vita.

Padre Ivo è stato per noi una guida forte e serena, un amico, un fratello.


mercoledì 19 febbraio 2020

La luce del beato Angelico

Sembrerà impossibile eppure, benché sia toscano e abbia fatto il mio liceo classico a Firenze, soltanto pochi anni fa sono stato per la prima volta nel convento dei Domenicani a san Marco. Gli affreschi del Beato Angelico li avevo visti migliaia di volte, sempre in riproduzione. Entrare nel museo che si apre sul chiostro a pianterreno è come entrare in un paradiso: le tavole esposte sono di grande ricchezza, piene di ori, lapislazzuli, scintille del divino. È un incanto. Vi sono dei quadri piccoli dai quali non vorresti più staccarsi: dei gioielli…
Ma quando sono salito su per le scale per entrare nel quadrilatero del primo piano con le celle dei frati è stata un’emozione unica. Intanto si para davanti una delle più belle Annunciazioni, dove il cielo si sposa con la terra. Ne rimasi abbagliato.
Ma la sorpresa è stata entrare nelle celle. Gli affreschi si fanno essenziali, luminosi: intensa bellezza e alta spiritualità si fondono. Sarei voluto rimanere lì ad ammirare e contemplare…


Ieri pomeriggio ho ricordato quell’esperienza nel convento dei Domenicani della Minerva a Roma.
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Mario Dal Bello, assieme a tre critici d’arte, ha presentato il suo libro: La rivoluzione della luce. Beato Angelico.
“Non si possono contemplare le opere di Beato Angelico – ha scritto – se l’animo non è tranquillo, pulito, libero dalla polvere quotidiana che lo inquina. La luce della sua arte può allora ferire o provocare un rigetto. Oppure, può aprire la porta che conduce ad una verità più ampia rasserenante e duratura. Frate Giovanni è una “presenza" che parla non di sé, ma da sé, illustrando la meraviglia di una storia umana collegata a quella divina, tutta intrisa di luce. E ancora oggi il pittore è lì, lungo le scale del convento di San Marco o in quel porticato oppure sulle pareti di un museo, in attesa di parlare ad ognuno in un colloquio molto personale. Perciò, quando questo accade, sembra di respirare per la prima volta perché Angelico non cerca di capire e trasmettere cosa sia la bellezza, ma Chi sia la bellezza”.
La presentazione si è conclusa mostrando uno dei più bei bambini che mai sia stato dipinto…

Il 7 marzo prossimo, col gruppo dei “Santi romani”, visiteremo i due santi toscani in Roma: Caterina da Siena e il beato Angelico, sepolti uno accanto all’altro nella chiesa di santa 

martedì 18 febbraio 2020

Lettera a Tommaso Sorgi


Caro Tommaso,
sai cosa mi succede con i libri. Quando ne arriva uno nuovo a volte inizio subito a leggerlo, altre volte lo metto da parte: “Lo leggerò a suo tempo”, mi dico. Può stare lì per anni. Ogni tanto, quando scorro la mia libreria, me lo rivedo davanti; lentamente mi diventa una presenza familiare: so che attende con pazienza. Poi un giorno, senza un particolare perché, lo prendo in mano e comincio la lettura, ora più gustosa dopo la lunga attesa.
Così mi è capitato con il tuo libro, pubblicato nove anni fa.
L’ho letto in questi giorni, nella mia stanza, in metro, in treno…, a bocconi, ma senza mai perdere il filo. L’ho terminato ieri e oggi sono andato a cercare il dattiloscritto che mi avevi inviato. C’è ancora allegato il biglietto d’accompagnamento, datato 31 marzo 2001:

“Carissimo p. FABIO,
ho lavorato per due anni a questa redazione su Giordani e la preghiera, richiestomi da mons. Tasciotti.
Puoi leggerlo con attenzione?
Con la speranza che, nel pubblicarlo, possa essere impreziosito da una tua introduzione.
Subito dopo le feste pasquali, ti cercherò.
Con affetto e stima.
Tuo in MARIA, oblato anch’io.
Tommaso”

Con la posta mi succede come per i libri. Ad alcune lettere rispondo subito, altre rimangono lì a lungo… la tua diciannove anni! Ma non restano disattese, e finalmente ti rispondo.

