«Non
sapevate che io devo occuparmi delle
cose del Padre mio?» (Lc 2, 49).
Il verbo devo è caratteristico dei Sinottici,
dove Gesù lo impiega soprattutto per indicare la sua passione e risurrezione: «"Il
Figlio dell'uomo - disse - deve
soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli
scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno"» (Lc 9, 22).
Non mi pare si tratti di un dovere morale
frutto di una imposizione che va rispettata, un peso che occorre portare
volenti o nolenti. Implica piuttosto la gioia nel prendere coscienza di aver
ricevuto una missione che suscita il desiderio della sua attuazione: “Il Padre ha
fiducia in me, mi mette a parte dei suoi progetti, mi chiama a collaborare alla
sua opera…”. Di qui lo slancio iniziale: "Ecco, io vengo per fare, o Dio,
la tua volontà".
Viene però il momento nel quale Gesù avverte che
il passaggio obbligato per il compimento della sua missione passa attraverso la
morte. Ed ecco il triplice annuncio della passione: «Da allora Gesù
cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e
soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e
venire ucciso e risuscitare il terzo giorno» (Mt 16, 21; 17, 22-23; 20, 18-19).
Nei
Vangeli di Matteo e di Marco Gesù ripete fino all’ultimo giorno la sua
disponibilità alla volontà del Padre, anche quando gli domanda di bere il
calice, di dare la vita: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!
Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt
26, 39.42; Mc 14, 36.39). Lo chiama
ancora “Padre mio”, come la prima volta che egli pronunciò parola. Ma ora non c’è
più lo slancio gioioso di allora; c’è piuttosto la fatica di essere fedele alla
missione affidatagli.
Ancora per la Lettera agli Ebrei l’adempimento
della volontà del Padre implica «forti grida e lacrime», richiede il «pieno
abbandono a lui», un’obbedienza imparata dal patire, che lo fa diventare
«sacerdote», ossia «causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono»
(Eb 5, 7-10).
Il Vangelo di Giovanni parla a sua volta del turbamento
di Gesù: «Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da
quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora!» (Gv 12, 27).
Tra l’inizio
e il compimento appare la fedeltà eroica: avanti fono in fondo, costi quello
che costi. Perché la missione porti frutto occorre che il chicco di grano cada
in terra e muoia (cf. Gv 12, 24).
Accanto
alle ultime parole piene di serenità riportate da Luca - «Padre, nelle tue mani
consegno il mio spirito» e da Giovanni - «È compiuto», vi sono anche quelle drammatiche di Marco e Matteo: «Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?», il grido finale inarticolato. Anche quest’ultime
parole indicano il compimento e anch’esse, a modo loro, sono un autentico atto
d’affidamento al Padre, per quanto appaia nascosto.
La missione di Gesù appare qui in tutta la sua straordinaria
grandezza: ha riconciliato cielo e terra. Apre a noi la via e ci comunica la fortezza
e la capacità di essere fedeli come lui nel compimento della missione che il
Padre ha affidato anche a noi.
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