lunedì 13 marzo 2017

L’inizio e il compimento / 2


«Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2, 49).
Il verbo devo è caratteristico dei Sinottici, dove Gesù lo impiega soprattutto per indicare la sua passione e risurrezione: «"Il Figlio dell'uomo - disse - deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno"» (Lc 9, 22).
Non mi pare si tratti di un dovere morale frutto di una imposizione che va rispettata, un peso che occorre portare volenti o nolenti. Implica piuttosto la gioia nel prendere coscienza di aver ricevuto una missione che suscita il desiderio della sua attuazione: “Il Padre ha fiducia in me, mi mette a parte dei suoi progetti, mi chiama a collaborare alla sua opera…”. Di qui lo slancio iniziale: "Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà".

Viene però il momento nel quale Gesù avverte che il passaggio obbligato per il compimento della sua missione passa attraverso la morte. Ed ecco il triplice annuncio della passione: «Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno» (Mt 16, 21; 17, 22-23; 20, 18-19).
Nei Vangeli di Matteo e di Marco Gesù ripete fino all’ultimo giorno la sua disponibilità alla volontà del Padre, anche quando gli domanda di bere il calice, di dare la vita: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26, 39.42; Mc 14, 36.39). Lo chiama ancora “Padre mio”, come la prima volta che egli pronunciò parola. Ma ora non c’è più lo slancio gioioso di allora; c’è piuttosto la fatica di essere fedele alla missione affidatagli.
Ancora per la Lettera agli Ebrei l’adempimento della volontà del Padre implica «forti grida e lacrime», richiede il «pieno abbandono a lui», un’obbedienza imparata dal patire, che lo fa diventare «sacerdote», ossia «causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 7-10).
Il Vangelo di Giovanni parla a sua volta del turbamento di Gesù: «Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora!» (Gv 12, 27).

Tra l’inizio e il compimento appare la fedeltà eroica: avanti fono in fondo, costi quello che costi. Perché la missione porti frutto occorre che il chicco di grano cada in terra e muoia (cf. Gv 12, 24).
Accanto alle ultime parole piene di serenità riportate da Luca - «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» e da Giovanni - «È compiuto», vi sono anche quelle drammatiche di Marco e Matteo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», il grido finale inarticolato. Anche quest’ultime parole indicano il compimento e anch’esse, a modo loro, sono un autentico atto d’affidamento al Padre, per quanto appaia nascosto.
La missione di Gesù appare qui in tutta la sua straordinaria grandezza: ha riconciliato cielo e terra. Apre a noi la via e ci comunica la fortezza e la capacità di essere fedeli come lui nel compimento della missione che il Padre ha affidato anche a noi.


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