Chissà perché nel 2001 non lessi il tuo testo. Quando me lo mandasti ero ancora in Asia, dove ero andato per più di un mese, passando dalla Thailandia, al Vietnam, alla Corea, alle Filippine. Al ritorno fui ripreso dalla Scuola Abbà, dal preparare l’incontro con l’Associazione dei Membri Curie Generalizie e chissà da quante altre occupazioni. Eppure il tema del tuo scritto mi interessava particolarmente. In quel periodo infatti Chiara avrebbe voluto affidarmi il compito di postulatore per la causa di beatificazione di Igino Giordani promossa dal Vescovo di Tivoli. “Farai un po’ da ‘regista’, mi diceva, lasciando che siano altre persone a lavorare nei diversi ambiti storici, teologici e giuridici. Basterà dedicare a questo lavoro un giorno alla settimana per riservare l’altro tempo al Centro dei religiosi e agli altri impegni, come l’università, gli Oblati...”.
C’è un tempo per ogni cosa. Il tempo per leggere il tuo libro, Il “viaggio”, il “volo di Igino Giordani, è arrivato adesso.  ... e adesso, come vedi, rispondo alla tua lettera, ma per quanto riguarda la presentazione, mi dispiace, ti ho deluso (hai aspettato 10 anni!, fin quando hai pubblicato il libro senza nessuna presentazione).

Chissà cosa avrei scritto se allora avessi risposto alla tua richiesta. La mia lettura sarebbe stata diversa da quella di adesso. Allora lo sguardo si sarebbe incentrato su Giordani e avrei parlato del sapiente percorso che hai saputo tracciare: un capolavoro di teologia spirituale, un ritratto perfetto che illustra la sua santità: basterebbe da solo a costituire la positio per il processo di beatificazione.
Adesso invece leggendo il tuo libro non posso guardare a lui senza guardare a te. In quanto scrivi ascolto la tua voce, sento il timbro secco e veloce della pronuncia, vedo la tua mimica, sento il tuo sguardo posarsi su di me, con quei tuoi occhi socchiusi per fissarmi più intensamente. Parli di Giordani e m’accorgo che parli anche di te, forse senza che neppure rendertene conto. Vi vedo rispecchiati l’uno nell’altro. Il tuo “viaggio” è stato diverso da quello di Foco, eppure anche tu, come lui, hai spiccato il “volo” in Dio. Quei tratti d’unione profonda con Cristo, l’amore per Maria, l’attenzione al fratello che descrivi così bene nella vita di Giordani, sono spesso i tuoi. Anche tu hai raggiunto quell’unione mistica con Dio che descrivi con senso di pudore.

Era l’impressione che ebbi l’ultima volta che ti ho incontrato, il 18 gennaio 2014 quando, assieme a Luigino Bruni, venni a trovarti nella tua casa a Teramo. Nel mio diario annotai: «Sul comodino, accanto al letto, la cartella con i fogli su cui Tommaso sta lavorando: “La maternità di Dio”. “Mi colpirono le parole di Giovanni Paolo I – racconta – quando disse che Dio, oltre ad essere Padre, è anche Madre. Da allora ci ho pensato spesso ed ora scrivo su questa realtà di Dio”. Lasciandolo mi è sembrato di scorgere anche in lui un tocco della maternità divina».
L’impressione di allora mi è confermata dalla lettura del tuo libro: hai raggiunto la familiarità nel rapporto con Dio Padre e Madre.
Adesso sento ancora più intenso quel tuo “affetto” che mi dichiaravi alla conclusione del breve biglietto, e quella “stima” immeritata da parte mia e sincera da parte tua.

