Passeggiare sull’Aventino, tra basiliche, villette
liberty di inizio Novecento, strade alberate e giardini, è sempre un’esperienza
piacevole. In questi giorni sono ospite al clivio dei Publicii, la prima strada
lastricata dell’antica Roma, che dal Circo Massimo portava sull’Aventino. Oggi sale
tra il roseto di Roma e il giardino degli aranci, accanto a santa Sabina. Tra
il roseto e il giardino degli aranci c’è il monastero delle Camaldolesi.
Quando a sera si stempera il caldo torrido di questi
giorni, le monache sciamano fuori e innaffiare orto e giardino. Una anziana,
proveniente dalla Sardegna, mi racconta la storia di questo monastero che di
monastero non ha proprio l’aria. È infatti una villa pontificia che Pio IX donò
alle suore da sei anni vaganti per Roma, da quando i Piemontesi, conquistata la
città nel 1870, le avevano cacciate dal loro monastero vicino al Laterano.
Pochi anni più tardi, così mi racconta la nostra suora sarda, il governo decise
di costruire il monumento a Mazzini proprio nel loro orto. Quando arrivò la
rappresentanza per la cerimonia della prima pietra, tutte le monache si rifugiarono
in chiesa. La suora dell’orto andò invece incontro alla regina dicendole: “Ma
che bella cosa fa tuo marito, che ci priva dell’orto che è l’unico
sostentamento del nostro monastero”. Non si sa come, ma il grande monumento a
Mazzini oggi è più sotto, davanti al Circo Massimo.
La suora che, mentre innaffia i fiori, mi racconta con
orgoglio la storia ha la stessa grinta di quella che più di cento anni fa
affrontò la Regina.
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