Un’ultima confidenza. Come segnalibro che ha scandito la lettura del tuo libro, casualmente ho tenuto la foto di Domenico Mangano; l’avevo tra mano perché nel periodo di Natale ho letto tutti i suoi scritti.
Così sono stato – e sono – in compagnia di tre persone profondamente legate tra di loro: tu, Igino e Domenico. Un trio unito materialmente dal libro, e profondamente da un unico Ideale di vita, da un identico impegno politico, da limpidezza d’animo, da una rettitudine diamantina, da evangelica “ingenuità”, da una santità ricca d’umanità.
Vi sento tutti e tre così vicini…
Sono sicuro che mi accompagnate nel mio viaggio, fino a quando non mi vedete spiccare il “volo” come voi, con voi.

Con affetto e stima.
Tuo in MARIA, focolarino anch’io.
Fabio

lunedì 17 febbraio 2020

Narrare il carisma... a Ciciliano




Ciciliano. Mai sentito nominare? Neanch’io, fino ad oggi.
Un borgo medievale arroccato attorno ad un castello, in mezzo ai monti tiburtini e prenestini. Venendo da Castelmadama appare d’improvviso lassù, quasi sospeso per aria.
Un piccolo gioiello tutto sassi e pietre con vedute ampie: la Mentorella, i paesi lontani...
Al “Centro Oreb” svolgo una conversazione sulle edizioni delle opere di un fondatore. Le mie lezioni di sempre… che incantano sempre, non per quello che dico, ma per il soggetto: i carismi sono sempre i carismi.
Non mi stanco di ripetere che il carisma di un fondatore è una “esperienza” e quindi per sua natura dinamica, un processo evolutivo che difficilmente si presta a essere circoscritto in schemi o definizioni. Più che una formula esso è una storia, azione concreta dello Spirito nella vita di una persona che si lascia condurre per vie nuove. Prima di una definizione il carisma è la narrazione di una storia.

È certamente legittimo, anzi doveroso, enucleare le componenti del carisma e articolarle in modo da consentirne una sempre maggiore comprensione. Ma non si può pretendere di fissare una volta per tutte il carisma che, al pari dello Spirito che lo dona, sfugge per sua natura alla definizione e rimane dinamico. Non si può definire la vita. Il carisma può essere compreso per esperienza, per grazia, partecipando al suo intrinseco dinamismo. Ogni sua formulazione dovrà essere riletta alla luce del cammino storico percorso dal fondatore e, dopo di lui, dall’intera Famiglia nata da lui. Avviene qualcosa di analogo a quanto accade per le formule di fede. Esse esprimono la Buona Novella secondo un movimento che va dal Vangelo, un racconto, al Credo, una serie di enunciati. Ma il Credo dovrà sempre essere riletto alla luce del Vangelo, compiendo così il percorso inverso: dal Credo al Vangelo.
Ogni generazione è chiamata a rileggere la storia del suo fondatore e a reinterpretarla. È chiamata a guardare al proprio passato come alle proprie radici, così da poter estendere con sempre maggiore forza i rami dell’albero da esse generato e portare frutto nell’oggi. L’albero vive delle sue radici. Si legge il passato per interpretare il presente e per preparare in modo creativo il futuro: un fondatore non rimane indietro, cammina davanti a noi.

Saper narrare le proprie origini vuol dire cogliere il carisma nel suo divenire. Si comprende come Dio ha preparato un fondatore o una fondatrice nel periodo precedente l’ispirazione, si rivivono i momenti della illuminazione, si ripercorre con lui il cammino evolutivo, fino ad intuirne gli elementi fondamentali che emergono dalla narrazione. In definitiva, si coglie il filo genetico del carisma e ciò che lo caratterizza. È una riflessione sulla storia.
Come dunque si trasmette il carisma? Narrando una storia. Dobbiamo imparare ad essere dei fabulatori.